Governo, referendum e cittadinanza

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Il monopolio governativo della comunicazione non informa i cittadini sulle condizioni reali del paese e su quello che li aspetta nel futuro.

Una sordina ben orchestrata sta accompagnando i giorni che ci portano alle urne dell’8-9 giugno prossimo. Quattro quesiti posti sono riferiti alle condizioni dei lavoratori e alle loro tutele, mentre il quinto interessa la proposta di riduzione da 10 a 5 anni del tempo di residenza regolare in Italia per poter presentare l’istanza di cittadinanza italiana.

Per quanto riguarda i primi, sembra che il tema lavoro non sia più di interesse pubblico, bensì una questione tra singoli lavoratori e imprenditori. L’ostinato silenzio e qualche annuncio economico fuorviante – come il dato della crescita dell’occupazione a cui la presidente del consiglio aggiunge quello della supposta crescita economica dell’Italia – vanno a sostenere l’inutilità “facinorosa” dei quesiti referendari.

Tutto andrebbe bene perché lo spread col bund tedesco sta sotto i 100 punti. La presidente del consiglio afferma che ormai l’economia italiana è superiore a quella tedesca: una falsità annunciata pomposamente.

La parola alle cifre

L’ISTAT nell’ultimo rapporto del 26 marzo scorso sulle condizioni di vita e di reddito delle famiglie italiane, prendendo i dati del 2023–2024, segnala una povertà in continuo aumento con redditi erosi dall’inflazione e disuguaglianze sociali in crescita.

Nel 2024 il 23,1% della popolazione italiana era a rischio povertà o esclusione sociale, in crescita rispetto al 22,8% del 2023. Nel 2023 i lavoratori a basso reddito, cioè quelli che hanno lavorato almeno un mese nell’anno, sono pari al 21% del totale.

Il rischio di essere un lavoratore a basso reddito interessa soprattutto le donne (26,6% rispetto al 16,8%) e i cittadini stranieri col 35,2% rispetto al 19,3% degli italiani. La condizione di basso reddito è associata anche ad un basso tasso di istruzione; infatti, tale fascia è costituita per il 40,7% da chi possiede solo un livello di istruzione primaria, rispetto al 13,3% di chi ha un’istruzione più alta.

Il basso reddito colpisce il 17,1% dei lavoratori dipendenti e il 28,9% gli autonomi; il 46,6% di chi ha un contratto a termine e l’11,6% di chi ha un contratto a tempo indeterminato.

Nel 2024 risulta a rischio di povertà lavorativa il 10,3% della popolazione, dato in crescita rispetto al 9,9% del 2023. Il gruppo a maggiore rischio di povertà lavorativa è rappresentato degli stranieri, col 22,6% rispetto all’8,9% degli italiani. Questo quadro – tracciato dall’ISTAT – legittima ampiamente la scelta del “sì” ai referendum proposti al vaglio degli elettori.

L’iniziativa sindacale trova ampia giustificazione nei dati e non riveste affatto una funzione ideologicamente costituita per contrastare la politica economica del governo. I dati parlano da soli. Ma la narrazione che viene fornita dai media nazionali, sotto controllo della maggioranza, continua a distorcere la realtà, fatta qualche eccezione. La bugia come strategia di potere e manipolazione del consenso collettivo sembra pagare in Italia come altrove.

La povertà culturale e di istruzione adempiono al proprio compito di narcotizzare le coscienze e le intelligenze. La non-verità è stata sdoganata a valore moralmente accettabile e spendibile. Il monopolio della comunicazione non ha alcun interesse a informare i cittadini delle condizioni reali del paese e di quel che li aspetta nel futuro.

I quesiti referendari nel dettaglio

Dei quattro dedicati al lavoro, il primo prende in considerazione la modifica di quanto definito nel cosiddetto Job Act dell’allora governo Renzi. Tale norma legittima i licenziamenti non adottati “per giusta causa” avverso il diritto di reintegro in caso di vittoria in giudizio presso un tribunale del lavoro. Il lavoratore viene liquidato con una somma di danaro.

