La pastorale del sommerso

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sommerso

La risposta alla domanda “chi è credente” e “chi non è credente” è molto complessa. Dio è vicino a chi lo cerca più di quanto si possa immaginare.

La secolarizzazione il cui processo si è intensificato con l’Illuminismo, ha raggiunto ora uno stadio che si manifesta come una non corrispondenza tra i valori diffusi nella società e quelli proposti dalla Chiesa.

È ricorrente la constatazione desolata che la gente viene di meno a messa, che le chiese sono vuote, che le vocazioni diminuiscono… e via enumerando. Tutto ciò non significa certo che la fede e la Chiesa siano al capolinea: semplicemente è cambiato il contesto sociologico che facilitava quella coincidenza, spesso anche di apparenza.

La secolarizzazione, tuttavia, non ha significato del tutto l’estinzione della religiosità e di una spiritualità nel suo ampio spettro che comprende quella legata alla fede, quella ancorata nell’animo umano e quella che si presenta come un dato molto soggettivo del tipo “credo a modo mio” o come ricerca di sé stessi, meditazione, yoga…

Soprattutto non ha eliminato né potrà eliminare del tutto le domande profonde che affiorano comunque nell’animo umano, anche a causa dei sottoprodotti negativi della secolarizzazione. Non è quindi scontato che il nostro tempo segni l’assenza della ricerca di Dio.

Se, da un lato, si nota il crollo della partecipazione alla messa domenicale, dall’altro, si registra la partecipazione di oltre i due terzi di italiani ai riti di passaggio: sempre meno cattolici a messa la domenica, e sempre più partecipanti ai riti stagionali di festa.

Si registra, comunque, una disaffezione verso la fede e, ancora più, verso la Chiesa, con conseguente atteggiamento di indifferenza religiosa, di abbandono della pratica religiosa e, nello stesso tempo, di una richiesta puramente sacrale dei sacramenti, con quasi nessun investimento personale. Non può non interrogarci il diffuso disgusto, se non l’avversione, verso un certo modo di essere Chiesa e, in particolare, nei confronti della liturgia avvertita come lontana dalla vita.

Per la maggioranza dei cattolici, la fede si caratterizza come una forma di religiosità stagionale che si esprime con la richiesta e la partecipazione ai riti legati alle ricorrenze familiari della nascita, della crescita, della maggiore età, della formazione della famiglia, della morte. «I riti di passaggio non sono legati solo al ruolo che essi giocano nell’impianto dottrinale a cui essi fanno riferimento, ma si rivelano invece connessi a significati sociali e culturali più articolati, individualmente e collettivamente elaborati da chi viene coinvolto» (Carlo Genova, Oltre il credere).

Già Durkheim, agli inizi del secolo scorso, aveva previsto comunque questo fenomeno alla luce della sociologia: «Il culto è costituito essenzialmente dal ciclo delle feste che tornano regolarmente in epoche determinate, il ritmo al quale obbedisce la vita religiosa non fa che esprimere il ritmo della vita sociale e deriva da esso. La società può rinnovare la consapevolezza che ha di sé soltanto a condizione di riunirsi. Ma non può tenere perpetuamente la sua assise. Le esigenze della vita non le permettono di restare definitivamente allo stato di congregazione; essa si disperde per riunirsi di nuovo quando torna a sentirne il bisogno» (Le forme elementari della vita religiosa, cit. in L. Berzano Senza più la domenica, pag.12).

Iceberg

Potremmo paragonare questa situazione della Chiesa ad un iceberg: c’è l’emerso dei praticanti, di quelli che si riconoscono nella Chiesa e nella fede che in essa si professa anche se discontinui nella frequenza ai riti; c’è poi il sommerso, ed è la massa più voluminosa, costituita da atteggiamenti che vanno da chi è alla ricerca di una risposta a dubbi che pesano sulla adesione, a chi professa una “fede a modo mio” (Luigi Comencini diceva alla figlia Francesca «Il Vangelo è un libro bellissimo. Potrai scegliere in cosa credere, ma ricordati che ignorarlo non è una prova di intelligenza, ma un peccato di presunzione»), fino a chi professa agnosticismo consapevole oppure ha assunto un atteggiamento di lontananza, indifferenza e negazione.

