Nel 2012 avevo vent’anni e sapevo molto poco del mondo. Oggi non ne so molto di più, ma allora ne sapevo ancora meno. Ad esempio, non sapevo che stavo per incontrare l’uomo che sarebbe diventato Papa Francesco.
Un altro esempio della mia ignoranza: parlavo pochissimo spagnolo. Un problema, visto che stavo trascorrendo un periodo di studio all’estero a Buenos Aires, in Argentina. Le mie lezioni di spagnolo al liceo erano per lo più consistite nell’insegnante che entrava in classe e accendeva la TV. Una volta abbiamo guardato Rudy, in inglese, con sottotitoli in spagnolo. La mia conoscenza del football universitario dell’Indiana si rivelò scarsamente utile in Sud America, tanto che la mia host mom [la signora che ospitava l’autore – ndr] iniziò a preoccuparsi per me.
Mi diceva: «Devi stare attento. Non parli bene lo spagnolo. Ma i tuoi occhi, dicono: “Derubatemi, derubatemi!”». Ma anche i miei occhi parlavano uno spagnolo così pessimo che finii per essere derubato solo una volta.
Che avesse torto o ragione, questa signora si preoccupò ancora di più quando scoprì dove andavo la sera: alla parrocchia cattolica dietro l’angolo. Lì, nella penombra, la gente si riuniva attorno a un tavolo coperto di candele (non sapevo ancora chiamarlo altare). Sopra quel tavolo c’era quello che a me sembrava un grande specchio da trucco: oggi so che era un ostensorio di design decisamente minimalista. Come ho detto, non sapevo quasi nulla. Ma sapevo che mi piacevano le candele. E il silenzio.
Una sera, lei usciva dal cinema col suo fidanzato proprio mentre io scendevo i gradini della parrocchia. Era visibilmente preoccupata. «Sei cattolico?», mi chiese. «No», risposi, «solo curioso». «Un giovane dovrebbe andare in discoteca la sera!», disse. «E non solo i giovani. A Buenos Aires c’è un locale per ogni età. Olivia – la settantenne che lavorava nel suo ristorante – esce tre volte a settimana, con un fidanzato diverso ogni volta. Tu devi vivere».
E così, per dovere, suo figlio mi portò fuori il sabato sera. Era il suo posto preferito. Gente in costume da supereroe ballava dentro gabbie. Avevano ragione, in un certo senso. Dovevo imparare a vivere.
Le sue obiezioni alla mia frequentazione della chiesa erano soprattutto edonistiche, anche se la domenica a pranzo amava raccontare storie di preti e delle loro debolezze – uno era stato beccato a teatro con l’amante! Ma, anche col mio spagnolo zoppicante, cominciai a capire che c’erano ragioni più serie per stare lontani.
Il direttore della scuola ci portò un giorno in un luogo dove, durante la dittatura militare, il Governo aveva torturato le persone che faceva sparire. Ricordo quel luogo con chiarezza. Ricordo che ci dissero che i torturatori lavoravano nella cantina. Mi colpì perché proprio di fronte c’era un cartellone pubblicitario con un’attrice americana bionda che teneva in mano una boccetta di profumo chiamato Basement.
Solo quella parola inglese. In Argentina, scoprii, usano l’inglese come gli americani usano il francese: per darsi un tono. La mia host mom non chiamava il salotto sala, come dicevano i libri di testo, ma «living» – come in: Come into the living. La cantina diceva l’esatto opposto.
Ci dissero anche che, nella sala delle torture, spesso c’era un prete lì accanto, che spingeva i prigionieri a confessarsi. Dalle cantine, i corpi dei desaparecidos venivano talvolta caricati su aerei e gettati in mare. Che senso aveva andare in chiesa con preti così? A essere onesti, io i preti li notavo appena nella parrocchia che frequentavo. Le loro omelie non avevano senso per me; la Messa era un intreccio di gesti che non sapevo eseguire. Sentivo dire Padre e Hijo, li vedevo tracciarsi il segno della croce e questo era tutto ciò che riuscivo a capire.