Il secondo si riferisce ai lavoratori occupati in piccole imprese che, con il “sì” avrebbero diritto ad un risarcimento in caso di licenziamento: la somma da riconoscere al lavoratore andrebbe decisa dal giudice e sarebbe un atto di maggiore giustizia sociale.

Il terzo prende in considerazione i meccanismi dei contratti a termine di cui molte aziende fanno ampio uso per assumere per alcuni mesi, per poi licenziare e riassumere e così via. Il “sì” chiede che i contratti a termine siano motivati sia nelle mansioni che nelle retribuzioni, in quanto effettivamente per impieghi a termine, senza innesco di assunzioni-cessazioni. L’obiettivo è limitare al massimo la precarietà.

Il quarto riguarda la materia degli appalti. È fatto comune trovare ditte medio grandi che vincono gare d’appalto, anche pubbliche, per poi subappaltare alle catene delle piccole ditte settoriali. La richiesta – poste le carenze di controllo in materia di sicurezza sul lavoro e il numero esorbitante di morti e inabilità causate proprio da incidenti sul lavoro – metterebbe in capo all’azienda vincitrice dell’appalto la responsabilità del controllo della sicurezza, che ora è delegata alle ditte subappaltatrici.

Il quinto quesito riguarda la normativa che definisce i tempi per la presentazione – non l’ottenimento – della richiesta di acquisizione della cittadinanza italiana dopo 5 anni di residenza legale e continuativa rispetto ai 10 anni attualmente richiesti. Si tratta del correttivo alla normativa in materia di cittadinanza adottata con la legge nr. 91 del 1992, che ha introdotto i 10 anni di residenza rispetto ai 5 richiesti dalla legge del Regno d’Italia del 1912, legge 13 giugno 1912, n. 153, art. 4:

«La cittadinanza italiana, comprendente il godimento dei diritti politici, può essere concessa per decreto reale, previo parere favorevole del Consiglio di Stato: 1/a allo straniero che abbia prestato servizio per tre anni allo Stato italiano, anche all’estero; 2/a allo straniero che risieda da almeno cinque anni nel Regno; 3/a allo straniero che risieda da tre anni nel Regno ed abbia reso notevoli servigi all’Italia od abbia contratto matrimonio con una cittadina italiana; 4/a dopo un anno di residenza a chi avrebbe potuto diventare cittadino italiano per beneficio di legge, se non avesse omesso di farne in tempo utile espressa dichiarazione».

La richiesta di ritornare ai 5 anni di residenza non avrebbe alcuna incidenza sulla qualità–affidabilità dei candidati alla cittadinanza italiana. Infatti, i requisiti procedurali non vanno incontro ad alcun cambiamento.

Il cittadino straniero dovrebbe pur sempre presentare la sua fedina penale sia del paese di origine, se espatriato dopo i 14 anni, che del paese di arrivo, mostrare redditi sufficienti al mantenimento proprio e della propria famiglia, oltre a tutti i documenti vidimati e asseverati presso le autorità italiane in grado di attestare le sue generalità e la composizione della sua famiglia. Inoltre, dovrebbe continuare ad avere una congrua conoscenza della lingua italiana.

L’esaurimento di queste pratiche durano anni e in balìa della discrezionalità dei governanti e degli uffici di turno. È quindi un quesito posto al minimo delle richieste.

Molti paesi europei fanno proprio il requisito dei 5 anni di residenza regolare per poter accedere alla richiesta di cittadinanza: così in Francia e Germania. Il fatto poi che in Italia la cittadinanza italiana, in questi ultimi anni, venga concessa in numero maggiore rispetto ad altri paesi europei, è motivato da ragioni prettamente temporali: le vecchie migrazioni in Germania, Francia o Gran Bretagna sono state assorbite, infatti, in un tempo più lungo rispetto alle recenti migrazioni verso l’Italia, paese in cui la stabilizzazione–sedentarizzazione è avvenuta negli ultimi due decenni.

