“Premierato” e democrazia: quali rischi

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giorgia meloni

Sono quasi 45 anni che in Italia si parla di riforme costituzionali. Dalla commissione Bozzi (1983) in poi, quasi ogni governo ha inserito fra le sue priorità la necessità di riformare le istituzioni italiane. Le motivazioni, del resto, ci sono tutte. Il modello studiato dai padri costituenti faceva infatti riferimento a un’epoca storica e politica molto diversa dalla nostra ed è abbastanza chiara la necessità di intervenire in ambiti come la governabilità, l’efficienza dei lavori parlamentari, i conflitti di attribuzione fra Stato e Regioni, il potere decisionale in mano ai cittadini…

Il risultato dei tanti tentativi è però sicuramente negativo: qualche riforma è stata affossata prima ancora di cominciare il suo percorso, altre volte sono intervenuti i referendum, nei casi in cui si è arrivati fino in fondo (vedi titolo V e numero dei parlamentari) il bilancio che possiamo fare è abbastanza deprimente.

In questo quadro si inserisce la volontà di riforma portata avanti dal governo meloni e dalla sua maggioranza, legata al concetto del «premierato». Ma di cosa si tratta? Se ne è parlato venerdì 2 febbraio al Centro Ferrari di Modena, in una iniziativa che ha visto la partecipazione del prof. Francesco Clementi, ordinario alla Sapienza di Roma e autore del libro «Il presidente del Consiglio dei Ministri». Il tema, oltre ad essere di attualità, ha a che fare molto più di quanto potremmo immaginare sul futuro della nostra democrazia.

Come siamo arrivati fin qui

Per capire come siamo arrivati all’attuale tentativo di riforma è necessario fare un passo indietro, a partire dalla repubblica immaginata dai nostri padri costituenti, in cui i partiti avevano un ruolo assolutamente predominante.

«La sovranità citata dall’articolo 1 – ha spiegato Clementi – si esercita innanzitutto tramite i partiti politici. I partiti politici avevano un ruolo fondamentale, erano il motore, ad essi era affidato il compito di definire la politica nazionale (vedi articolo 49)». Con la fine della Guerra Fredda e la caduta del muro di Berlino cambia il contesto internazionale e crolla il sistema dei partiti e si crea un grande problema nell’applicazione della nostra Costituzione. «Il testo costituzionale non può essere rinnegato, ma resta senza il protagonista, cioè il sistema dei partiti. A questo punto ci sono due strade: riformare la politica per riformare le istituzioni o riformare le istituzioni e dunque riformare la politica. Nascono Forza Italia, il bipolarismo, l’Italia del maggioritario, l’Ulivo».

È l’epoca della cosiddetta «seconda Repubblica», ma il sistema non riesce a trovare una sua stabilità: «Berlusconi non era figlio di una logica partitica, era il capo di un’azienda che aveva trasformato in partito, mentre le teste dei partiti che sostennero Prodi nel 1996 erano immersi in transizioni non concluse, guardavano al passato più che al futuro. Tutti i tentativi di riforma falliscono perché si parla con lingue diverse». E quando arriva la riforma elettorale di Calderoli, il famigerato «porcellum», la situazione peggiora ulteriormente, perché si sradica completamente l’eletto dall’elettore.

In questo quadro ci sono poi situazioni tipiche della Costituzione italiana che richiedevano una soluzione mai trovata per davvero: ne sono un esempio il bicameralismo paritario (caso unico al mondo) o la riforma del titolo V, su cui è dovuta intervenire innumerevoli volte la Corte costituzionale.

«Il terzo buco nero – sostiene Clementi – è la premiership: nella tradizione italiana, che deriva dallo statuto albertino, il Presidente del Consiglio è una figura inesistente, debole per definizione, un vigile urbano che, al centro di un incrocio trafficato, cerca semplicemente di evitare incidenti. Non era il presidente del Consiglio a decidere chi faceva il ministro o il programma di governo, quello lo facevano i partiti. Lui era il punto finale di un accordo, un grande mediatore. Ora il suo ruolo è cambiato perché in Europa il presidente svolge una funzione fondamentale, è quello che porta agli altri Paesi l’indirizzo politico e quindi dobbiamo dare più poteri. E inoltre il presidente è l’interlocutore con le regioni e le autonomie locali». Senza considerare poi la tendenza alla personalizzazione della politica, spinta dalla TV e dai nuovi media.

