Come l’Unione Sovietica

di:
trump

Illustrazione realizzata con Sora (Appunti)

Nel 1970, il dissidente sovietico Andrej Amal’rik fece passare dall’altra parte della cortina di ferro un libro dal titolo Sopravviverà l’Unione Sovietica fino al 1984? Anche se Amal’rik pensava che il crollo dell’impero russo in versione sovietica sarebbe stato provocato da una guerra con la Cina, in fondo il crollo c’è stato, solo una manciata di anni dopo la sua ipotesi.

Sono sempre stato invidioso di quel titolo. E, naturalmente, dell’acume del suo autore. Ma il titolo mi piaceva perché, quando il libro uscì, l’Unione sovietica era considerata inaffondabile ed eterna.

È una forma di istintiva resistenza degli esseri umani contro lo scorrere inesorabile del tempo, quella di considerare il presente come eterno, quella di resistere istintivamente ai cambiamenti.

A me quel titolo piaceva proprio perché ci avvertiva che, come tutti gli imperi, anche quello russo in versione sovietica si sarebbe spento, un giorno o l’altro.

Una decina d’anni fa, feci una serie di conferenze a Versailles raccogliendole sotto un titolo copiato senza vergogna da Amal’rik: Sopravviveranno gli Stati Uniti fino al 2024? Il pubblico accolse divertito quel titolo, vedendolo come la solita esagerazione dell’italiano che le spara grosse.

Non era una previsione, ovviamente, e ancora meno volevo prendermi per Amal’rik, del cui coraggio temo di non possedere nemmeno un’oncia. Ma era un titolo di impatto, per far capire di primo acchito al mio pubblico che anche gli Stati Uniti, come l’URSS prima di loro, e come tutti i grandi imperi prima di loro, seguivano inesorabilmente il ciclo vitale che ci tocca tutti: nascita, crescita, apogeo, declino e morte.

L’orizzonte che mi fissavo era quello delle elezioni dell’anno scorso, non perché pensassi che gli Stati Uniti sarebbero scomparsi entro quella data, ma perché vedevo il declino relativo di quella potenza accelerare fino a tendere a trasformarsi in declino assoluto.

Le elezioni del 2024 mi sembravano una scadenza ragionevole per verificare a che punto gli Stati Uniti sarebbero stati vicini a quel momento.

L’accelerazione della tendenza dal declino relativo al declino assoluto è diventata chiara nel momento stesso in cui Donald Trump ha rimesso piede alla Casa Bianca; ma, qualche giorno fa, il documento della National Security Strategy ha finalmente messo nero su bianco la sentenza della prossima fine del Paese.

La gestione americana dell’Europa

In Europa sono numerose le voci di coloro che vedono in quel documento un attacco al Vecchio Continente, al suo progetto di unità e magari anche di «autonomia strategica». Viene da chiedersi dove fossero, questi commentatori allarmati, nei mesi scorsi. Anzi, negli anni e nei decenni scorsi.

Obnubilati dalle fantasie sull’«Occidente», la «comunità dei valori», l’«amicizia atlantica» e altre fantasie che starebbero meglio nei libri dei fratelli Grimm o di Hans Christian Andersen piuttosto che negli articoli dei giornali e nei libri di analisi politica, sembrano essersi persi almeno quattro caratteristiche fondamentali delle relazioni interatlantiche degli ultimi decenni.

La prima è che gli Stati Uniti si sono sempre opposti – con determinazione strategica – a ogni progetto di unificazione europea, a meno che non fosse interamente a servizio degli interessi americani.

Nel 1973, Henry Kissinger lo disse esplicitamente a Richard Nixon: «Siamo sempre stati a favore dell’integrazione [europea]… ma l’abbiamo sempre vista come un passo verso la cooperazione atlantica… Non abbiamo mai interpretato l’integrazione europea nel senso che l’Europa possa prendere decisioni unilaterali».

A parte l’obnubilazione ideologica, alla favola della «comunità di valori e di interessi» tra Stati Uniti e Europa si voleva credere perché permetteva di continuare ad arricchirsi sotto l’ombrello protettivo americano, e intanto approfittarne per cercare di prendere sempre più spesso «decisioni unilaterali».

La seconda è che il continente europeo è rimasto diviso per quarantacinque anni non per uno scherzo del destino cinico e baro, e ancor meno a causa della forza irresistibile dei carri armati di Stalin, ma perché Washington e Mosca si erano spartiti il continente per evitare che la Germania tornasse a creare problemi nei decenni dopo la guerra e, strada facendo, per smantellare gli imperi coloniali britannico, francese, belga e olandese.

La terza è che, proprio perché sotto l’ombrello americano si stava bene, gli europei e i loro araldi mediatici e accademici si sono rifiutati di vedere il declino – ancorché relativo – della superpotenza, comportandosi come i bambini che si tappano occhi e orecchie e fanno schiamazzi per evitare di sentire le sgradite verità che dicono i loro genitori.

