Per un nuovo Statuto della sinistra

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PD

In questi giorni il Partito Democratico si è riunito in “Assemblea Costituente” per varare un “Manifesto per il Nuovo PD – Italia 2030” (qui).

L’Assemblea ha riportato così in carreggiata il percorso intrapreso a dicembre da un gruppo di “saggi” che – fuori da ogni regola statutaria, invero – aveva iniziato a riscrivere la “Carta dei Valori” del Partito Democratico, in vista del Congresso. Congresso il cui iter si concluderà il prossimo 26 febbraio, col ballottaggio finale aperto (tipo “primarie”) per eleggere un segretario.

Pare di capire che il nuovo “Manifesto” non abroghi la “Carta dei Valori” del 2007, quella “nativa” del PD, ma semplicemente la affianchi. Nel frattempo, l’Assemblea invita «circoli e aderenti a una mobilitazione nazionale finalizzata a diffonderne e discuterne i contenuti», tenendo aperta la “fase costituente”, mentre i Circoli stessi sono a giorni chiamati a votare i candidati segretari.

La confusione concettuale e procedurale, almeno per i profani, è tanta. E difficilmente questa complessità di percorsi sovrapposti risveglia autentico interesse per la fase “rifondativa” di un partito che – si evince dal titolo stesso del Manifesto – dovrà essere un “Nuovo PD”.

Partito nuovo o nuovo partito?

Così, pur nella complessità della fase in corso, sembra potersi accendere almeno qualche timida discussione sul futuro del PD: in specie, se debba essere mantenuto – non senza qualche “riforma” – o radicalmente rifondato.

Dibattito che, inevitabilmente, reca con sé quello più generale su assetto e futuro della sinistra italiana: dove si avvertono le posizioni più differenziate, da chi vorrebbe tacitamente andare oltre il PD (magari per trovare una nuova sintesi col Movimento contiano) a chi invece lo ritiene una forza popolare ancora imprescindibile, a partire dalla quale – pur oggi ridimensionata nei consensi – tentare rilancio e ricostruzione della sinistra.

Da qui un percorso precongressuale che, non nascondiamo, è apparso spesso più tattico, nominalistico e verticistico che di contenuti, malgrado una serie di pregevoli contributi ideali siano venuti – specie dalle colonne di alcuni giornali – da vari esponenti della intelligencija della sinistra italiana.

Un Partito che cambierà dal suo vertice?

“Partito del lavoro”, “oltre il blairismo”, oppure “il PD non cambi nome né si sciolga”: sono solo alcuni degli slogan sintetici che si sono sentiti girare. Ma l’impressione è che il percorso di “ridefinizione” del PD passerà dal suo vertice. In altri termini: in base a chi vincerà, tra Bonaccini e Schlein, sarà ridisegnata l’identità e la strategia politica del Partito, per via – diciamo così – leaderistica e non costituente. Confermandoci che ormai, Statuto o non Statuto, Manifesto o non Manifesto, sono i leader a fare il partito, assai più di quanto non sia vero l’inverso.

E, mentre Bonaccini viene identificato più col progetto originario del PD “inclusivo” di tante diverse culture e aree sociali, la Schlein – magari semplificando – viene più vista come portatrice di un progetto di “sinistra-sinistra”, volto a recuperare i consensi “antichi” delle fasce popolari, seppure in modo innovativo nei valori e nei programmi.

Ma, considerato che un organico “programma” sui siti dei candidati ancora non c’è, in attesa di prossime convention contenutistiche, è assai difficile pronunciarsi sui loro progetti, se non appoggiandosi a interviste, social e apparizioni TV. E, tra una settimana, nei Circoli PD, si inizia a votare…

Sperando che un dibattito più profondo e strategico possa innescarsi, può allora essere utile fermarsi per una prima riflessione su quale potrebbe essere lo Statuto ideale della sinistra, oggi, in Italia e nel mondo. Per capire un po’ meglio le strade da percorrere anche per il Partito Democratico, in un Congresso meno autoreferenziale o nominalistico possibile.