I problemi della riforma sul premierato

Intervenire appare quindi assolutamente necessario. Ma secondo Clementi la ricetta di Giorgia Meloni contiene due grandi pasticci. «Il primo è l’elezione diretta del premier, un’elezione che non è accompagnata da un aumento dei poteri, tanto che addirittura il premier può essere sostituito dai partiti che compongono la sua maggioranza».

Il secondo problema ha invece a che fare con il Presidente della Repubblica perché, mettendolo di fronte a un premier eletto direttamente dal popolo, perderebbe la sua legittimità di azione. «È vero, nessun articolo toglie i poteri al capo dello stato, ma l’elezione diretta gli toglie legittimità, l’elezione diretta del premier è un cannone puntato contro il capo dello stato. Con questa riforma non vengono dati i giusti poteri e viene uccisa l’istituzione di garanzia del Presidente della Repubblica con il suo ruolo di motore di riserva, che entra in azione quando le altre istituzioni si inceppano».

In questo caso come si colloca l’azione delle opposizioni? «Al momento – ha spiegato Clementi – manca un testo alternativo da parte del PD, anche una semplice proposta di bandiera, è qualcosa che non è mai successo nella storia repubblicana. Qui si rischia che faccia troppo comodo, da una parte e dall’altra, alzare i vessilli del “ritorno del fascismo” e del “potere in mano ai cittadini”, così da nascondere le proprie debolezze di leadership».

Secondo il prof. Clementi «bisogna aprire una serena e franca discussione per migliorare il testo e soprattutto non bisogna arrivare al referendum, perché lì la sfida non sarebbe PD contro Meloni ma Mattarella contro Meloni, l’elezione diretta ha come colpo grosso il Presidente della Repubblica. Alzare le barricate invocando il fascismo significa fare un danno doppio al Paese».

È necessario quindi scendere dagli spalti della tifoseria e prendersi il rischio della mediazione, fare cioè politica, evitando posizioni polarizzate e scontri a prescindere.

Il futuro della nostra democrazia

Il tema delle riforme finisce dunque per mettere in luce la debolezza e la crisi dei partiti e delle istituzioni. Come se ne esce? Secondo Clementi ci sono due piste che, per quanto faticose, devono essere percorse. La prima è valorizzare le istituzioni, in special modo quelle più vicini ai cittadini; la seconda è un’azione riformatrice coerente e pragmatica, capace di esercitarsi dentro i partiti, perché «la riforma dei partiti può essere fatta solo con i partiti».

In generale abbiamo bisogno di un diverso atteggiamento che ci faccia evitare le scorciatoie e ci aiuti a riscoprire la politica. «L’offerta politica è inadeguata e ciò che ogni volta si promette non lo si può mantenere. Non abbiamo bisogno del salvatore della patria ma dobbiamo rimboccarci le maniche e ripartire da una dimensione di comunità. Questa è l’unica strada: scegliere fino in fondo di giocare dando rispetto alla politica. Se ti propongono una cosa non basta dire solo no, dobbiamo esercitare la funzione di dialogo e confronto».

Il 2024 sarà l’anno in cui più persone andranno al voto nella storia dell’umanità: in molti stati c’è stata una regressione della democrazia, mentre altri hanno istituzioni democratiche in grande crisi. «Ci stiamo giocando la democrazia – ha concluso Clementi – perché a nessuno interessa più il vivere in comune. Se non riusciremo a spiegare perché vivere in comune bene è meglio che vivere male da soli, nel giro di una o due generazioni finiremo a guardarci le punte dei piedi, magari armati. Come già sta avvenendo in troppe parti del mondo».

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