T. Halík, teologo e sociologo, precisa tuttavia che «sarebbe molto semplicistico considerare tutti coloro che non aderiscono ad alcuna religione organizzata come atei dogmatici, persone spiritualmente indifferenti. Molti di loro sono persone che cercano sinceramente un rapporto con il trascendente della vita, ma non trovano nelle forme religiose che hanno incontrato una strada percorribile per raggiungerlo. È in aumento il numero di coloro che si definiscono spirituali non religiosi» (Il sogno di un nuovo mattino. Lettere al papa, pag. 11).

In determinate circostanze, comunque, questo emerso si rende visibile e presente e richiede i riti stagionali, legati a ciclicità e ad eventi che vengono sentiti come coinvolgenti. È nei cosiddetti riti di passaggio che le due dimensioni dell’iceberg si trovano unite per costituire una sola realtà in cui il confine netto fra di loro sfugge.

Infatti, fa notare Halík che, «anche fra coloro che sono membri attivi delle Chiese c’è un numero crescente di persone per le quali la fede è più un cammino, un viaggio nel profondo che un solido castello. Questi cambiamenti fondamentali nel panorama spirituale odierno sfuggono spesso alla ricerca sulla religiosità che lavora con categorie che non riescono a descrivere adeguatamente le dinamiche del cambiamento. La risposta alla domanda chi è credente e chi non è credente è molto più complessa di quanto possa sembrare a prima vista. Nel panorama spirituale odierno incontriamo spesso anche la «fede degli increduli» e «l’incredulità dei credenti»… Nella nostra cultura occidentale è in diminuzione tanto il numero di persone che si identificano pienamente con le istituzioni religiose, i loro insegnamenti e le loro pratiche, quanto quello degli atei dogmatici. Ci sono più cercatori sia tra i due campi contrapposti sia all’interno di essi. Molti di coloro che si dichiarano atei tendono a definirsi tali più rispetto a un teismo, a una certa interpretazione della fede, che rispetto alla fede stessa. Più che rispetto a Dio, si definiscono tali rispetto ai suoi rappresentanti terreni» (ivi, pag. 11 e12).

Vicarious religion

La situazione paragonata all’iceberg è stata definita dalla sociologa Gracie Davie, in un contesto anglicano, vicarious religion: la religione praticata, cioè, da una minoranza attiva ma per conto di un numero molto più grande di altri che, almeno implicitamente, capiscono, condividono e approvano ciò che fa e pratica la minoranza, ma non vi partecipano regolarmente.

Anche nel nostro contesto le parrocchie spesso sono ritenute da parte di molti come organizzazioni religiose incaricate di garantire all’occorrenza feste, riti, credenze e principi morali.

La vicarious religion, comunque la si intenda, è un concetto che non ha niente a che fare con quello teologico della rappresentanza vicaria della comunità che svolge il suo ruolo di sacramento di salvezza per il mondo intero nella celebrazione eucaristica, nella liturgia delle ore e nella sua testimonianza di fede. «La Chiesa non è più colei che amministra i bisogni religiosi dell’uomo, è un popolo che annuncia, un popolo coerente con la novità del messaggio evangelico» (Ernesto Balducci).

Tuttavia, la Chiesa non può ignorare quei cristiani che, pur non essendo praticanti, in certi momenti chiedono di riferirsi ad essa. La reazione non può essere un atteggiamento negativo o infastidito nei confronti di quelle richieste, tenendo presente che la soglia delle chiese non segna il confine per stabilire l’appartenenza al popolo di Dio e che la pratica del vangelo nella vita non coincide spesso con la pratica del culto.

