
Andrea Piazza riflette e dialoga qui con Riccardo Bocco autore, con Nigel Roberts, del volume An Israeli-Palestinian Federation. An alternative approach to peace, OpenEdition, 2025.
Mi ricordo ancora, come se fosse ieri, la sera del 4 novembre 1995. Mi trovavo in un pub con amici. Parlavamo e scherzavamo davanti a una birra. Sembrava un sabato sera come tanti altri. Nella sala attigua c’era una TV alla parete. Su quello schermo iniziarono a comparire delle immagini strane e incomprensibili: c’era una folla concitata e, nella parte bassa del video, scorrevano delle scritte. Doveva essere accaduto qualcosa di grave. Avvicinandomi alla TV, vidi che si trattava di Israele. Qualcuno aveva sparato al premier Yitzhak Rabin. Quella sera ebbi la sensazione di vivere in un momento storico di rottura. Stava svanendo il miraggio di una soluzione, che pareva ormai così vicina, al tragico conflitto israelo-palestinese.
Dopo l’uccisione di Rabin
Ma fu proprio così? Fu davvero l’assassinio di Rabin a far crollare il sogno di pace? Oppure forse gli Accordi di Oslo erano già minati alla loro base?
Nei trent’anni seguenti sono successe un sacco di cose. I ripetuti successi elettorali di Netanyahu, la seconda Intifada, la vittoria di Hamas a Gaza e la guerra civile contro i palestinesi di Fatah.
Tanta acqua è passata, molto prima del 7 ottobre 2023, sotto i ponti del Giordano. Nonostante tutto questo, abbiamo continuato a utilizzare, sebbene in modo sempre più stanco e privo di convinzione, il mantra “due popoli due Stati”.
Col passare del tempo, io mi sono fatto l’idea che la continua ripetizione di questa formula sia, per noi europei e americani, la classica “foglia di fico” per coprire una sterilità di visioni alternative.
Anche la scelta, annunciata da alcuni Paesi nelle ultime settimane, di riconoscere lo Stato di Palestina lascia il tempo che trova. Il giornalista Zvi Bar’el sosteneva, alcune settimane fa sul quotidiano Haaretz, che il riconoscimento dello Stato di Palestina, ora annunciato anche da Francia e Regno Unito, rappresenta “una via di fuga morale, non una politica”.
Un Stato unico e binazionale?
Tutte queste mie perplessità in merito alla soluzione dei due Stati hanno trovato un riscontro in un recente saggio scritto da Riccardo Bocco e Nigel Roberts per il Geneva Graduate Institute. Il libro, pubblicato in Open Edition nel gennaio del 2025, rappresenta la sintesi di un approfondito percorso di ricerca che ha coinvolto, a partire dal 2023, numerosi esperti.
Il titolo di questo saggio potrebbe sembrare provocatorio o, nella migliore delle ipotesi, utopistico: An Israeli-Palestinian Federation. An Alternative Approach to Peace. In effetti, l’idea di una “federazione israelo-palestinese” rappresenta senza dubbio un “approccio alternativo alla pace”. Incuriosito da questo saggio ho contattato il professor Riccardo Bocco per capire meglio questa proposta e il percorso che ha condotto alla sua elaborazione.
Innanzitutto, bisogna precisare che quella di uno Stato unico e binazionale, come mi ha fatto notare il professore, non è un’idea campata per aria; la prima proposta risale al 1946. Fu il filosofo ebreo tedesco Martin Buber, nel suo libro intitolato Lo Stato binazionale, a proporre per la prima volta questa soluzione. Tale approccio ricevette molte critiche e il filosofo venne accusato di antisemitismo dallo stesso Ben Gurion. Eppure, l’idea di Buber, nel corso del tempo, ha fatto proseliti. Già Albert Einstein e Hanna Arendt sposarono la sua tesi.
In seguito, nel corso degli anni, molti altri hanno approfondito queste idee. Bocco e Roberts, nel loro libro, citano una dozzina di autori e di associazioni che, tra il 1946 e il 2024, hanno approfondito il tema dello Stato binazionale e federale. Risulta dunque evidente che questo libro si inserisce in un filone di ricerca che, pur restando lontano dalle decisioni dei policy makers internazionali, si è consolidato nel tempo. Ma chi sono gli autori di questo saggio?
