Spie russe e silenzi italiani

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Esiste una regione tenebrosa del discorso pubblico italiano in cui tutti i sospetti più grotteschi incrociano tutte le teorie del complotto più cervellotiche, un territorio dove presto o tardi si dirige ogni chiacchiera da bar condotta a colpi di Campari ghiacciati e sguardi di sfida a chi la sa più lunga: è il territorio dei cosiddetti «servizi segreti», e si brandisce come arma definitiva per attribuire la responsabilità di quasi ogni cosa a un’entità vaga ma potentissima.

«Sono stati i servizi segreti»

«Sono stati i servizi segreti» è la frase che può chiudere qualsiasi conversazione con la stessa perentorietà di una briscola sbattuta sul tavolo all’ultima mano di gioco. Per essere un popolo che vede l’ombra dei «servizi segreti» dappertutto noi italiani siamo allo stesso tempo molto ignoranti sui funzionamenti dei nostri apparati di intelligence e poco interessati a capire come si svolge davvero il loro lavoro.

Eppure, il materiale per suscitare quantomeno un po’ di curiosità non mancherebbe: una presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, rimasta al telefono per quasi quindici minuti in balìa di una coppia di comici russi legati a doppio filo con il Cremlino, che tentano di estorcerle commenti compromettenti sull’andamento della guerra in Ucraina spacciandosi per un leader dell’Unione Africana.

Un allarme di Banca d’Italia e degli apparati di intelligence su flussi anomali di denaro, quattro milioni e mezzo di euro in contanti prelevati dall’Ambasciata della Federazione Russa a Roma che potrebbero essere destinati al finanziamento di campagne di disinformazione e alla caccia di informazioni riservate in vista delle prossime elezioni europee.

Una donna dalla doppia cittadinanza russa e italiana che vince un concorso in un ufficio del Senato senza che nessuno sollevi questioni di opportunità per l’accesso a un ruolo così delicato, considerati i suoi legami con l’Ambasciata russa (è figlia di un ex attaché culturale), il suo passato di interprete nei viaggi in Russia del ministro Matteo Salvini e le sue posizioni ultra-putiniane, espresse anche durante una campagna elettorale come candidata alle elezioni comunali a Roma.

Tutti questi eventi sono avvenuti in Italia solo nelle ultime settimane, ma mentre in altri Paesi una sequenza così singolare – e potenzialmente pericolosa – avrebbe scatenato un ampio discorso pubblico sullo stato di salute della sicurezza nazionale, la stampa italiana ha riportato queste notizie solo per qualche giorno e i talk-show le hanno raccontate a stento, senza collegarle tra loro nell’ambito di riflessioni più ampie e senza approfondimenti sul clima politico in cui si sono svolti i fatti. Perché?

La diffidenza verso l’intelligence

Nei media italiani non esiste la figura del corrispondente addetto alla sicurezza nazionale, un ruolo ampiamente diffuso nella stampa americana, ma anche in quella francese. La nostra letteratura non ha mai frequentato la figura dell’«agente segreto», che invece è ormai un protagonista classico dell’immaginario britannico. Eppure, la nebbia che aleggia intorno a questi temi non si spiega solo con il deficit di attenzione della stampa, e neppure con la scarsa attitudine alla comunicazione degli apparati.

Alla base di tutto c’è un’opinione pubblica culturalmente incapace di superare il sospetto nei confronti delle agenzie di intelligence e di accettarle finalmente come parte legittima e «ordinaria» dell’amministrazione statale, al pari di tribunali e forze dell’ordine, sanità e riscossione dei tributi.

Di sicuro un agente dell’AISE – l’Agenzia dell’intelligence italiana che si occupa di questioni estere – non fa certo lo stesso lavoro di uno dell’Agenzia delle Entrate, e i sospetti che ancora oggi gravano sugli apparati affondano le radici in un passato angoscioso, in cui settori e individui che avrebbero dovuto garantire la sicurezza della Repubblica hanno operato in senso contrario.

Ma è solo superando l’associazione automatica tra l’espressione «servizi segreti» e l’aggettivo «deviati» che la nostra opinione pubblica può fare un salto in avanti e comprendere tutte le implicazioni di quanto sta avvenendo da diversi anni nel nostro Paese e in molti altri Paesi europei: una campagna sistematica e aggressiva condotta dalla Russia di Vladimir Putin su più livelli per restringere gli spazi della vita democratica e – come obiettivo finale – mandare in tilt i meccanismi di funzionamento delle democrazie liberali.