Notavo invece le persone, soprattutto le donne anziane che si inginocchiavano senza lamentarsi su inginocchiatoi di legno duro. Una in particolare mi è rimasta impressa. Dopo la Messa andava dalla statua del Sacro Cuore, e afferrava quel Cuore fiammeggiante come si afferra un uomo per la gola – tanto era disperata la sua preghiera, tanto era sicura che Gesù potesse sopportare la rabbia, il dolore, il tormento dell’anima. Gesù, in qualche modo, già portava il peso della violenza che aveva spinto quella donna a pregare con tanta nuda necessità di essere ascoltata. Solo per una profonda, misteriosa solidarietà poteva afferrare quel Cuore in quel modo. Sapeva che il suo Cuore era il suo, che Lui lo aveva donato proprio perché potesse essere stretto così.
All’epoca non credevo. Ma sapevo che, se un giorno avessi creduto, sarebbe dovuto essere in quel modo.
Lo so, suona vittoriano, ma il problema era questo: ero consumato dalla malinconia. Il mio youth pastor [colui che animava la pastorale giovanile − ndr] mi aveva detto, a tredici anni, che se sei triste significa che non stai seguendo la volontà di Dio. Io ero triste comunque, quindi pensavo che Dio non facesse per me. La mia religione era divenuta qualcosa del genere: camminavo sotto la pioggia ascoltando indie rock. Volevo passare le serate a leggere Rainer Maria Rilke, quel poeta così terrorizzato dagli angeli. Non ero sicuro che l’amore esistesse davvero. Forse era tutto potere, manipolazione e gesti fisici usati per ottenere certe risposte. Qualcuno piangeva, un altro lo consolava e l’evoluzione ci aveva programmati per essere confortati dal tocco di un altro. Tutto qui. Il mondo era una bella crosta bagnata dalla pioggia, e poi una cantina profondissima e senza fondo. Ed era proprio così.
La donna col Cuore – come posso dirlo? – mise in crisi la mia religione. Mi fece dubitare di sapere davvero di che cosa parlavo.
La mia religione subì un ultimo colpo fatale prima che lasciassi l’Argentina. Era l’ultimo fine settimana di novembre, faceva caldo e il tempo era splendido, così decisi di prendere il subte e andare alla Cattedrale, con la sua facciata neoclassica dell’Ottocento che raffigura il ricongiungimento di Giacobbe con Giuseppe, un figlio scomparso se mai ce n’è stato uno. Nonostante fosse domenica, quasi nessuno partecipava alla Messa. Eravamo in cinquanta in quello spazio immenso, mentre nelle navate laterali i turisti entravano e uscivano per fotografare i sepolcri dei padri fondatori della nazione.
Nessuno avrebbe potuto scambiare il celebrante per un apostolo della gioia. Sì, era un vescovo, ma sembrava stanco e affranto, forse consumato da una vita che sembrava concludersi lì, a celebrare sacramenti che nessuno notava. Ricordo le sue parole quando salì sul pulpito, mentre una coppia si inseguiva ridendo nella navata laterale, con le macchine fotografiche a tracolla. «Cari amici», disse, «non vi rendete conto che questo è il tempio di Dio, non un museo?». Fu strano. Fu forse il miracolo della Pentecoste più vicino che abbia mai vissuto, perché capii ogni parola che disse, come non avevo mai capito nulla fino ad allora a Buenos Aires.
E le parole continuarono a fare breccia. «Lo dico davvero. La Chiesa non è un museo, anche se così la trattiamo. O peggio, pensiamo che sia un mausoleo, pieno solo di cose morte. Ma no, amici miei, la Chiesa è una cosa viva. Perché altrimenti avremmo un anno liturgico? Un cammino che passa da un colore all’altro, da un’emozione all’altra; è tutto un viaggio. Non capite? La Chiesa è lì per camminare con voi lungo tutta la vita. C’è la gioia della Pasqua, il dolore della Quaresima, e ci sono lunghi tratti in cui sembra non accadere nulla: il Tempo Ordinario, lo chiamiamo, in cui impariamo semplicemente a vivere, a essere discepoli. Ma la Chiesa è abbastanza grande per tutto questo, per tutta la vita, per la nostra vita. Dobbiamo ricordarlo».
