Santa Sede-Israele: le guerre culturali del Governo Netanyahu

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Il segretario di Stato vaticano Pietro Parolin (ANSA/ Alessandro Di Marco)

L’Osservatore Romano del 6 ottobre scorso riportava un’intervista del Segretario di stato, card. Pietro Parolin. Ne era occasione l’imminente commemorazione dell’attacco terroristico di Hamas, da cui è scaturita la guerra che da due anni sconvolge il Medio Oriente. Vi ribadiva una posizione più volte da lui enunciata, in conformità con la tradizionale dottrina della guerra giusta espressa nel Catechismo della Chiesa cattolica: il diritto, del tutto legittimo, alla difesa deve mantenersi nei limiti della proporzionalità tra l’offesa subita e la risposta messa in opera.

Nello svolgere questa argomentazione, Parolin qualificava l’azione terroristica del 7 ottobre come «un massacro indegno e disumano», per asserire poi che a Gaza ne sono derivate conseguenze «disastrose e disumane». Concludeva che «è inaccettabile e ingiustificabile ridurre le persone umane a “vittime collaterali”». L’ambasciata israeliana presso la Santa sede è insorta, diramando una nota, in cui afferma che le parole del cardinale mettono a rischio il processo di pace avviato in questi giorni.

Falsificazioni

Il documento dell’ambasciata contiene, in primo luogo, una clamorosa falsificazione. Infatti, l’intervista parte ricordando che la Santa sede ha fin da subito chiesto la liberazione degli ostaggi israeliani e continua ponendo questa condizione come requisito per il cessate il fuoco. Invece la nota sostiene che il cardinale «trascura» la questione degli ostaggi.

Stigmatizza poi «l’applicazione del termine “massacro” sia all’attacco genocida di Hamas del 7 ottobre, sia al legittimo diritto di Israele all’autodifesa». In realtà, peraltro in un successivo passaggio dell’intervista, Parolin ha parlato di «carneficina». Senza insistere sull’opportunità della correttezza, anche filologica, nelle relazioni diplomatiche, possiamo assumere che i due termini siano equivalenti.

Quel che l’ambasciata vuole così mettere in rilievo è assai chiaro: l’attacco di Hamas costituisce un «genocidio», mentre i morti della guerra israeliana sono gli inevitabili effetti di una violenza lecita, perché determinata dalla legittima difesa. In tal modo la nota, senza entrare nel merito della questione della «proporzionalità» posta dal Segretario di Stato vaticano – che ha puntualmente ricordato i macroscopici caratteri del disastro umanitario in Palestina –, rovescia il giudizio sulla guerra.

Afferma infatti che la violazione del diritto internazionale è stata compiuta da Hamas che ha perpetrato un genocidio, cioè un crimine previsto dalla Convenzione per la prevenzione e la repressione del genocidio, adottata dalle Nazioni Unite nel 1948. Le uccisioni a Gaza dell’esercito israeliano, rientrando nella fattispecie della guerra giusta, sono invece legali e moralmente ineccepibili.

I rapporti tra la Santa Sede e lo Stato di Israele

Per cogliere le implicazioni di questa operazione, è opportuno collocarla nel più ampio quadro dei rapporti tra il Governo di Israele e la Santa sede. Occorre ricordare che il riconoscimento vaticano dello Stato israeliano risale al 1993. Nel 2014 papa Francesco ha promosso un incontro in Vaticano tra l’allora presidente israeliano Shimon Peres e Abu Mazen, presidente dell’Autorità nazionale palestinese, coinvolgendoli nel simbolico atto di piantare un ulivo.

L’anno successivo la Santa sede ha riconosciuto lo Stato palestinese nella speranza di favorire lo sviluppo di un processo di pace all’insegna della formula «due popoli, due Stati». Dall’inizio del conflitto, nel 2023, la linea vaticana si è attestata sulla ricerca di una pacificazione attraverso la via diplomatica. Viene basata su atti contestuali: cessate il fuoco, rilascio degli ostaggi, distribuzione aiuti alla popolazione.

In attesa di un negoziato ha invocato il rispetto del diritto internazionale umanitario (divieto di punizioni collettive, dell’uso indiscriminato delle armi e dello spostamento forzato di popolazioni). Senza riprendere quanto previsto dal Catechismo sull’obbligo morale di disobbedire ad ordini contrari a tali norme, talora ha anche sollevato il problema della liceità morale di fornire armi a chi le usa contro i civili innocenti.

Nel 2025 usciva il libro La speranza non delude mai di papa Francesco, che nel suo discorso pubblico aveva più volte utilizzato il termine «genocidio», ad esempio a proposito dell’Armenia e del Rwanda, mostrandosi ben consapevole del carattere tecnico-giuridico della categoria. Vi osservava che alcuni esperti ritenevano che quanto accadeva a Gaza potesse rientrare in quella fattispecie.

Prospettava perciò che una commissione di esperti indipendenti ne esaminasse l’applicabilità alla situazione palestinese. L’ambasciata israeliana presso la Santa sede reagiva duramente, proclamando che il genocidio era stato messo in opera da Hamas, mentre l’invasione militare nella striscia di Gaza costituiva un atto di legittima difesa. Ogni altra interpretazione della guerra era diretta a minare la sopravvivenza stessa dello Stato israeliano.

