Tra Francesco e il Conclave /2: narrazioni

di:

cardinali

Il giornalista britannico David Goodhart sostiene che, nel mondo contemporaneo, vi sia una linea di demarcazione più rilevante di altre e che oggi la divisione politicamente più incisiva sia quella che separa le persone in grado di guardare il mondo da ogni/nessun luogo (anywheres) e quelle che lo guardano da un posto soltanto (somewheres), generalmente il villaggio o la città in cui sono nate, rispetto al quale hanno poche o nessuna possibilità di spostarsi o viaggiare[1].

Guardare il mondo da ogni luogo può significare guardarlo da nessun luogo. Alcuni rischiano di sacrificare così tanto la dimensione situata del proprio sguardo che, alla fine, il loro stesso punto di vista rimane anonimo e indefinito. Questo è anche il rischio di una cattolicità intesa come universalismo astratto o astraente, una visione sopraelevata e imperturbabile dello sguardo cattolico sul mondo. Tale visione rende incapaci di riconoscere non solo le moltiformi differenze della vita, ma anche la parzialità della propria prospettiva ovvero il fatto che è possibile osservare le cose solo da un luogo specifico e prospettico alla volta.

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Nei giorni che stiamo vivendo, tra il congedo commosso da Francesco e l’inizio di un nuovo Conclave, un utile esercizio collettivo consisterebbe nel chiedersi da quale punto di vista ciascuno di noi guarda il mondo e la Chiesa. Qual è la qualificazione preminente (professionale, culturale, anagrafica) nella quale mi riconosco quando rifletto sulle qualità e sulle necessità del mio tempo? Detto in altri termini: quali sono i rilievi più evidenti (risorse ed emergenze) che risaltano ai miei occhi in quanto, ad esempio, giovane operatore volontario della Caritas parrocchiale? Quali solo le qualità di questo tempo che sono rilevanti al mio sguardo di religiosa missionaria in un paese lontano e diverso da quello in cui sono nata? Che nome hanno le pianure e le alture dell’attuale paesaggio ecclesiale per me in quanto vescovo della Chiesa cattolica?

Un simile esercizio potrebbe non tanto tradursi in una collezione di «punti di vista», ma aiutarci a comprendere che la prospettiva di analisi e di giudizio sulla Chiesa e sul mondo non è una questione di «posizioni», ma di «movimenti». Non adotteremo mai un unico punto di vista nel corso della nostra vita (somewheres), così come non potremmo sostenere a lungo una posizione che guardi il mondo da ogni/nessun luogo (anywheres). La questione dei punti di vista nella Chiesa ha a che fare non tanto con la polarità oppositiva dei modelli di pensiero, quanto con il cammino dei viaggiatori ovvero con la possibilità di narrare la trasformazione in fieri dei punti di vista stessi. Durante una passeggiata in montagna, ci accorgiamo chiaramente quanto i punti di vista non abbiano soluzione di continuità e siano in costante movimento. Mentre procediamo con passo veloce o lento la nostra prospettiva sulle vette che ci sovrastano o sulla valle che si apre sotto di noi cambia costantemente. Raccontare, narrare questi mutamenti è quanto di più utile ed efficace possiamo fare per spiegare che cos’è una passeggiata in montagna.

Probabilmente, in questo momento della mia vita, il punto di vista più marcato e impegnativo dal quale tendo a guardare il mondo e la Chiesa è quello della mia professione: sono un professore italiano di filosofia sociale che insegna in un Istituto pontificio romano specializzato negli studi su matrimonio e famiglia. Proprio alcuni giorni fa, durante una lezione del corso su Famiglie migranti e mobilità umana, mi è capitato di rileggere con gli studenti un noto passaggio di Evangelii gaudium (234), quello in cui Francesco mette in guardia dal cadere in una di queste prospettive estremizzanti sul mondo: da un lato, la globalizzazione descritta come «universalismo astratto», dall’altro, la localizzazione tratteggiata invece come «un museo folkloristico di eremiti localisti».

Queste due immagini non sono le più evocative e potenti di quel paragrafo. Nel testo è infatti presente una terza immagine, quella di un treno che costantemente si muove, un treno nei quale ci sono uomini e donne comuni che guardano il mondo. La prospettiva analitica degli esperti e degli studiosi che osservano la realtà attraverso categorie e modelli (globalizzazione/localismo) non può essere disgiunta dalla prospettiva di chi semplicemente è in viaggio nel mondo, soprattutto dalla prospettiva dei «passeggeri mimetizzati del vagone di coda, che ammirano i fuochi artificiali del mondo, che è di altri, con la bocca aperta e applausi programmati».

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La scrittrice e attivista statunitense bell hooks ha narrato (non semplicemente descritto) la discriminazione razziale e sessista delle donne nere e lavoratrici presso le abitazioni delle donne bianche e benestanti nelle città americane degli anni Settanta: ogni giorno dovevamo attraversare il margine, superare la linea materiale e sociale che separava i quartieri ricchi dai sobborghi poveri, ma, alla sera, dovevamo ritornare nelle nostre case, «ci era concesso di accedere a quel mondo, ma non di viverci. Ogni sera dovevamo fare ritorno al margine, attraversare la ferrovia per raggiungere baracche e case abbandonate al limite estremo della città»[2].

Chiedersi oggi da dove guardo le cose del mondo e della Chiesa, significa chiedersi quali storie io stesso sono in grado di raccontare o di ascoltare. Nel futuro della Chiesa le pratiche di narrazione dovranno avere un ruolo sempre più diffuso e determinante. Sarà necessario spargere, nella vita ordinaria delle comunità cristiane, occasioni per raccontare e ascoltare storie. Tale gesto sarà sempre più una necessità per tutto il popolo di Dio. Tale necessità dovrà pur entrare nell’imminente conclave non come indicazione o priorità, ma come habitus acquisito e già vivente, ad esempio, nelle dinamiche quotidiane della fede popolare.