Frutto di uno studio accurato
Riccardo Bocco, col quale ho avuto il piacere di parlare recentemente, può vantare una notevole esperienza sui temi del Medioriente. È professore emerito di Sociologia Politica presso il Geneva Graduate Institute. La sua principale area geografica di ricerca sul campo, negli ultimi 45 anni, è stata il vicino Oriente, con particolare attenzione a Giordania, Israele/Palestina e Libano.
«Due settimane prima del 7 ottobre 2023 – mi ha raccontato Bocco – sono stato contattato dalla Foundation for Cultural Dialogue il cui presidente, Metin Arditi, che è un mecenate locale, aveva proposto di fare uno studio sul diritto internazionale e sulla possibile creazione di uno Stato federale, o confederale, in Israele e Palestina».
Prima di accettare questa proposta, il docente si è preso un po’ di tempo per riflettere. «Non si trattava certo di scoprire l’acqua calda – ha commentato Bocco –. Esistono da tempo tante realtà come l’associazione americana Jewish Voice for Peace, che porta avanti le idee di Buber, oppure gruppi israelo-palestinesi, come Common State o Land4All, che lavorano al progetto di un unico Stato dove, come nella visione dell’autore de Lo Stato binazionale, tutti i cittadini hanno gli stessi diritti».
Il problema però non attiene solo agli aspetti del diritto, ma – ha aggiunto il professore – «la questione deve essere affrontata più largamente attraverso le sue dimensioni storiche, politiche, sociali, identitarie e giuridiche». Da questa constatazione è partito un percorso di approfondimento che ha coinvolto, nell’arco di quasi un anno, alcune decine di persone.
Nel gennaio 2024 è stato organizzato un convegno a porte chiuse con 25 esperti (americani, europei, palestinesi e israeliani che sono stati coinvolti per le loro differenti competenze in materia).
Bocco e Roberts hanno quindi elaborato una prima bozza del testo che, in seguito, è stata sottoposta all’attenzione di un’altra ventina di esperti, tra i quali anche alcuni teologi. Al termine del 2024, era pronta la versione definitiva che, nel gennaio seguente, è stata pubblicata.
Che fine hanno fatto gli “Accordi di Oslo”?
Il libro inizia con un approfondito esame degli ultimi trent’anni. Gli autori cercano di capire le cause del fallimento di quello che, con gli Accordi di Oslo, voleva essere un processo di pace. «Ma quale processo di pace? – si chiede Riccardo Bocco –. Dove tutti erano complici, tutti gli attori internazionali, gli Stati Uniti in primo luogo, che si presentavano come garanti politici. La loro posizione era quella neutrale di non intervento per favorire un processo incrementale tra israeliani e palestinesi. Un processo che, però, nasceva in un contesto profondamente disequilibrato».
Tre sono, secondo gli autori, i punti critici del processo di Oslo: la mancanza di un reale impegno delle parti, lo squilibrio di potere e l’assenza di una mediazione neutrale.
In merito al primo punto, i verbali del Consiglio dei ministri israeliano e le memorie dei partecipanti a Oslo mettono in dubbio l’esistenza di un impegno del governo di Tel Aviv per la creazione di uno Stato palestinese. Basti pensare che il numero di coloni in Cisgiordania e a Gaza, che era cresciuto fino a 100.000 tra il 1967 e il 1993, si quadruplicò nei successivi ventisei anni.
Hamas – che era fortemente contraria a Oslo – iniziò i suoi attacchi mortali contro i civili israeliani già nel primo anno del processo di pace. E la sua popolarità sarebbe poi cresciuta nel tempo, man mano che i palestinesi iniziavano a considerare Oslo come un tradimento dei loro interessi.
Bocco e Roberts, parlando dello squilibrio di potere, intendono che il processo di Oslo non ha prestato sufficiente attenzione alle realtà del potere coercitivo israeliano. Durante il percorso di Oslo, Israele ha intensificato il suo controllo coloniale sulla vita palestinese per contenere l’opposizione all’espansione degli insediamenti in Cisgiordania. In seguito, Israele ha ridotto i permessi di lavoro e ha imposto frequenti chiusure per limitare la circolazione di persone e beni palestinesi.