Dopo lunghe conversazioni per ottenere la loro fiducia e mille dubbi sul rischio di essere manipolato ho trascorso gli ultimi due anni a incontrare diplomatici, funzionari pubblici, politici in servizio e in pensione e soprattutto agenti della nostra intelligence e di agenzie straniere.

Ho studiato noiosissimi documenti di pubblico dominio e altri dossier più riservati ma non meno prolissi; sono andato a Lisbona e a Parigi per incontrare i protagonisti di alcune storie e ho chiesto interviste telematiche da Washington fino a Mosca passando per Helsinki: il risultato finale è una sensazione di inquietudine che serpeggia per l’Europa che ho cercato di condensare in un libro-reportage.

copertina

Una meta privilegiata

Dal 2016 almeno – ma probabilmente da molto prima – l’Italia è diventata una delle mete privilegiate per le attività clandestine dei servizi segreti russi: a Londra e nei paraggi si investiva in immobili e si conducevano clamorosi attacchi con armi chimiche; nelle Alpi francesi si nascondevano basi operative; a Berlino si stringevano accordi energetici. A Roma e dintorni ci si incontrava per lo scambio di documenti riservati.

La cronologia è inesorabile, spietata: nel 2016 Frederico Carvalhão Gil, un alto funzionario degli apparati di sicurezza portoghesi, viene sorpreso in un bar di Trastevere a cedere dossier della Nato a un funzionario dell’Ambasciata della Federazione Russa in Italia.

Nel 2019, all’aeroporto di Napoli Capodichino, gli agenti della Digos arrestano su richiesta degli Stati Uniti Alexander Korshunov, colonnello dei servizi segreti russi nascosto dietro la copertura di dirigente di un conglomerato industriale russo per ottenere segreti dell’industria militare americana.

Nel 2020 è il turno di «Marc L.», tenente colonnello dell’esercito francese in servizio alla base Nato di Lago Patria, a Napoli, che si è fatto sedurre dall’ideologia del Cremlino e sta passando documenti segreti alla Russia.

Nel 2021 tocca a Walter Biot, ufficiale della Marina Militare Italiana in servizio presso lo Stato Maggiore della Difesa, arrestato in un parcheggio di Spinaceto mentre porgeva una chiavetta USB piena di procedure Nato a un altro funzionario dell’Ambasciata russa.

Nell’ottobre del 2022 infine arriva la prima questione davvero problematica per la presidente Giorgia Meloni: Artem Uss, rampollo di un governatore siberiano del partito di Vladimir Putin e imprenditore milionario legato al Cremlino, viene arrestato in Italia su richiesta americana con l’accusa di riciclaggio e traffico di tecnologie civili e militari.

Pochi mesi dopo evade dagli arresti domiciliari in provincia di Milano con una rocambolesca fuga che forse – in condizioni diverse – avrebbe fatto saltare un po’ di teste tra gli apparati dell’intelligence e costretto il governo a fornire qualche spiegazione.

Il caso invece è completamente scomparso dalle cronache politiche, e dopo pochi mesi il dossier Uss giace sepolto in qualche archivio riservato insieme a chissà quanti faldoni dell’epoca della Guerra fredda.

Indagare su queste e altre storie per due anni non significa solo ricostruire intrighi internazionali che prima o poi hanno trovato sbocco in Italia; significa osservare la politica degli ultimi governi da un punto di vista obliquo, che restituisce una paradossale visione d’insieme: se in un paese democratico l’intelligence è sempre espressione del potere esecutivo, analizzare le sue operazioni equivale a ricostruire le priorità della presidenza del Consiglio del momento e – in ultima analisi – a spiegare perché rispetto ad altri Paesi l’Italia è stata uno dei bersagli preferiti dai russi.

Il caso Korshunov

Attraverso il caso di Alexander Korshunov tocchiamo con mano fino a che punto la politica di Palazzo Chigi sia stata vicina alla politica del Cremlino nel periodo dei due governi di Giuseppe Conte.

All’arresto del colonnello dell’FSB e alla richiesta di estradizione presentata da Washington, Mosca risponde colpo su colpo, dapprima con un commento di Vladimir Putin in persona, che durante il forum economico di Vladivostok, davanti a una platea di capi di Stato e ministri stranieri che quasi non credono alle proprie orecchie.

