Il nuovo scontro di civiltà

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Qualche giorno fa l’account Substack del dipartimento di Stato americano ha pubblicato uno dei più singolari documenti della storia diplomatica degli Stati Uniti dai tempi del «lungo telegramma» di George Kennan nel 1946, che ha delineato la strategia di competizione con la Russia durante la Guerra fredda.

Si chiama «La necessità di alleati di civiltà in Europa», lo firma un semi-sconosciuto consulente del dipartimento, Samuel Samson, Senior Advisor for the Bureau for Democracy, Human Rights, and Labor (DRL).

Le tesi sono ardite. Le istituzioni create nel Dopoguerra dai sostenitori del nuovo ordine globale, «inclusi cristiani ben intenzionati e partiti pro-democrazia», hanno garantito un saldo rapporto transatlantico. Ma adesso tutto è cambiato, e per colpa dell’Europa, che sarebbe impegnata nientemeno che in una «aggressiva campagna contro la civiltà occidentale stessa». Scrive Samuel Samson (qui il testo originale):

«In tutta Europa, i Governi hanno trasformato le istituzioni politiche in armi contro i propri cittadini e contro il nostro patrimonio comune. Lungi dal rafforzare i principi democratici, l’Europa si è trasformata in un focolaio di censura digitale, migrazione di massa, restrizioni alla libertà religiosa e numerosi altri attacchi all’autogoverno democratico».

Gli argomenti a sostegno di questa tesi sono gli stessi usati a febbraio, nel suo incendiario discorso alla Conferenza per la Sicurezza a Monaco, dal vicepresidente americano JD Vance: in Gran Bretagna vengono arrestati attivisti per dei loro post online, in Germania chi critica l’impatto della globalizzazione sulla società e l’economia viene trattato da estremista, la legge europea nota come Digital Services Act è usata per «silenziare le voci in dissenso attraverso una moderazione di contenuti orwelliana».

In pratica, secondo questo documento, l’unica dimensione per misurare il tasso di democrazia dell’Europa e la sua appartenenza alla civiltà occidentale è la capacità dell’estrema destra di esprimersi contro immigrati, regole, e predicare odio o diffondere fake news senza conseguenze.

Il segretario di Stato Marco Rubio, scrive Samuel Samson parlando del suo capo, «ha chiarito che il Dipartimento di Stato agirà sempre nell’interesse nazionale degli Stati Uniti. L’arretramento democratico dell’Europa non ha ripercussioni solo sui cittadini europei, ma incide sempre più sulla sicurezza e sui legami economici americani, oltre che sui diritti alla libertà di espressione dei cittadini e delle imprese statunitensi».

Ora, questo Samuel Samson risulta avere una laurea triennale nel 2021, e ha frequentato un master part time tra 2022 e 2025, non ha alcuna esperienza di politica estera. Ma queste sue tesi sono pubblicate su un account ufficiale del dipartimento di Stato americano. E, soprattutto, sono in piena sintonia con quello che i vertici dell’amministrazione americana ripetono in ogni occasione.

L’Europa, la NATO, il riarmo

È questo lo stato delle relazioni transatlantiche. Ci si può fidare di un’America che come precondizione a ogni forma di alleanza strategica pretende una piena adesione valoriale alle parole d’ordine, alle teorie del complotto, alle rivendicazioni del movimento Make America Great Again e quindi la resa all’ascesa delle estreme destre anti-democratiche in Europa?

Questa è la domanda che si fanno molti Governi in Europa e che, forse, si fa anche il Governo italiano, anche se in pubblico la premier Giorgia Meloni aderisce appieno allo schema del post Substack del dipartimento di Stato. Cioè pensa e dice che serva un Occidente unito sotto la bandiera e i valori di Donald Trump.

Però molti in Europa sono di parere contrario, a cominciare dal cancelliere tedesco Friedrich Merz, per non parlare della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e dell’Alto rappresentante per la politica estera Kaja Kallas.

Questa divergenza di opinioni e di strategie − accettare un’adesione transatlantica al trumpismo o trasformare l’Europa nell’ultimo baluardo degli ideali liberali minacciati dall’America – rischia di deflagrare al vertice NATO di luglio, quando si discuterà dei nuovi obiettivi per la spesa militare utile all’alleanza atlantica. Ha senso che gli Stati membri europei investano miliardi per rendere più efficace una NATO a guida americana che potrebbe rivelarsi inaffidabile, ostaggio degli umori del presidente americano e della sua guerra culturale contro l’Europa?