La terza criticità, secondo gli autori, è stata l’assenza di una mediazione veramente neutrale. Sebbene israeliani e palestinesi siano co-responsabili del fallimento di Oslo, la responsabilità ricade soprattutto sugli Stati Uniti colpevoli di non aver supervisionato, con imparzialità, l’attuazione degli accordi.
I nodi irrisolti
Bocco e Roberts ci ricordano che, a fronte di questa lunghissima impasse del processo di pace, le questioni che giacciono irrisolte sul tavolo sono sempre le stesse: lo status di Gerusalemme, i profughi palestinesi e il tema dei coloni israeliani. Tre “nodi gordiani” nei quali si intrecciano i destini di palestinesi e israeliani.
- Lo status di Gerusalemme
In merito a Gerusalemme, i due autori si rifanno alla risoluzione 181 del 1947 delle Nazioni Unite che, data l’importanza di questo luogo per le tre religioni monoteiste, prevedeva una giurisdizione particolare, svincolata dai due Stati. Per questa soluzione, sulla quale – secondo Riccardo Bocco – già si potrebbe trovare un accordo, il quadro di uno Stato federale, capace di garantire ampia autonomia alle sue singole parti, sembrerebbe essere la scelta migliore.
- I rifugiati palestinesi
Un altro nodo complicatissimo è quello dei rifugiati palestinesi. Quelli registrati all’UNRWA sono sei milioni, ma ce ne sono un altro milione e mezzo di non censiti. Essi vivono nella Palestina stessa, ma non solo. Molti sono rifugiati nei Paesi limitrofi (Giordania, Libano, Siria, Egitto) se non addirittura sparpagliati tra i cinque continenti.
«La questione è che noi oggi non sappiamo che cosa vogliono i Palestinesi nel mondo – commenta Bocco –. Non c’è nessun sondaggio che ci permetta di sapere se quelli in Cile vogliono andare in Palestina, se quelli in Siria vogliono tornare. Possiamo solo fare delle supposizioni. A fronte di questo – conclude – la proposta che noi facciamo, anzi che è già stata fatta da Hamas, è quella di convocare il Consiglio Nazionale Palestinese, ovvero il Parlamento dell’OLP, che, per colpa del corrotto Abou Mazen, non è più stato convocato dal 1995».
In concreto, il libro propone, per gli esuli palestinesi, l’istituzione di un doppio fondo di compensazione. La Banca Mondiale dovrebbe farsi carico di finanziare, col supporto dei Paesi arabi e musulmani, un fondo per risarcire i profughi che, rinunciando al rientro in Palestina, avrebbero diritto a un indennizzo monetario. Ma questo non può bastare. Se dichiarassimo risolta la questione dei profughi, allora verrebbe a decadere il mandato dell’UNWRA. Ma oggi questa agenzia dell’ONU ricopre un ruolo fondamentale nei Paesi di accoglienza. Dunque, un secondo fondo di compensazione, su base regionale, dovrebbe aiutare le comunità di rifugiati che decidono di restare nei Paesi ospiti.
«Nel momento in cui si dovesse giungere ad una compensazione, si arriverebbe alla fine del mandato UNRWA. Ma l’UNRWA garantisce assistenza umanitaria, attraverso scuole, cliniche, servizi sociali, e, se i rifugiati sono compensati, allora questa agenzia non ha più ragione di esistere. Ma a questo punto – si interroga Riccardo Bocco – cosa farebbero la Giordania, il Libano, la Siria? Si ritroverebbero a gestire centinaia di migliaia di rifugiati che, fino al giorno prima, andavano nelle scuole dell’UNWRA».
Oltre a questo scopo primario di stabilizzazione nei Paesi ospitanti, il fondo regionale dovrebbe anche promuovere progetti per lo sviluppo economico e delle infrastrutture, finanziati dal pubblico e dal privato, a favore dei palestinesi e della loro autonomia in ambito economico.
- Gli insediamenti
Forse ancor più complicata è la questione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Riccardo Bocco e Nigel Roberts chiariscono subito, affrontando questo tema, che gli insediamenti, in base al diritto internazionale, sono illegali. Tuttavia, a fronte di questa situazione ormai sedimentata nel tempo, bisogna essere pragmatici.