Per ora, lo facciamo con qualche considerazione di principio, ma riservandoci magari una riflessione più dettagliata in qualche prossimo articolo.

Cos’è la destra, cos’è la sinistra

«Il bagno nella vasca è di destra, far la doccia invece è di sinistra», cantava provocatoriamente Giorgio Gaber nel 1994, non a caso agli albori della breve stagione bipolarista italiana. Intuendo che, posta così in modo seccamente alternativo, l’identità di sinistra (come quella di destra) si avvicinava sempre più ad uno stato d’animo, uno stile di vita, un’autodichiarazione di appartenenza…, piuttosto che ad una organica e programmatica visione del mondo e della società.

Certo, ancora sussiste qualche traccia di ideologia, ma sempre più vuota di contenuto e sovrapposta a dosi massicce di tattica politica: oggi, nessuno a destra negherebbe più di voler tutelare le classi popolari (che peraltro votano largamente FdI e Lega), mentre per contro, a sinistra, è forte il riferimento a classi medie e benestanti (ad esempio, il mondo della cultura, dell’università, della scuola, della PA ecc.).

A destra, sappiamo, prevalgono in Italia i riferimenti stringenti nei comportamenti etici privati (ma c’è anche una destra molto libertaria…), mentre la sinistra appare radicalmente per le libertà civili individuali (pur con componenti, come quella cattolica, problematiche su questi temi).

Insomma, tirare chiari confini ideali tra destra e sinistra, specie nelle “tonalità” populiste della politica odierna, è sempre più difficile (come mostra anche la mobilità dell’elettorato).

«L’ideologia, l’ideologia, malgrado tutto credo ancora che ci sia; è il continuare ad affermare un pensiero e il suo perché, con la scusa di un contrasto che non c’è», continuava ancora Gaber, insinuando che la distinzione tra destra e sinistra si faceva già negli anni ’90 ormai più simbolica e di schieramento che di reali alternative di pensiero e di visione sociale.

Norberto Bobbio e l’uguaglianza

Proprio in quegli stessi anni, non a caso, divenne un best-seller italiano e mondiale il breve libro di Norberto Bobbio su Destra e Sinistra, che esplorava «ragioni e significati di una distinzione politica». Individuandoli essenzialmente nel tema dell’uguaglianza: la sinistra, diceva Bobbio, pensa che le diseguaglianze debbano essere combattute e ridotte; mentre la destra pensa che le diseguaglianze siano in qualche modo naturali, ineliminabili, forse persino da riconoscere come il risultato del lavoro e del talento di ciascuno (e non a caso oggi il Ministero dell’Istruzione si chiama anche “del Merito”).

Qui stava e doveva stare, per Bobbio, la differenza tra proposta politica di destra e di sinistra: sulla lotta all’iniquità sociale.

Il PCI non c’era più da pochi mesi, la cortina di ferro era caduta: in Italia – ma anche nel mondo – si sentiva il bisogno di trovare lo statuto nuovo di una sinistra non marxista, non più invischiata con la fallacia epocale dei regimi storici comunisti.

La chiave egualitaria bobbiana dimostrò subito di essere un ottimo punto di riferimento teorico per le sinistre, in una società globalizzata che a livello mondiale – così come nazionale – non cessava di produrre più ricchezza, e insieme più povertà e sottosviluppo. Aiutò certamente cattolici ed ex comunisti a trovarsi su un terreno comune, e favorì la nascita dell’Ulivo.

Ma dalla teoria alla pratica (potremmo dire, al consenso popolare) il passo è lungo.

Schierata valorialmente contro le diseguaglianze, quasi mai la nuova sinistra della II Repubblica – anche nelle sue complesse esperienze di governo – è davvero riuscita a ridurre le distanze tra ricchi e poveri, o almeno a farsi percepire efficace in questo. Anzi.

