Diario di guerra /1

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Provo a riscrivere una sorta di diario, per osservare la guerra del Medioriente con gli occhi degli amici che stanno a Beirut, fissi su Hezbollah, impressionati da minacce e paure.

Il 13 ottobre scorso, al termine della sua visita a Beirut del ministro degli Esteri iraniano Hossein Amir-Abdollahian – durante la quale ha speso più tempo col segretario generale della milizia filoiraniana che col suo omologo libanese – questi ha detto che Hezbollah (con altre milizie filoiraniane) era già pronto «col dito sul grilletto»: testuali parole.

Pochi giorni dopo, il numero due di Hezbollah in Libano, capogruppo in Parlamento, durante una cerimonia funebre, ha ribadito il concetto, ripetendo le stesse parole del pasdaran prestato alla diplomazia iraniana: «abbiamo già il dito sul grilletto».

Il 26 ottobre, all’Onu, ha parlato ancora Hossein Amir-Abdollahian, sempre nei panni di capo della diplomazia iraniana e sempre con i toni cari ai pasdaran, affermando che i crimini a Gaza si stavano aggravando in modo intollerabile: perciò: «come ha detto la Guida Spirituale Ali Khameni, nessuno potrà fermare la resistenza palestinese e islamica», ove la congiunzione spiega che la questione non è solo palestinese, affatto.

L’escalation contro Israele e l’Occidente è nelle parole, meno nei fatti: ancora nei limiti di attacchi a postazioni e basi militari americane, soprattutto in Iraq.

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Il 29 ottobre Hasan Nasrallah – il leader indiscusso di Hezbollah, della citata milizia libanese come di tutto il fronte khomeinista della regione, insediato in importanti ministeri libanesi e in pieno controllo del confine con Israele – ha fatto sapere che venerdì 3 novembre, per la prima volta dall’inizio della guerra, lui stesso prenderà la parola: una novità minacciosa, annunciata con ben cinque giornate di anticipo. Una scelta che ha un significato evidente: esercitare la massima pressione psicologica.

Tutti sanno che una guerra di “contenuta intensità” è già in atto al confine israelo-libanese ed ha raggiunto un picco (relativo) il 31 ottobre con l’abbattimento di un drone israeliano e una risposta “di terra”, ma non nella fascia di confine. Ulteriori passi “verso l’alto” porterebbero, nella migliore delle ipotesi, ad un pericolosissimo conflitto regionale o a qualcosa del genere.

Nello stesso giorno dell’annuncio, carico di allarmante attesa, appunto il 29 ottobre, il presidente iraniano, Ibrahim Raisi, ha scandito: «Israele (con l’ingresso dei mezzi cingolati a Gaza) ha valicato la linea rossa».

È tuttavia evidente, nonostante il surriscaldamento di alcuni gruppi miliziani – soprattutto in Yemen e in Iraq – che l’escalation vera e propria non si è ancora data, almeno sino ad ora. Piuttosto, il surriscaldamento è stato accompagnato da iniziative diplomatiche. L’Iran sembra dire che Israele non deve valicare la vera linea rossa, che deve essere però meglio individuata.

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In tale contesto si è inserita – il 30 ottobre – la telefonata del ministro degli esteri iraniano al Segretario per i rapporti con gli Stati del Vaticano, monsignor Richard Gallagher. Sembra sensato presumere che Hossein Amir-Abdollahian abbia confermato che l’Iran non vuole l’escalation, ma che la sua base non può tollerare a lungo altro sangue, perché il sangue della popolazione palestinese sta effettivamente creando un problema di credibilità alla retorica di Tehran.

Questa telefonata – al mio sguardo e non solo – appare un evidente successo del Vaticano: il papa della fratellanza, “fumo negli occhi” di tutti i teocratici, anche iraniani, viene riconosciuto come “il” ponte per evitare gli sviluppi più pericolosi.