Per i due autori una Costituzione federale potrebbe consentire ai coloni di restare nel nuovo territorio palestinese. Un compromesso politico che dovrebbe essere interpretato, da entrambe le parti, come una risposta pragmatica all’impossibilità di sfrattare con la forza tutti i coloni dalla Cisgiordania/Gerusalemme Est.
È presumibile pensare che, a queste condizioni, molti coloni non vorrebbero restare. Per loro dovrebbe essere previsto un fondo di compensazione finanziato da Israele col supporto di donazioni private.
Anche in questo caso si dovrebbe coinvolgere la diaspora ebraica nel mondo e arrivare ad una commissione internazionale per analizzare le rivendicazioni e prendere decisioni finanziarie.
Affrontare il passato
L’idea di uno Stato unico e federale, che comprenda palestinesi e israeliani, non deve essere però vista come la classica “soluzione coloniale calata dall’alto”. L’idea che emerge dal testo di Bocco e Roberts è invece quella di considerare lo Stato federale come il contenitore nel quale sviluppare, partendo dal basso, delle vere politiche di riconciliazione.
Un passo fondamentale dovrebbe essere rappresentato dalla capacità di “affrontare il passato”, ovvero di promuovere processi di riconciliazione, ponendo l’accento sulla giustizia transizionale piuttosto che su quella retributiva. Gli esempi più importanti di ciò sono rappresentati dalle varie Commissioni per la Verità e la Riconciliazione (TRC) emerse nel Sud del mondo a partire dagli anni ’70 in poi (ad esempio, in Argentina, Cile, Marocco, Perù, Sudafrica).
In quest’ottica si dovrebbero rilanciare anche le “people-to-people initiatives”, già finanziate dalla UE durante il processo di Oslo, e rivolte a creare occasioni di incontro tra la società civile palestinese e quella israeliana.
Il saggio di Riccardo Bocco e Nigel Roberts è molto interessante e riprende un’idea che, nel corso degli ultimi ottant’anni, è stata approfondita da numerosi studiosi. Gli autori ammettono chiaramente che la soluzione di un unico Stato federale non è all’ordine del giorno. Però – sostengono nelle ultime pagine del libro – è fondamentale che questa idea si inserisca nel dibattito sulla pace in Medioriente. Forse non sarà oggi, non sarà domani ma, come talvolta accade, la soluzione migliore è quella che, a prima vista sembrava la più impraticabile.
Ogni tanto mi è capitato di parlare con qualcuno dell’idea di un unico Stato binazionale Israelo-Palestinese. Spesso i miei interlocutori scuotono la testa e, alla luce delle drammatiche cronache che ascoltiamo ogni giorno, bocciano questa ipotesi come assurda e impraticabile.
Eppure, io suggerisco sempre di tornare con la mente ai primi anni ’80 e pensare al Sudafrica. L’idea di Mandela presidente sarebbe sembrata allora assurda a tutti. Chi avrebbe potuto immaginare che, di lì a pochi anni, il regime dell’apartheid sarebbe stato superato con una transizione sostanzialmente pacifica?
Nelson Mandela, per restare all’esempio del Sudafrica, sosteneva che «il perdono è un’arma potente, poiché libera l’anima e rimuove la paura».
Io sono d’accordo con le sue parole: il perdono è l’arma più potente di tutte, perché disinnesca le altre armi. Il perdono non cancella i crimini e i torti subiti – certo che no – ma esso impedisce che la spirale delle ingiustizie si perpetui all’infinito.
Applicato al Medioriente significa che rompere questa spirale di odio è la prima azione per la costruzione di uno Stato dove tutti, israeliani e palestinesi, possano avere gli stessi diritti. Per riuscirci servono leader illuminati come Mandela.
Si tratta, però, di un lavoro che, in ultima istanza, deve partire dal basso, dalla società civile, dalle comunità e popolazioni locali, e deve essere supportato dalle competenze che – come mi ha raccontato il professor Bocco – esistono già nell’ambito delle Nazioni Unite e, nel corso degli ultimi decenni, hanno già fatto un ottimo lavoro in molte zone del mondo.