Negli ultimi anni è parsa lasciarsi superare da ricette semplificatorie, di tipo populista/assistenzialista, mentre il tentativo di un programma sociale più vero e complesso (legato al lavoro, al riscatto, alla dignità, più che alla cittadinanza in sé) rendeva la sinistra di fatto meno efficace e percepibile nelle sue proposte. Finendo persino per essere avvertita – nei linguaggi, quanto meno – come una forza per classi medie o ricche.

In più, la sinistra italiana (non solo quella, in verità) si è pure divisa sulle ricette per ridurre le disuguaglianze, finendo così per vanificare del tutto la chiave di riconoscibilità politico-sociale proposta da Bobbio.

Due ricette contro le diseguaglianze, due sinistre

In effetti, la chiave egualitaria era chiara e potente per l’identità di sinistra, ma anche variamente interpretabile: le diseguaglianze, infatti, si possono combattere in tanti modi.

Accentuando lo sviluppo di beni e servizi collettivi, oppure sostenendo lo sviluppo economico privato, guidato a redistribuire la ricchezza attraverso salari e fiscalità. Enfatizzando l’intervento pubblico, oppure pensando varie forme di welfare anche privato e generativo…

Così, a cavallo del millennio, le identità della sinistra si sono indubbiamente sgranate lungo queste diverse declinazioni di “metodo”, riconoscendosi meno reciprocamente nella comune lotta alle diseguaglianze e dividendosi piuttosto (anche duramente) sulle ricette per ridurle.

Chi ha sostenuto che per farlo serviva lo sviluppo economico – per quanto governato e sostenibile – è finito nelle correnti più “blairiane” – in Italia, forse, renziane –, che cercavano anche di comprendere le esigenze del fare impresa, venendo spesso accusate di essere succubi del pensiero liberista e perciò “cripto-destra”.

Chi, invece, ha pensato che servisse più controllo statale su lavoro e imprese, più welfare pubblico, più tassazione, si è spesso sentito accusare di visioni antiche e non sostenibili, specie nella stagione dei mercati globali e dei vincoli di bilancio nazionale, a cavallo del 2010.

Proprio questa distinzione – per quanto qui tracciata con l’accetta – ha duramente diviso internamente il Partito Democratico dal 2014 in avanti (assai più che quella, spesso troppo mitizzata, tra ex comunisti ed ex democristiani…). Ed è in fondo ancora lì, sul piatto, intonsa, irrisolta, pronta a riprodurre il suo deflagrante semplicismo anche nel prossimo Congresso, col rischio che un candidato si veda incollata polemicamente l’etichetta della “cripto-destra” e una candidata, per contro, quella della “sinistra radicale”, brava a parlare di massimi sistemi, ma assai poco realistica.

Dico “rischio” perché, se il Congresso fosse “tirato” in questi termini dicotomici e ideologici, ben difficilmente il militante che lo perderà potrà trovarsi ancora a suo agio nel PD, dove due visioni politiche così diverse faticano ormai evidentemente a convivere, come invece si riusciva a fare in origine, nel 2007-2014.

Una idea complessa di sinistra, in una società complessa

Se si vuole rifondare una sinistra non parcellizzata in mille rivoli –una vecchia tradizione italiana che porta sempre alla sconfitta –, occorre quindi complessificare analisi e pensiero, non dicotomizzare. Cioè: il problema che PD e sinistre varie hanno davanti è ben più complesso dell’antinomia “liberismo o statalismo”, contrapponendo banalmente sviluppo e redistribuzione, impresa e lavoratori…

Occorre prendere atto a fondo della crisi mondiale delle sinistre occidentali, della loro difficoltà a interpretare il nuovo millennio, dell’esigenza di maturare un giudizio netto sui populismi e sui fenomeni di massificazione digitale dell’opinione pubblica, che non esistevano trent’anni fa e men che meno ai tempi di Marx o di Gramsci. Tutti temi che non si possono risolvere invocando radici e nostalgie – peraltro sempre divisive – ma solo puntando gli occhi sui tempi che viviamo e vivremo, per disegnare al loro interno un nuovo statuto e una nuova mission dell’essere sinistra.

