L’Africa immaginaria del piano Mattei

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Foto Roberto Monaldo / LaPresse

Durante il vertice Italia-Africa del 28-29 gennaio è stato presentato il Piano Mattei per l’Africa. Una «piattaforma programmatica» piuttosto che una «scatola chiusa», aperta alle condivisioni con gli attori del continente ma anche con quelli europei (era presente al vertice anche la presidente della Commissione Europea, Ursula von Der Leyen). Insomma, è una proposta ma non è un piano, differenza che ha confuso i destinatari ultimi di questa iniziativa: i rappresentanti africani.

Nell’epoca del soggettivismo africano

In linea di massima, dal vertice di Roma sono uscite delle buone idee (ampiamente condivisibili) ma confuse, figlie del disordine strategico che alberga in Italia nel definire le nostre priorità di politica estera da qualche decennio a questa parte.

In linea teorica, un cambio di passo nelle relazioni Italia-Africa è doveroso, se consideriamo il contesto geopolitico attuale. Russia, Stati Uniti, Cina, India, Arabia Saudita, Turchia, Germania piccole e medie potenze hanno tutte una politica africana, coltivano dei disegni che riguardano il continente che raramente è stato così affollato in senso geopolitico.

Attenzione, però, a definire la competizione in corso come un nuovo scrumble per l’Africa come quello di fine Ottocento, perché ci sono almeno due elementi nel continente che rendono il quadro geopolitico più complesso, e potenzialmente più redditizio per il Piano Mattei.

Il primo, è il collasso delle architetture di potere messe in piedi dagli ex imperi coloniali, per mantenere la propria influenza sul continente (particolarmente evidente nel caso della Francia).

Il secondo, e più importante, è che, a differenza di quanto successo nel tardo Ottocento, le nazioni africane non assistono più passivamente alla competizione tra soggetti esterni sui loro territori, vi prendono parte.

Siamo entrati, all’insaputa di noi bianchi, nell’epoca del soggettivismo africano dove gli stati del continente scelgono alleati e progetti in base ai loro interessi, un fattore di cui noi italiani sembriamo non essercene accorti (ma non siamo i soli da questo lato del Mediterraneo).

I segni di questo processo sono visibili e sempre più frequenti. Per esempio, mentre il ministro egli esteri della Repubblica Democratica del Congo, Christophe Lutundula, presenziava al vertice di Roma, il rieletto presidente congolese Félix Tshisekedi in patria rinegoziava al rialzo «l’accordo del secolo» con la Cina ottenendo un raddoppio degli investimenti complessivi di Pechino nel paese (7 miliardi di dollari in totale) in cambio della vendita di rame e cobalto all’impero del centro.

Un elemento, quello del soggettivismo, che si è materializzato nell’aula di Palazzo Madama con le parole del presidente dell’Unione Africana Moussa Faki: «Non siamo mendicanti, le nostre ambizioni sono alte».

Il Piano Mattei visto da noi

È su questi due fattori (crisi degli ex imperi e soggettivismo africano) che l’Italia si gioca la riuscita del Piano Mattei in senso stretto e del suo rapporto con l’Africa più in generale.

Il vertice di Roma arriva in una congiuntura geopolitica particolarmente favorevole per una nuova politica italiana in Africa.

Fino a dieci anni fa, la politica africana degli occidentali è stata de facto appaltata alla Francia, per almeno due motivi.

Il primo era la rete di contatti facenti capo a istituzioni e imprese dell’Esagono, di gran lunga superiore e più pervasiva di quella degli altri stati occidentali e che permetteva rapporti vantaggiosi con le élites del continente.

Il secondo era legato alla cultura strategica delle élites francesi capaci di pianificare strategie per l’Africa e di portarle a compimento con ogni mezzo necessario.

Prima che l’Africa andasse di moda nelle cancellerie europee, il consigliere di Charles De Gaulle, Jacques Foccart inventava il sistema della Françafrique per tenere le ex colonie nell’orbita d’influenza francese.

francafrique

Nel 1945 sul giornale socialista l’Aurore, Jean Piot ipotizzava la creazione di un blocco franco-africano, un sistema simile al Commonwealth britannico. In visita a Washington nel 1957, il primo ministro francese Guy Mollet annunciava la creazione dell’Eurafrica, auspicando l’inglobamento nelle nascenti organizzazioni europee delle colonie africane di Parigi.