Putin chiarisce che la Russia rivuole Korshunov indietro; e subito dopo con una richiesta di estradizione speculare e contraria a quella americana presentata a Roma dal Tribunale Basmanny, la corte che ha appoggiato ogni politica del Cremlino, dalla sentenza sull’avvelenamento di Alexei Navalny («mai avvenuto») a quella sulle Pussy Riots («organizzazione terroristica»), diventata in Russia il sinonimo di giustizia truccata.

Il Tribunale Basmanny chiede all’Italia di estradare il trafficante di tecnologie militari Korshunov in Russia perché – nella realtà deformata dei giudici soggiogati al Cremlino – il tenente colonnello non è mai stato un agente dell’FSB, ma solo un volgare truffatore che ha sottratto l’equivalente di circa 150mila euro alle casse di un’azienda di Stato.

Di fronte a due richieste confliggenti e in assenza di un procedimento aperto in Italia, la decisione finale su un’estradizione spetta al Ministero della Giustizia: che cosa avranno potuto decidere il ministro Cinque Stelle Alfonso Bonafede e il capo del governo Giuseppe Conte?

Lo rivela uno striminzito decreto ministeriale lungo cinque pagine emesso da Bonafede nel disinteresse generale del luglio del 2020, mentre gli occhi di tutta Italia erano rivolti alla riapertura del Paese dopo mesi di lockdown: per Bonafede e Conte il reato ipotizzato da una corte priva di credibilità come il Tribunale Basmanny – 150mila euro sottratti a un’azienda di Stato – è più grave del reato ipotizzato dal Southern District dell’Ohio – furto di tecnologie a doppio uso civile e militare – e pertanto Alexander Korshunov deve essere giudicato da un tribunale russo.

Alla fine del luglio 2020 Korshunov viene restituito alla Russia.

Da allora il tenente colonnello Alexander Korshunov non è mai comparso davanti a nessun tribunale della Federazione Russa e oggi è un cittadino incensurato, condizione che rende il Movimento Cinque Stelle l’unica forza politica pacifista del mondo ad aver liberato un trafficante di armi.

Qual è il capitale politico conquistato da Conte e dal Movimento Cinque Stelle con questa decisione?

I piani di Marc L.

Ma è analizzando il caso di «Marc L.» che, se possibile, emergono domande ancora più sottili e disturbanti: l’ufficiale francese che secondo le accuse avrebbe ceduto segreti militari della base Nato di Napoli alla Russia era un allievo dell’accademia di Saint-Cyr Coëtquidan, una delle punte di diamante della formazione militare francese.

«Marc L.» avrebbe agito per fede politica, affascinato dall’ideologia putiniana, ma non era da solo; secondo diversi ex docenti dell’accademia, infatti, all’interno di Saint-Cyr sarebbe attiva da decenni «una congrega di ultradestra, identitaria e filorussa» capace di conquistare «l’egemonia culturale» della scuola militare e formare generazioni di ufficiali francesi secondo la visione di Mosca.

Ufficiali come il generale Eric Kunzelmann, ex attaché militare all’Ambasciata francese in Russia talmente filorusso da suscitare le ire del ministero della Difesa di Parigi, che lo ha rimosso da qualsiasi incarico di responsabilità.

Ma anche accademici come il professor Thomas Flichy de la Neuville, che il giorno dopo l’aggressione di Mosca contro Kiev accorreva in TV a raccontare che «l’Ucraina non è un vero Paese» e che «la guerra è colpa della Nato».

Un generale ex attaché militare a Mosca. Un professore con un certo gusto teatrale per le comparsate in TV. Verrebbe da chiedersi se anche in Italia esista da qualche parte una versione nostrana di Saint-Cyr, un vivaio dove si è insediata «una congrega di ultradestra, identitaria e filorussa».

Tutti questi interrogativi potrebbero rendere un po’ più adulte la nostra stampa e la nostra opinione pubblica e ispirare una riflessione più ampia sulle questioni di sicurezza nazionale, ma sembrano destinati a rimanere seppelliti sotto le incessanti contrapposizioni bianco/nero dei talk-show e dei social media, allergiche per natura a tutte le sfumature necessarie a immergersi in vicende complesse come le mosse dell’intelligence di Mosca in Italia.

Almeno fino alle prossime elezioni europee. Quando, forse, la destinazione dei quattro milioni di euro prelevati in contanti dall’Ambasciata russa potrebbe diventare un po’ più palese.

  • Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 30 dicembre 2023

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