E la verità è che ho cercato di ricordarlo. L’ho ricordato uscendo dalla cattedrale, sotto il sole, pensando a quell’uomo triste e dimesso che diceva parole così belle. Mi piaceva anche il fatto che fosse triste, perché dimostrava ciò che per me era così difficile da credere: che Dio non si allontana dalla nostra tristezza, ma vi si avvicina, la attraversa, la usa per dire una verità bella, che consola e guarisce. Come faceva quell’uomo a sapere queste cose? Oggi direi che le sapeva perché aveva cercato di camminare accanto a un Dio che non ha paura di scendere nei seminterrati e nei sepolcri. Il vescovo sapeva che era incredibile, ma vero: si poteva cercare i vivi tra i morti, perché Dio era andato dai morti e dagli scomparsi, e non sarebbe risalito se non portandoli tutti con sé.
Ovviamente ho ricordato quelle parole una volta tornato negli Stati Uniti, quando all’improvviso quel vescovo era ovunque – sulle copertine dei libri e sugli schermi. All’epoca, qualcuno ogni tanto comprava ancora un giornale. E le ricordo anche oggi, proprio ora, ora che quel vescovo è stato deposto in un sepolcro durante la settimana in cui la luce della Risurrezione ci trafigge da parte a parte.
La verità è che non è mai stato il mio Papa. È un fatto: non l’ho seguito nella Chiesa cattolica romana. Una storia del tutto diversa servirebbe a spiegare perché, ma per ora dirò solo questo: il problema non è mai stato che Roma assomigliasse troppo a Papa Francesco. E quanto a me? Gli somiglio troppo poco. E ora che non sono più un malinconico vittoriano, ma un anglo-cattolico irrimediabilmente vittoriano, probabilmente passerò il resto del mio sacerdozio a cercare di somigliargli di più: nel suo insistere che i preti devono uscire da sé per stare con la gente, nella sua sollecitudine per gli oppressi, nel suo desiderio di lavare i piedi, e persino, in un modo strano, nella sua riverenza: il suo desiderio che guardando alla Chiesa si veda non un museo, ma un tempio vivente. Come into the living, mi sento dire dalla mia host mom: Tu devi vivere.
E dunque, sì. Nonostante le tante cose che non so, questo lo so: non era il mio Papa. Ma era il mio vescovo. Il mio primo vescovo. E forse, questo è bastato.
Il rev. Christopher Poore, pastore della Chiesa anglo-cattolica, è dottorando alla Divinity School della Università di Chicago. La sua testimonianza è stata pubblicata sul sito della Fondazione The Living Church il 30 aprile 2025 (nostra traduzione dall’inglese; qui il testo originale).
Cuánta ausencia nos dejó el Papa Francisco lo extraño mucho y aprendí mucho en sus misas diarias de las 7 am en tiempos de la Pandemia.
Io invece, al contrario, potrei dire: era il mio Papa! Ho amato moltissimo Papa Benedetto, ero sconvolta quando si dimise, ma quando ho visto Francesco in differita al momento della sua elezione, chinarsi davanti alle persone raccolte a San Pietro, e al mondo, mi ha commosso profondamente…E’ il papa che mi ha fatto capire tanto di Dio, non potrei mai tornare indietro, e spero che nemmeno la Chiesa di Leone XIV lo faccia..Solo ora nutro il pensiero che, soprattutto nell’ultimo periodo di pontificato, fosse lui a reggere ogni peso.. proprio come san Francesco che regge la chiesa nel sogno di papa Innocenzo III…Anche per me dunque un’assenza ancora molto dolorosa
Io non sono cattolico né altro, papa Francesco mi ha attenzionato in favore degli ultimi , anche se credo di non essere egoista. Un uomo sincero e credente nel suo Dio.
Chissà se il prete che era per confortare i torturati era proprio Lui, il futuro Vescovo, il futuro Papa. Articolo avvincente scritto in modo leggero, quasi un noir con insita una potenza che esplode quando si conclude.
Può essere, visto che qualcuno millanta che papa Francesco fosse un torturatore, addirittura!
Bellissimo e profondo articolo Wow 🥰🩵 Rende bene la figura di Papa Francesco ❤️🩹
È una mancanza dolorosa la sua. È l’unico papa di cui ho la foto in casa insieme a quella delle persone che ho amato di più e che ore vivono in Dio.
Bell’articolo.
Un bello e interessante articolo. Avremo del tempo per raccogliere e diffondere l’eredità di Francesco (https://iltuttonelframmento.blogspot.com/2025/04/grazie-papa-francesco.html).