L’intervento assumeva un significato inequivocabile: il Governo Netanyahu ricorreva a una categoria fissata nel 1948 dalla ricordata Convezione delle Nazioni Unite, ma si rifiutava di rimettersi all’organismo internazionale per verificarne la concreta applicazione. Si autoattribuiva, infatti, non solo il potere di determinarne la corretta interpretazione, ma anche di trarne le inevitabili conseguenze: l’uso della forza militare per impedire la continuazione del crimine in essa previsto.

Disinformazione sistematica

A partire da questo momento, un ulteriore elemento si è fatto strada: un’azione sistematica di disinformazione diretta a far credere che papa Francesco aveva qualificato l’intervento israeliano con la parola «genocidio». Si è infatti evitato accuratamente di specificare che il pontefice aveva soltanto chiesto di verificare, da parte di organi indipendenti e in armonia con il diritto internazionale, se quella categoria si poteva usare.

L’assenza di rappresentanti del Governo di Israele ai funerali di Francesco ha certo varie ragioni ma, probabilmente, non ne è componente secondaria la volontà di ribadire la tensione con la Santa sede basata, come si è visto, su un travisamento propagandistico delle posizioni realmente espresse dal pontefice argentino. Non è poi mancato il tentativo di approfittare dell’elezione del nuovo papa per trovare un accomodamento.

In realtà l’operazione si è rivelata piuttosto maldestra. Come è noto, in relazione alla visita del presidente israeliano Isaac Herzog a Leone XIV, la sala stampa vaticana è dovuta intervenire per smentire quanto sostenuto da parte israeliana. Il papa non aveva rivolto alcun invito a Herzog ma, secondo prassi, aveva accettato la richiesta di visita avanzata da un Capo di Stato.

Ma l’alterazione dei fatti è andata assai oltre. Nel comunicato diffuso da parte israeliana si sostiene che nell’incontro vaticano si è convenuto nella lotta all’antisemitismo. Nella nota ufficiale della Santa sede tale frase non compare. Non a caso. Il Governo israeliano definisce, infatti, come espressione di antisemitismo qualsiasi manifestazione di dissenso nei confronti di ogni provvedimento che esso adotta in campo politico o militare.

Il papato ha invece continuato a ribadire la volontà di combattere l’antisemitismo così come definito nella dichiarazione conciliare Nostra aetate e in tutti i successivi (numerosi e fermi) interventi della Santa sede in materia. Si condanna, cioè, ogni atto di ostilità verso gli ebrei in quanto ebrei. Una linea ribadita anche nell’intervista del cardinal Parolin.

Ovviamente il rifiuto dell’uso propagandistico della categoria di antisemitismo non ha mai messo in questione la pubblica proclamazione vaticana del diritto dello Stato di Israele a vivere in pace e sicurezza. Si limita, laicamente, a distinguere, tra Stato di Israele, suo attuale Governo ed ebraismo.

Una nuova guerra culturale

Da questa rapida ricostruzione dei rapporti tra Israele e la Santa sede si può trarre una conclusione. Attorno ai termini «genocidio» e «antisemitismo» è in atto una battaglia culturale. La propaganda del Governo di Gerusalemme si propone di mutarne il significato, arrogandosi il potere di definire la categoria di «genocidio» e risemantizzando la nozione di antisemitismo in funzione di una legittimazione della sua politica militare.

Non sorprende che tutti i sostenitori dell’attuale esecutivo israeliano – ambienti, italiani e internazionali, dell’ebraismo come del tradizionalismo cattolico – si siano accodati a questa operazione di guerra ibrida attraverso un’ampia letteratura.

Senza entrare nei dettagli, val qui la pena notare che essa aggiunge un’ulteriore distorsione della storia. Esalta infatti, come un modello esemplare, la linea tenuta da Benedetto XVI nelle relazioni tra Chiesa ed ebrei, contrapponendola a quella, presentata avversa agli ebrei, di Francesco.

L’ occultamento di dati reali sta a fondamento di questa tesi.

Al di là del ritorno alla liturgia preconciliare che comportava il ribadimento del tradizionale «insegnamento del disprezzo», basta solo ricordare la rilegittimazione – considerata da Ratzinger punto qualificante del suo programma di governo – dei vescovi della comunità scismatica lefebvriana. I suoi membri sono infatti tenaci depositari dell’ottocentesco antisemitismo cattolico e della negazione di ogni suo nesso con la Shoah.

Francesco invece ha affidato agli storici, aprendo gli archivi di Pio XII, il compito di stabilire quel che è effettivamente successo nella Seconda guerra mondiale. Che un funzionario dell’Archivio vaticano abbia potuto così scrivere un libro sulla questione intitolato Un mosaico di silenzi non è privo di significato.

Si è insomma aperto un nuovo fronte nelle guerre culturali del nostro tempo. Mira a promuovere nell’opinione pubblica il sostegno al ricorso alla forza militare, per legittimarne l’uso a discrezione degli attuali detentori del potere politico.

In questo contesto val la pena ricordare che la ragione critica, in grado di decifrare manipolazioni, falsificazioni e distorsioni della realtà, rappresenta ancora un rilevante strumento di impegno civile, prima ancora che di lotta politica.

Curiosamente la Chiesa, che a lungo l’aveva sospettata, limitandone anche la pratica, oggi ne è un’alleata.

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2 Commenti

  1. Maria Laura Innocenti 15 ottobre 2025
  2. Lorenzo M. 10 ottobre 2025

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