L’ascesa del soggettivismo africano e del sentimento antifrancese che lo anima ha messo in crisi questo sistema, riflesso della crisi d’identità che affligge l’Esagono per cui l’Africa è l’ultimo pezzo della sua grandeur imperiale.

L’approccio del presidente Emmanuel Macron rispetto al continente – criticato dalla sua prima candidatura per una scarsa conoscenza dell’Africa – ha scavato un solco tra Parigi e i suoi alleati in merito ai principali dossier sul tema.

Nel luglio scorso, durante il golpe in Niger che ha deposto il presidente Mohamed Bazoum, Parigi premeva sull’ECOWAS per un intervento militare mentre Roma, Berlino e Washington hanno spinto (con buone ragioni) per un approccio più conciliante rispetto alla nuova giunta di Niamey.

Divergenza di vedute che prosegue ancora oggi con Stati Uniti, Italia e Germania che hanno ravviato delle forme di cooperazione con i paesi del Sahel in mano alle giunte filorusse mentre la Francia mantiene relazioni glaciali.

In questo contesto, s’inseriscono le parole dell’ex consigliere per gli affari africani di Biden, Judd Devermont, che, intervenendo a un evento del Financial Times, ha dichiarato la necessità per gli Stati Uniti di «aggiungere complessità» nei loro rapporti con l’Africa, aprendo a un cambio d’approccio al continente. Invito, neanche troppo implicito, anche per gli alleati. Sul versante occidentale, il Piano Mattei ha (avrebbe) la strada spianata.

Il Piano Mattei visto dall’Africa

Organizzazione del vertice di Roma e approssimazione dei fini hanno destato qualche perplessità tra governanti e opinioni pubbliche del continente.

Un primo livello di fraintendimento è stato visibile già dalla scelta del nome della nuova dottrina italiana dato che il nome di Enrico Mattei è qualcosa che definisce storia e identità italiane ma che dice poco o nulla agli abitanti dell’Africa subsahariana (unica eccezione è il caso dell’Algeria a causa dell’impegno del fondatore dell’Eni a supporto dell’emancipazione dalla Francia).

Rispetto al vertice in sé, invece, nel corso degli ultimi anni la partecipazione dei leader a iniziative di questo tipo è stata oggetto di critiche. I cosiddetti vertici Africa+1 (come quello di Roma), dove diverse rappresentanze africane incontrano gli omologhi di un solo Stato, sono stati avari di risultati tanto da aver rimesso in discussione l’utilità di prendervi parte.

Di conseguenza, l’effettiva incisività che un’iniziativa come quella promossa dal governo Meloni possa portare nelle relazioni Italo-Africane è abbastanza dubbia e soprattutto riflette il problema di un certo eurocentrismo che contraddistingue il nostro approccio alle relazioni con il continente.

piano mattei

Al di là dei magri risultati che i vertici Africa+1 uno hanno portato fino a questo momento storico, c’è anche un problema più squisitamente geopolitico. Infatti, incontrare rappresentanze continentali non vuol dire essere più incisivi negli equilibri di potere africani.

È molto difficile che il governo del Ghana decida di far rappresentare le proprie istanze a quello della Nigeria o che il governo della Tanzania decida che il presidente del Kenya e gli accordi fatti con esso possano essere soddisfacenti anche dal proprio punto di vista.

In questo contesto vanno anche menzionate le divergenze profonde che sussistono fra i diversi paesi del continente. Al Vertice di Roma erano presenti sia il primo ministro etiope che il presidente somalo, entrambi godono di ottimi rapporti con l’Italia e con il primo ministro in carica e tuttavia i rapporti fra i due paesi sono ai minimi storici per dispute territoriali.

È arduo che, in questa fase, si possa trovare un programma o un accordo che soddisfi gli interessi di entrambi, e, in questo senso, l’Africa immaginata dal piano Mattei appare molto semplificata.