Arrivo così al giorno all’orizzonte del mio breve diario, ossia al prossimo venerdì – giorno della preghiera islamica – in cui prenderà la parola il leader di Hezbollah: l’ora e il giorno del discorso di Nasrallah, nella mimica del regime iraniano, indicano il tempo a disposizione della diplomazia internazionale per ristabilire il deterrente e le regole di ingaggio dello scontro che possano dirsi “accettabili”. E cosa potrebbe accadere se, entro venerdì alle 15, non fosse raggiunto?

Probabilmente questa è la domanda “chiave”, quella che mi pongo, con inquietudine, con gli amici che stanno a Beirut. Coltivare il rischio di una deflagrazione regionale del conflitto è il cuore dell’effetto psicologico su cui l’Iran conta, per ottenere e dare, pur ricordando che Hezbollah ha già ottenuto in questi giorni la conferma che Israele non sta cercando l’escalation contro l’Iran, posto che Israele non ha sfidato con forza Hezbollah, che sa, evidentemente, pensare al proprio benessere, molto più che a quello dei poveri palestinesi. Pochi lo vedono. E quindi perché Hezbollah dovrebbe alzare troppo i toni e cambiare i modi?

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Analisti, oggi, sostengono che, in un mondo arabo sempre più adirato per la condotta di Israele, il cuore del discorso di Nasrallah verterà sulla rivendicazione del ruolo di prim’ordine di Hezbollah nel conflitto in atto, con oltre 60 combattenti già caduti nella lotta «sulla strada per Gerusalemme», in ciò che passa per il colpo più duro mai inferto a Israele dai suoi nemici. Il silenzio dei leader arabi – che non hanno mosso un dito contro Israele – non farebbe altro che da amplificatore alle sue parole.

Ecco allora che secondo molti osservatori, soprattutto libanesi, ciò potrebbe bastare, senza espansioni del conflitto, per recuperare prestigio, per ripristinare la “faccia” perduta agli occhi di milioni di arabi a motivo della ferocia della carneficina perpetrata da Hezbollah su centinaia di migliaia di arabi siriani a sostegno del regime, fratricida, di Bashar al-Assad.

Secondo gli stessi osservatori libanesi, la vera linea rossa per Hezbollah resterebbe quella non detta: impedire l’eliminazione totale del braccio armato Hamas, perché ciò lascerebbe il solo Hezbollah a fronteggiare la forza dell’esercito israeliano nel prossimo futuro.

Ovviamente, in Iran, sanno che gli “interlocutori” sono perfettamente in grado di arguire quali sono i veri piani: l’escalation regionale seguirebbe un’agenda diversa; ma – attenzione – “col fuoco non si scherza”; nulla è scontato e prevedibile.

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Ora, la telefonata a monsignor Richard Gallagher appare un tassello centrale della strategia del contenimento del conflitto. Tehran oscilla tra ideologia teocratica e opportunismo. Se parlasse solo con i “pazzi” del mondo, l’opportunismo della ragionevolezza svanirebbe, perché c’è sempre “un estremista meno estremista di altri”, subito pronto a “raccogliere ciò che non ha seminato”.

In tutto ciò spicca l’ammissione stupefacente, ma anche ovvia, del primo ministro libanese: nel tutto dello scontro in atto – dalle potenziali conseguenze devastanti per l’intero Libano e i libanesi – il governo non ha alcuna voce in capitolo. Il Libano è un Paese che non ha diritto ad una politica nazionale di difesa. Questa è stata confiscata da Hezbollah, la sola milizia che può disporre delle armi: corollario della crisi che Hezbollah ha ben presente in queste ore. Dunque, se Hezbollah portasse il Libano nel baratro, le milizie libanesi si moltiplicherebbero, e molte di queste non manifesterebbero certamente le loro simpatie per Hezbollah. Mentre Hezbollah sa bene che il Libano, benché allo sfascio, serve al proprio partito, tremendamente.

Nasrallah sta puntando allora una pistola scarica? Sarebbe da irresponsabili pensarlo. Ritengo che un tale errore di valutazione non lo farà nessuno. E spero, perché si sta davvero camminando su di un crinale di montagna, in cui, almeno da una parte, c’è proprio il precipizio!

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