L’esperienza pastorale in mezzo alla gente ci aiuta a ricrederci: c’è una fede radicata e una fiducia in Dio in persone che non vediamo tra i banchi di chiesa. La Chiesa è chiamata ad essere una «rabdomante» (C. Theobald), capace di captare vene di acqua viva in terreni a prima vista aridi e senz’acqua.

Oltre il dato sociologico

Si impongono quindi, dopo i dati sociologici, considerazioni pastorali che non vanno mai disgiunte da quelle teologiche: come porci di fronte a questo fenomeno che non è nuovo, che da noi perdura, specie nel Sud, mentre in altre nazioni e stati laici non è granché pensabile?

Se si parte dall’esperienza del popolo di Israele, notiamo che era una massa tutto sommato esigua a fronte di un “sommerso” pagano; Dio manda il profeta Giona a proclamare la parola proprio a Ninive, capitale del regno di Assiria, pullulante di abitanti e di corruzione. «Ma il Signore gli rispose: Tu ti dai pena per quella pianta di ricino per cui non hai fatto nessuna fatica e che tu non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in una notte è perita! E io non dovrei aver pietà di Ninive, quella grande città, nella quale sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?» (Gio 10-11).

Già Isaia aveva proposto ad Israele questa apertura: «In quel giorno Israele, il terzo con l’Egitto e l’Assiria, sarà una benedizione in mezzo alla terra. Li benedirà il Signore degli eserciti: Benedetto sia l’Egiziano mio popolo, l’Assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità» (19,24-25).

D’altra parte, nei vangeli notiamo che tanta gente si avvicinava a Gesù per curiosità o come ad un guaritore: pensiamo a Zaccheo e al suo appuntamento imprevisto con la misericordia. Il centurione, la cananea, la donna afflitta da emorragie e altri venivano da lui aiutati a chiarire le motivazioni e a rendersi conto di chi egli fosse veramente, restando a sua volta ammirato da tanta fede.

Una visione negativa del nostro tempo trova un correttivo in Gesù, che a Pietro sfiduciato per aver faticato invano tutta la notte, dice «Gettate le reti per la pesca… e presero una quantità enorme di pesci» (Lc 5,4.6), laddove non c’era alcuna prospettiva di raccogliere frutti.

La sacra Scrittura attesta che è volontà di Dio che tutti siano salvi: «Dio, nostro salvatore vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità. Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato sé stesso in riscatto per tutti» (Tim 2 4-5).

Così Maurice Zundel attualizzava questa verità: «L’azione redentrice di Gesù riguarda ogni uomo in particolare, ed essa deve moltiplicarsi per miliardi di individui senza smettere di essere personale per ciascuno – dall’inizio della storia fino alla sua consumazione –, perché l’universalità dell’amore passa per il cuore di ognuno e non può raggiungerlo se non sposando la sua unicità. Quando si pensa che ogni essere umano è stato assunto così, nella sua più segreta intimità, da Cristo durante il breve corso della sua vita spezzata sulla soglia della maturità (umanamente parlando), non riusciamo nemmeno a immaginare di quale peso si è caricato il “pesatore d’anime” dal momento che le stimava ognuna al prezzo della sua vita» (Quale uomo e quale Dio, pag. 169).

Pastorale e catechesi chiamate in causa

Il dato sociologico e la riflessione biblica chiedono una riflessione pastorale responsabile. Occorre un leale sì a questi gruppi di credenti e accoglierli come Chiesa aperta, attraente e amica delle persone: l’accoglienza dev’essere la caratteristica del nuovo volto della Chiesa, anche se ciò non significa rinunciare ad aiutare le persone a compiere certi gesti significativi senza che ne abbiano preso consapevolezza, né tantomeno troppo rapidamente passare sopra la situazione e le motivazioni del momento sdoganando a buon mercato e senza tanti problemi – specie se ciò avviene da parte di terzi –, bensì instaurando un dialogo fraterno e sereno.