Oppure la stagione del riarmo deve essere orientata a sviluppare una alternativa, almeno parziale, alla NATO, nel senso che gli eserciti dei Paesi UE devono poter intervenire e garantire una deterrenza anti-russa anche senza la collaborazione di Washington?

L’Italia: da protagonista a incerta e «laterale»

Giorgia Meloni finora ha evitato di affrontare le conseguenze concrete della sua mancata scelta del campo europeo. Ma anche i problemi rinviati a lungo, prima o poi vanno affrontati: giovedì 12 giugno, la premier vedrà a palazzo Chigi Mark Rutte, l’ex premier olandese ora segretario generale della NATO.

E non avrà granché da dirgli: l’Italia ha deciso di raggiungere l’obiettivo tanto a lungo atteso del 2 per cento di spese per la difesa in rapporto al PIL già nel 2025, ma senza spendere un euro in più, riclassificando spese prima escluse dal perimetro di quelle rilevanti per la NATO, come la Guardia costiera o l’Agenzia della cyber-sicurezza.

Ma se il vertice di luglio deciderà di chiedere ai Paesi NATO di salire dal 2 al 5 per cento, come peraltro richiesto da Trump, non basteranno le operazioni contabili a raggiungere l’obiettivo.

Quindi Meloni non può rispettare le pretese di Trump, di dimostrare un impegno verso la Nato tale da ridurre il fardello a carico degli Stati Uniti, ma ha anche sabotato i piani europei di costruire una difesa alternativa: la premier si è detta contraria ai vertici dei capi di Governo cosiddetti «volenterosi», e non ha voluto usare la flessibilità sul deficit consentita dal piano della Commissione Rearm Europe, poi ribattezzato Readiness 2030.

Insomma, il Governo ha messo l’Italia in una posizione laterale senza capacità di incidere su nessuna delle due sponde dell’Atlantico.

Proprio in questi giorni, e alla vigilia dell’incontro tra Meloni e Rutte, il think tank della Bocconi Institute for European Policymaking organizza al Castello Sforzesco di Milano un evento che non è soltanto una commemorazione di un anniversario, ma ha un chiaro messaggio: proprio lì, alla fine del giugno 1985, l’Italia guidata da Bettino Craxi ha tenuto una riunione cruciale del Consiglio europeo.

All’epoca c’era solo la presidenza a rotazione: Craxi, in quella riunione dei capi di Governo di una Comunità europea a 10 membri, rompe con la tradizione che obbligava a cercare l’unanimità di tutti i Paesi e chiama un voto a maggioranza per superare le resistenze della Gran Bretagna di Margaret Thatcher.

Oggetto della discussione era l’opportunità o meno di convocare una conferenza intergovernativa a settembre di quell’anno per discutere di una riforma dei trattati che consentisse di superare la crisi percepita da tutti del processo di integrazione, e provare a costruire davvero un mercato unico europeo.

Passa la posizione italiana sette a tre, Margaret Thatcher finisce in minoranza, l’Europa invece di spaccarsi ne esce più forte.

È vero che quel voto a maggioranza si limitava a convocare una conferenza i cui esiti avrebbero poi dovuto essere approvati all’unanimità, ma a volte servono segnali anche simbolici e politici per uscire dai momenti di crisi.

La spinta del 1985: l’analisi di Andrea Colli

Andrea Colli è uno storico dell’Economia che insegna alla Bocconi, autore per l’Institute for European Policymaking di uno dei paper sul Consiglio europeo del 1985.

  • Che Italia è quella che nel 1985 arriva al Consiglio europeo di Milano?

L’Italia che nel 1985 arriva al Consiglio europeo di Milano è oggettivamente un Paese che non solo ha ristabilito una relativa pace sociale dopo gli anni del terrorismo, gli anni di piombo, ma che mostra anche – dal punto di vista economico – un quadro generale sicuramente positivo.

L’inflazione, ricordiamolo, aveva raggiunto nel 1980 la doppia cifra e aveva superato il 21 per cento. Nel 1985, quindi con successo solo cinque anni dopo, era ormai scesa al 4 per cento: un risultato decisamente buono. Ma soprattutto, l’Italia era un Paese con un deficit commerciale che si era andato progressivamente riducendo, e che mostrava tutta la forza del modello dei distretti industriali, del made in Italy.