Inoltre, nonostante il governo abbia ripetuto in tutti i modi che l’obiettivo del Piano Mattei è quello di creare dei rapporti paritari e non predatori con il continente, alcuni commentatori hanno espresso un certo scetticismo rispetto all’intesa. Infatti, sebbene siano chiaramente esposte le aspettative che l’Italia ha rispetto alle proprie relazioni con l’Africa, non è esattamente chiaro quale sarebbe il vantaggio che l’Africa dovrebbe ricavare dal piano.

«Un piccolo passo»

L’accento è stato posto particolarmente sul settore energetico, sicuramente strategico, ma che, pur muovendo tanti soldi, non crea tanti posti di lavoro (fattore particolarmente rilevante per le élites del continente, complice la crescita demografica).

Insomma, dal punto di vista africano, il nesso tra accordi energetici e sviluppo non è così netto come appare dal nostro punto di vista. Sempre sul tema dell’energia, non è chiaro quali vantaggi deriverebbero agli africani in base a quanto detto a Roma, dato che, se facciamo eccezione per il progetto di unificazione delle reti elettriche fra Tunisia e Italia, non sono menzionati progetti analoghi per il resto del continente, cosa di cui invece ci sarebbe bisogno.

Infine, dal punto di vista africano, gli strumenti operativi del Piano Mattei hanno riscontrato un ulteriore scetticismo. Già nei mesi precedenti al vertice tra Italia e Africa, diverse cancellerie del continente si domandavano cosa potessero ottenere da un paese che a torto o a ragione, è percepito come economicamente debole rispetto ad altri interlocutori.

Lo stanziamento di 5 miliardi di euro per le iniziative nel continente prova che, almeno in parte, questi dubbi sono sensati se pensiamo che anche i più accesi sostenitori dell’iniziativa come il presidente del Kenya, William Ruto, hanno definito il piano come «un piccolo passo».

piano mattei

Una certa incomprensione da parte dei governi africani riguarda anche la cosiddetta cabina di regìa e i relativi progetti-pilota, non tanto per gli attori che la compongono, quanto per il fatto che non si intravedono elementi di novità.

Infatti, prima ancora che l’Africa rientrasse all’interno del dibattito sulla politica estera italiana, aziende come ENI o Webuild hanno per decenni coltivato delle loro politiche estere separate ma affini agli interessi nazionali con i governi del continente.

Leggendo la lista dei progetti-pilota che il governo annuncia, infatti, si nota come molti siano iniziati da tempo.

La creazione di biocarburanti in Kenya, ad esempio, è un progetto che l’ENI porta avanti da anni, con la costruzione dell’agri-hub di Makueni che è terminata a luglio del 2022. Il progetto di congiunzione elettrica tra Tunisia e Italia, che vede in prima linea Terna di cui è azionista Cassa Depositi e Prestiti, è in programma dal 2017 con la fase di finanziamento terminata un anno fa.

Per fare l’Africa, fare gli italiani?

Stando a quanto dichiarato dalla premier Giorgia Meloni, il Piano Mattei rappresenta solo un primo passo verso una presenza più influente dell’Italia nel continente.

Di buono c’è che il vertice ha espresso un interesse verso il continente sicuramente interessato ma più promettente della russofobia e della sinofobia che ha animato le azioni di altri governi europei sul tema traducendosi in un paternalismo che mal si concilia con storia e le aspirazioni degli africani in questo momento.

Tuttavia, quanto emerge dal Vertice di Roma è che, se veramente l’interesse italiano è quello di rilanciare la sua posizione sullo scacchiere africano, allora il successo del piano Mattei si concretizzerà solo in virtù di un cambiamento più profondo della nostra percezione del continente, in senso strategico e antropologico.

Un fatto che, per il nostro paese, come per tutti gli ex colonizzatori, rappresenta un processo doloroso, perché dovrebbe partire dal nostro passato non edificante a quelle latitudini.

Per il momento, ascoltare con maggiore attenzione le richieste delle nazioni africane sarebbe un buon inizio. E poi magari scrivere un piano.

Luciano Pollichieni è un ricercatore esperto di geopolitica e Africa, lavora e insegna alla Luiss, lavora con la fondazione Med-Or e collabora con la rivista di geopolitica Limes. Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 4 febbraio 2024

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