Ci sono situazioni diverse da luogo a luogo ed è necessario un atteggiamento di accoglienza e di discernimento modulati. A un confratello parroco in una zona infestata dalla camorra, a fronte della sua impossibilità a concedere un attestato di idoneità, la risposta fu: «Zi’ prev’t, due sono le cose: di qui esci o su una sedia a rotelle o disteso». Al che egli rispose in modo disarmante: «Fate voi!».

Ci sono poi richieste opportunistiche unicamente in funzione della messinscena da imbastire dopo, proprio in occasione della celebrazione dei sacramenti che, comunque, devono svolgersi esemplarmente con sobrietà e con semplicità sotto ogni aspetto.

Certo, molti dei richiedenti vogliono semplicemente, in determinate occasioni, ottenere la benedizione di Dio per sé e soprattutto per i loro figli. Se li consideriamo unicamente dal nostro punto di vista, rinunciando a metterci nella loro prospettiva, per noi sicuramente molto deludente, a lungo andare perderemo uno dei più importanti punti di contatto pastorale con una grande porzione del popolo di Dio, limitandoci a continuare a “pettinare” la pecorella fedele e a non rivolgere la nostra attenzione alle novantanove sperdute. Significherebbe venir meno alla missione che è nel dna del cristianesimo.

La Parola di Dio deve raggiungere l’uomo nelle periferie esistenziali e la pastorale non può semplicemente cancellare questi membri inattivi e non adeguati ai dettami, considerandoli sprezzantemente come cristiani solo sulla carta, battezzati sì, ma pagani incalliti, in alcun modo disposti a lasciarsi trasformare in cristiani attivi come invece vorremmo che accadesse.

Occorrono al riguardo «preti (e laici!) che non si lasciano incantare dal mito dei numeri o delle chiese piene, ma che cercano di accompagnare il cammino di crescita del singolo credente, perché il suo atto di fede sia libero e responsabile; che non s’accontentano del consenso a basso prezzo nel gruppo chiuso dei fedeli, ma che si sentono inviati anche a chi non crede o crede poco, pastori soprattutto della “Parrocchia dei non credenti”, che è molto numerosa, e la cui frequentazione diventerebbe per ogni prete un’enorme grazia, provocazione per la sua conversione e la crescita nella sua poca fede, monito a non sentirsi superiore a nessuno, attenzione ad annunciare il volto autentico del Padre!» (A. Cencini).

Essere Chiesa significa essere in missione permanente nel terreno in cui essa è presente, senza chiusure di fronte alla società, come ci ha insegnato il Vaticano II e come ha ribadito il recente Sinodo. Sentirsi quindi in missione quando si celebrano liturgie a cui partecipano non i soliti noti (e senza lamentarsi perché vengono solo a funerali e matrimoni), nelle feste religiose esterne e nei rapporti umani.

Occorre pure l’umiltà di lasciarsi interrogare seriamente «dalla fede della gente, dall’accompagnamento di chi non è ancora giunto all’atto credente, dalle critiche di chi lascia la Chiesa, dai giovani che non si sentono capiti da una Chiesa “vecchia e chiusa, lontana e ripetitiva, triste e fissata sulla morale”, ma pure dalle sofferenze, dai dubbi, dalle provocazioni degli eventi, della storia, della cultura» (Cencini).

Il criterio misericordia

Misericordia è accogliere, ma anche esortare ad essere coerenti con la coscienza propria e altrui. In genere, le persone sono gelose dell’individualità e delle proprie scelte, e si appellano all’autenticità, a voler essere fedeli a sé stesse; vanno aiutate quindi ad essere autentiche nella loro richiesta con «un’azione pastorale intesa come accompagnamento paziente, un incoraggiamento e un’ispirazione sul cammino della ricerca individuale. Camminare insieme, nel rispetto reciproco, nell’ascolto e nel dialogo: questa è la catechesi del nostro tempo; ed è anche una forma di sinodalità, un cammino comune» (Halík, pag.77).