Allo stesso modo, è necessario che le pratiche legate alla narrazione siano sempre più integrate nei processi di formazione (umana, accademica e, in particolare, dei sacerdoti). Forse proprio per questa ragione, uno degli ultimi documenti di Francesco è una lettera sul ruolo della letteratura nella formazione. Ritengo che il gesto o la pratica del narrare contengano un profondo significato ecclesiale che vorrei adesso brevemente declinare in tre passaggi:

  • Narrare significa ricordarsi di aver vissuto insieme

La narrazione ha a che fare non solo con l’eredità delle nostre relazioni passate oppure con la memoria degli eventi storici che hanno preceduto la vita delle nostre comunità. Narrare significa comporre costantemente i pezzi di una storia comune, una storia che si nutre di nuovi particolari emergenti e che, mentre nuove generazioni nascono e si aggiungono, richiede il coinvolgimento di queste nell’articolazione di inedite e aggiornate narrazioni.

Ci è capitato, in questi giorni, di raccontare il primo viaggio di papa Francesco, quello che lo portò a Lampedusa, sul pezzo di mare in cui molti uomini, donne e bambini sono morti o riposano. Uno di loro, un giovane adolescente proveniente dal Mali che proprio in quel mare perse la vita, portava la propria pagella scolastica cucita nella parte interna della propria giacca. Il suo corpo e quel documento furono trovati così dai medici che ne effettuarono il riconoscimento. Potremmo certamente immaginare la storia di quel ragazzo, immaginando ad esempio il momento in cui sua madre gli ha «cucito addosso» la pagella, forse per dirgli indirettamente che avrebbe avuto una storia diversa in un paese lontano e che quel pezzo di carta cucito nella giacca non era solo la garanzia di un futuro, ma era soprattutto il ricordo di aver vissuto insieme.

Ricordarci come Chiese e comunità cristiane che abbiamo vissuto insieme, ha bisogno soprattutto di uomini e donne che, come quella madre del Mali, sappiano cucire pezzi di memoria sulla nostra pelle. Come sarebbe bello e significativo se questo compito tendesse a qualificare in maniera particolare il ruolo e la formazione dei pastori nelle Chiese che verranno!

  • Narrare significa lasciarsi immaginare dagli altri

Potremmo comunemente pensare che la narrazione sia un modo per immaginare la nostra vita o quella degli altri. La narrazione è invece essenzialmente un modo per lasciarsi immaginare dagli altri. Su questa differenza si gioca la distinzione tra l’uso coloniale e l’uso decoloniale della narrazione stessa. In una prospettiva autoritaria e coloniale la letteratura e i racconti possono essere usati come strumenti per rappresentare o addirittura identificare l’altro in quanto estraneo e diverso da me.

Nella prospettiva della letteratura postcoloniale, invece, narrare significa «lasciarsi immaginare, senza garanzie, da altre culture e in altre culture» (Gayatri Chakravorty Spivak). Il gesto massimamente sovversivo e, allo stesso tempo, kenotico non è quello di chi immagina gli altri, ma quello di chi si lascia immaginare dagli altri. Quando ti racconto la mia storia ti consegno in qualche modo la mia vita. Da quel momento in poi l’immagine di me che tu sarai in grado di restituirmi è anche il modo con cui sarai capace di accogliermi o respingermi. In tal senso la narrazione, in quanto pratica ecclesiale, sarebbe in grado di ispirare nuovi scenari di inclusione all’interno delle comunità cristiane. Molto spesso, chi non si sente accolto nella Chiesa è qualcuno che, più liberamente e generosamente di altri, è disposto a lasciarsi immaginare dagli altri, senza garanzie.

  • Narrare significa non tanto dire, quanto mostrare

Una celebre frase attribuita ad Anton Čechov recita: «Non dirmi che la luna risplende, mostrami il riflesso della sua luce nel vetro infranto». La narrazione, pur ricorrendo alla lingua e al linguaggio corrente, disinnesca volontariamente l’uso preponderante delle parole in quanto strumento di definizione esaustiva e univoca della realtà. La narrazione non definisce le cose, mostra invece la loro evoluzione, fa letteralmente vedere i sommovimenti, le pause e i mutamenti che compongono la realtà. In questo modo ogni storia non pretende di «dire» con esattezza la verità delle cose, ma la «mostra» raccontando le cose in divenire.

Questo aspetto è oltremodo necessario per la vita ecclesiale e in modo particolare nei percorsi di maturazione e formazione umana. L’accompagnamento dei giovani alla fede o nella vita sacramentale (catecumenato e iniziazione) avrebbe bisogno di molti più gesti ecclesiali in grado di mostrare, invece che dire soltanto. C’è una grande differenza, ad esempio, tra un percorso di accompagnamento verso la vita matrimoniale incentrato sul dire (enunciare contenuti ricorrendo quasi esclusivamente alla comunicazione verbale) oppure incentrato sul mostrare (far partecipare catecumeni e nubendi a un momento ordinario e organizzativo della vita della comunità). La narrazione diventa una pratica ecclesiale quando, ad esempio, invitiamo una coppia di fidanzati a preparare, insieme al gruppo che normalmente se ne occupa, l’eucarestia domenicale. In quel caso la narrazione non ha la forma del dire, ma quella del mostrare: vogliamo comunicarvi qualcosa, mentre la facciamo insieme!


[1] Cf. D. Goodhart, The Road to Somewhere: The New Tribes Shaping British Politics, Penguin Books, London 2017, 3.

[2] b. hooks, Elogio del margine – Scrivere al buio, Tamu, Napoli 2020, 127.

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