La quarta, ultima ma non meno importante, è la superstizione giuridica che ha portato molti a credere che l’esistenza legale dell’Unione europea facesse miracolosamente esistere un’unione europea reale.

È fuor di dubbio che il processo di integrazione tra certi Paesi del Vecchio Continente è andato avanti e ha fatto da moltiplicatore del peso di quegli stessi singoli Paesi; ma da lì a credere che l’Unione europea possa comportarsi come uno Stato, con una sua politica estera e di difesa ce ne corre. In realtà, ci sono ventisette politiche estere e di difesa, e gli americani se la spassano ad affondare le dita nelle piaghe delle divisioni, dei reciproci sospetti e delle mai sopite rivalità tra quei Paesi.

Senza politica estera

Il documento di «sicurezza strategica» americano, però, non cambia le sorti dell’Europa – semmai ne espone la nudità politica che non si voleva vedere.

D’altronde le tre reazioni diverse e opposte del ministro degli Esteri tedesco Johann Wadephul (si facciano gli affari loro), della responsabile della «politica estera» dell’UE, Kaja Kallas (circolare, non c’è niente da vedere), e della presidente del Consiglio italiano, Giorgia Meloni (ho sempre detto le stesse cose) confermano che l’Europa è unita solo sulla carta.

Quel documento, invece, cambia le sorti degli Stati Uniti, nel senso che certifica e formalizza l’assenza di una politica estera (o meglio: la compresenza di più politiche estere) e l’assenza, a Washington, di persone capaci di ragionare in termini politici su quali siano gli interessi del Paese e come fare per rallentarne l’inarrestabile declino e attutirne l’inevitabile caduta.

Nel documento sulla «sicurezza strategica nazionale», l’unico aspetto veramente strategico è lo stato di confusione del Paese, che non potrà che nuocere alla sua sicurezza e romperne l’unità nazionale. È la negazione punto per punto del suo stesso titolo.

Il documento preconizza di «promuovere la grandezza dell’Europa» e, allo stesso tempo, insiste sulla priorità delle patrie rispetto all’Unione, e al sostegno ai partiti sovranisti, nazionalisti, xenofobi e spesso apertamente antieuropei.

Il documento preconizza un riorientamento degli Stati Uniti sull’emisfero occidentale, lasciando intendere la volontà di rilanciare la (peraltro irrealizzabile) politica delle sfere di influenza esclusive e, al tempo stesso, afferma di voler impedire alla Cina di crearsi la propria sfera di influenza.

Il documento preconizza la fine del ruolo di gendarme del mondo per gli Stati Uniti e al tempo stesso dice agli europei e ai cinesi (ma non ai russi) come devono comportarsi.

Il documento preconizza un passo indietro degli Stati Uniti dal Medio Oriente e, al tempo stesso, conferma la volontà di tenere sotto controllo Hormuz e il Mar Rosso e di vegliare sulla sicurezza di Israele.

Senza contare le contraddizioni in atto: il documento afferma (tre volte) che l’India fa parte degli alleati degli Stati Uniti e, al tempo stesso, l’amministrazione continua a prendere l’India a calci negli stinchi, inimicandosela sempre di più. Lo stesso vale per il Brasile, il Canada, l’Australia, il Giappone e la Corea del Sud. Oltre che, lo abbiamo già detto, l’Europa.

In poche parole: sembra essere stato scritto a quattro mani da un isolazionista e da un interventista, da uno che sogna lo splendido isolamento e da uno che vuole confermare le tradizionali linee di politica estera americana, di proiezione ed egemonia globale.

Il problema reale per gli Stati Uniti è che proiezione ed egemonia globale non possono più essere esercitati come in passato, e che l’isolazionismo significa semplicemente il suicidio.

La confusione strategica cela l’assenza di idee, il che lascia tutto lo spazio immaginabile a politiche improvvisate giorno per giorno, con l’unico filo conduttore dell’uso della forza americana – tuttora di gran lunga superiore a quella di chiunque altro Paese e di qualunque altra coalizione di Paesi – non per tessere reti di «amicizie», ma per ricattare e mettere tutti gli altri (salvo Putin) in ginocchio.

Lo stabilizzatore egemonico usa la sua forza soverchiante per obbligare gli altri a rispettare le proprie regole, ma lo fa assumendosi più oneri degli altri e in questo modo guadagnandosi le simpatie di chi si giova dei suoi aiuti, dei suoi investimenti e del suo scudo.

Passare dallo statuto di stabilizzatore egemonico a quello di boss mafioso, che fa pagare il pizzo per la protezione, non gioverà agli Stati Uniti, e accelererà la loro caduta. Come è successo per l’Unione Sovietica. Il grosso problema, per il mondo intero, è che gli Stati Uniti non sono l’Unione Sovietica.

  • Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 8 dicembre 2025

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