Papa Francesco, nell’enciclica Dilexit nos, offre preziosi suggerimenti al riguardo: «Invece di cercare soddisfazioni superficiali e di recitare una parte davanti agli altri, la cosa migliore è lasciar emergere domande che contano: chi sono veramente, che cosa cerco, che senso voglio che abbiano la mia vita, le mie scelte o le mie azioni, perché e per quale scopo sono in questo mondo, come valuterò la mia esistenza quando arriverà alla fine, che significato vorrei che avesse tutto ciò che vivo, chi voglio essere davanti agli altri, chi sono davanti a Dio. Queste domande mi portano al mio cuore» (n. 8).

Nel dialogo sereno occorre aiutare le persone a esaminarsi sulla situazione della propria fede, chiarendo sì la comprensione ecclesiale del sacramento in modo che sia una scelta consapevole, come si addice appunto a chi vuole essere consapevole e coerente con sé stesso, ma senza dare l’impressione di essere come dei doganieri, cercando piuttosto di aiutare a mettere in chiaro le motivazioni di fondo che spingono a chiedere una celebrazione che non si può ridurre ad inscenare una commedia solo perché spinti dalle consuetudini e da altri interessi.

Solo per inciso faccio notare che è chiamato in causa tutto l’impianto della catechesi, con l’esigenza di nuovi cammini non più fondati sugli automatismi, non funzionale quindi alla sola celebrazione dei sacramenti come tappa e meta obbligata, con più consapevolezza e partecipazione delle famiglie. Quest’ultima esigenza, fatte salve le debite eccezioni, non è sempre facile da ottenere se si considerano certe situazioni familiari segnate da separazioni il più delle volte conflittuali e traumatiche per i ragazzi.

Si tratta, comunque, di reimpostare la pastorale riscoprendone la sua verità che è l’apertura, il dialogo.

Halík parla della propria esperienza nella sua Praga: «Negli ultimi anni ho trovato più onesto incoraggiarli a condurre un dialogo interiore, un lavoro creativo con i dubbi che non permettono alla fede di riposare nel paradiso artificiale delle risposte pronte. Una fede che sa convivere con le domande aperte e i paradossi della vita, e a volte anche indugiare pazientemente nell’adorazione del mistero non è fede più profonda e più vicina alla vita di una fede senza domande? La missione di chi accompagna è di aiutare queste persone ad ascoltare Dio nel santuario della propria coscienza, incoraggiandole ad assumersi la responsabilità delle proprie decisioni. Senza la pretesa di irreggimentare, incasellare i non irreggimentati in confini mentali e istituzionali di ieri. Offriamo loro un cristianesimo tanto dinamico tanto “cattolico” da trascendere i suoi precedenti confini, facendolo non solo con coraggio, ma anche con responsabilità, non sotto la pressione dello spirito del tempo, ma come risposta ai segni dei tempi» (pp. 94-95).

Papa Francesco ha parole illuminanti al riguardo in Dilexit nos: «Vorrei aggiungere che il Cuore di Cristo ci libera, allo stesso tempo, da un altro dualismo: quello di comunità e pastori concentrati solo su attività esterne, riforme strutturali prive di Vangelo, organizzazioni ossessive, progetti mondani, riflessioni secolarizzate, su varie proposte presentate come requisiti che, a volte, si pretende di imporre a tutti. Ne risulta spesso un cristianesimo che ha dimenticato la tenerezza della fede, la gioia della dedizione al servizio, il fervore della missione da persona a persona, l’esser conquistati dalla bellezza di Cristo, l’emozionante gratitudine per l’amicizia che Egli offre e per il senso ultimo che dà alla vita personale. Insomma, un’altra forma di trascendentalismo ingannevole, altrettanto disincarnato» (n. 88).

In conclusione, occorrono laici e preti che vivano la presenza di Dio al centro della loro esistenza e che dialoghino con chi si interroga, con chi si è smarrito ed è alla ricerca, condividendo con empatia quella ricerca di sé stessi e di Dio.

Dio è vicino a chi lo cerca più di quanto si possa immaginare.

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2 Commenti

  1. Luigi Sorrentino 11 marzo 2025
  2. Enrico 10 marzo 2025

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