Nel Rapporto CNEL Cittadini Stranieri in Italia del dicembre 2024, viene riportato che dal 2011 al 2023 si sono avute complessivamente 1,7 milioni di acquisizioni di cittadinanza italiana, mentre nel solo 2023 sono state 214 mila, per il 92% riferite a cittadini non comunitari. Va tenuto in considerazione che nel computo sono inclusi i quai 60.000 minori annuali che diventano cittadini seguendo la cittadinanza di un genitore italiano.

Dallo stesso rapporto del CNEL possiamo estrarre un dato molto interessante, o preoccupante: il 38,4% dei ragazzi stranieri in Italia, tra gli 11 e i 19 anni, vede il proprio futuro all’estero, “contro” il 34% dei giovani italiani. L’8% vorrebbe tornare al paese di origine mentre un 30% in un paese diverso dall’Italia e da quello di origine. È in atto una mobilità transnazionale che dovrebbe essere sempre più tenuta nella dovuta considerazione.

Ora il quesito referendario tende a favorire il processo di inclusione sociale e a dare riconoscimento formale ad una presenza stabile di concittadini, soprattutto i non comunitari che contribuiscono all’economia e al rallentamento della decrescita demografica dell’Italia.

Purtroppo, non viene ancora affrontato il tema della cittadinanza da riconoscere a circa 1 milione di minori stranieri nati in Italia o residenti in Italia con un curriculum scolastico dell’obbligo ormai compiuto. Chi contrasta il “sì” al quesito referendario affermando di avere un obiettivo più alto, ossia quello della cittadinanza per i minori attraverso lo jus soli o jus scholae ha semplicemente la “coda di paglia”. Ogni passo, anche se piccolo verso il godimento del diritto alla cittadinanza italiana va sostenuto e promosso proprio al fine di raggiungere l’obiettivo della cittadinanza per i minori stranieri che ancora non la possiedono.

La Dottrina Sociale della Chiesa

La Chiesa, sin dal 1891 con l’enciclica Rerum novarum di papa Leone XIII e le seguenti encicliche sociali lungo i pontificati del Novecento, ha richiamato l’attenzione sulla condizione umana nel mondo del lavoro, sul rapporto tra dignità del lavoro e del lavoratore, sulle responsabilità del capitale.

Col mutare dei tempi e delle condizioni socioeconomiche il Magistero ha voluto accompagnare con richiami, riflessioni e incoraggiamenti, le plurime responsabilità di fronte ai nuovi scenari emergenti di criticità e di disuguaglianze in grado di spaccare la società e la stessa comunità cristiana.

I quesiti referendari rispondono al richiamo di giustizia e di dignità umana trasmessa da tutta la tradizione sociale della Chiesa. La comunità cattolica è impegnata a rispondere alle sfide contemporanee perché il lavoro avvenga nel rispetto della dignità globale dell’uomo e della donna, ricostituendo continuamente relazioni di solidarietà e di rispetto.

Il nome Leone XIV scelto da papa Prevost richiama quanto fatto dal papa di fine Ottocento. La motivazione è stata riferita da lui stesso ai cardinali del Sacro Collegio il 10 maggio: «Ho pensato di prendere il nome di Leone XIV. Diverse sono le ragioni, però, principalmente perché papa Leone XIII, con la storica enciclica Rerum novarum, affrontò la questione sociale nel contesto della prima grande rivoluzione industriale; e oggi la Chiesa offre a tutti il suo patrimonio di dottrina sociale per rispondere a un’altra rivoluzione industriale e agli sviluppi dell’intelligenza artificiale, che comportano nuove sfide per la difesa della dignità umana, della giustizia e del lavoro».

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3 Commenti

  1. Aldo Ciaralli 27 maggio 2025
  2. Pietro 20 maggio 2025
  3. Andrea Cappelletti 19 maggio 2025

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