È il momento d’oro dell’industria minore, quella cosiddetta della «terza Italia». È il momento delle esportazioni italiane e del made in Italy, è il momento della globalizzazione dell’industria italiana.

Quindi è un Paese il cui modello di crescita, tra l’altro, viene anche riconosciuto come virtuoso, in cui la società e il sistema produttivo si uniscono. Il risultato era un prodotto interno lordo pro capite che quasi andava a raggiungere quello del Regno Unito – che rimaneva comunque il Paese con cui l’Italia poteva confrontarsi dal punto di vista economico – sebbene le economie di Francia e Germania andassero decisamente meglio.

Quindi, sicuramente, era un quadro politico ed economico che dava credibilità all’Italia e ne rafforzava, in un certo senso, lo standing a livello europeo.

  • Il presidente del Consiglio Bettino Craxi decide di mettere ai voti la scelta di fare una conferenza intergovernativa sulla riforma dei trattati e la Gran Bretagna finisce in minoranza. Perché questa mossa è ricordata come uno spartiacque?

La mossa di Bettino Craxi, ispirata sicuramente da Giulio Andreotti, fu comunque una decisione, in un certo senso, poco rituale.

Sebbene gli Accordi di Roma, all’articolo 236, prevedessero il voto a maggioranza, fino a quel momento i Consigli europei avevano deciso implicitamente di evitare di applicare questa possibilità, preferendo mostrare quasi sempre l’unanimità attraverso un processo progressivo di raggiungimento del consenso.

Il voto, quindi, era quasi superfluo, perché le decisioni venivano già prese consensualmente.

In quel contesto, la novità fu la forzatura che l’Italia — che Bettino Craxi impresse — a questa regola non scritta del consenso, per raggiungere rapidamente una decisione: quella di convocare la conferenza intergovernativa che avrebbe poi portato all’Atto Unico Europeo e, successivamente, agli Accordi di Maastricht. Ma anche a una maggiore consapevolezza del ruolo geopolitico dell’Europa.

Quindi, in un certo senso, non fu una decisione ingiustificata dal punto di vista delle regole, ma fu senz’altro una scelta coraggiosa e irrituale.

  • Nel contesto geopolitico di oggi, è immaginabile riproporre quel tipo di iniziative o l’Italia e l’Europa sono troppo diverse?

Il contesto geopolitico attuale conferma, in un certo senso, la necessità di conferire all’Unione europea un ruolo politicamente e geopoliticamente più rilevante.

Probabilmente, il percorso che quarant’anni fa iniziò a Milano, e che in qualche modo condusse alla trasformazione dell’Europa verso un soggetto con una più marcata identità politica (e non soltanto economica), non si è ancora concluso.

Ricordiamo che, tra gli anni Novanta e i primi anni 2000, l’Europa ha continuato a rafforzare la propria identità economica: come spazio comune, come grande motore dell’economia globale, come attore economico di primo piano. Ma ha lasciato un po’ sullo sfondo il proprio ruolo politico a livello internazionale.

La situazione contingente mostra che questa evoluzione dell’identità politica dell’Europa non può considerarsi compiuta. Anzi, il processo richiede un’ulteriore accelerazione.

Slancio o boicottaggio

Nello scontro di civiltà interno all’Occidente che l’amministrazione Trump teorizza, i Governi europei devono scegliere se sottomettersi, o se rivendicare una visione alternativa che poi soltanto come Unione possono provare a far prevalere.

Ci vorrebbe però un’iniziativa italiana, come nel 1985, per ridare slancio al progetto europeo. E invece spesso ormai sembra di assistere a una forma, talvolta silenziosa, talvolta esplicita, di boicottaggio italiano dei tentativi di reazione coordinata a livello europeo.

Il potere trumpiano, con o senza Elon Musk, sostiene invece le destre più estreme e illiberali che sono pronte a prendere il potere per seguire la Casa Bianca in questa crociata culturale.

Fratelli d’Italia appartiene ai grandi partiti di centrodestra europeisti, come ha sostenuto nella prima fase della legislatura, o alle nuove destre illiberali che fanno da «alleati di civiltà» europei al progetto trumpiano?

  • Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 11 giugno 2025

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