Non che manchino questi temi-chiave nell’agenda congressuale: anche leggendo il Manifesto del Nuovo PD i temi ambientali, migratori, del lavoro e dei diritti che cambiano nella rivoluzione digitale sono – ovviamente – ben presenti. Ma il punto è che fare elenchi di problemi (“programmi”) non basta più.

Occorre riportarli ad una visione unitaria di società. Ad una proposta leggibile per gli elettori, chiara per i giovani, seria sui problemi-chiave del Paese. Dove ci siano i “no”, ma soprattutto siano chiari i “sì”, cioè un’idea di società verso cui andare insieme.

Facciamo un esempio soltanto per capirci: il clima. Può l’emergenza ambientale risolversi a sinistra solo in un tema di “limiti” (le zone 30, per fare un esempio banale e recente, o il controllo delle emissioni, o un modello più restrittivo di gestione dei rifiuti urbani), senza entrare davvero in un dibattito (cattolico e berlingueriano insieme, tra l’altro) su una nuova sobrietà, sugli stili di vita e di consumo? Non serve soprattutto proporre in positivo l’enorme “opportunità” che la sfida climatica ci pone e ci impone, per costruire un mondo più equo nell’uso delle risorse globali e nello sviluppo del “Terzo Mondo”?

Ecco, una nuova sinistra – se vuole avere futuro – che sia PD o che sia altro, non può non basarsi su una visione sociale di questo tipo, propositiva e non solo negativa, e su questo sfidare la destra.

Ma proprio qui si rivelano i veri problemi profondi, storico-strutturali, della sinistra italiana ed europea.

La sinistra o è utopica, internazionale e coerente, o non è

Una sinistra che possa – in Italia e in tutto l’Occidente – riprendere ad essere un motore politico vitale, alternativo ai populismi e alle destre, ha per forza oggi tre caratteristiche: utopia, mondialità e credibilità.

In altri termini:

  1. Deve saper indicare un mondo che ancora non c’è, più giusto e perciò più sostenibile.
  2. Deve per forza farlo rafforzando reti e istituzioni mondiali (perché clima, risorse, migrazioni e ingiustizie sono a scala globale).
  3. Infine, deve farlo con leaders personalmente credibili, perché a sinistra c’è da sempre un senso di plus etico che non perdona chi predica bene e razzola male. (Farsi trovare con un sacco di banconote in casa, per un politico di destra, è la fine della sua carriera personale, forse. Per uno di sinistra, è la fine certa della credibilità di tutto il suo movimento).

L’impressione – anche nel PD – è che la sinistra sia stata ingolfata dalle dinamiche quotidiane della “solita” politica: dichiarazioni, tweet, scontri, rivalità personali e di gruppi, fondazioni e finanziamenti… Dimenticando che, senza idealità alta, senza progetto sociale – e quindi oggi anche senza progetto europeo e mondiale –, la sinistra semplicemente non esiste, soffoca, si estingue.

l problema di avere idee serie ma semplici

Queste difficoltà strutturali delle sinistre, probabilmente, derivano non solo da un problema nella selezione della classe dirigente (spesso più basata sulla fedeltà che sulla qualità), e quindi da qualche povertà di idee o di prospettive. Più sotto, più a fondo, c’è la sfida irrisolta della semplificazione, posta alla politica dall’era social e digitale.

Nel tentativo di parlare i linguaggi nuovi della semplicità e della velocità – come inevitabilmente occorre fare – la sinistra paga un dazio superiore a quello della destra, perché semplificazione e idealità, velocità e utopia, stanno a fatica insieme. In questo, le destre sono spesso più agili, perché più pragmatiche e meno gravate di idealità rigide, di modelli di partito strutturato, di (vere o presunte) superiorità morali… O, comunque la si voglia mettere, dimostrandosi alla prova dei fatti più adattive e adattabili ai nuovi tempi e linguaggi.

Ecco allora il problema epocale per la nuova sinistra, PD o non PD: in tempi di semplificazione di linguaggio, di rapidità estrema, analisi e ricette complesse sono le uniche serie in politica, le uniche degne del nome di “sinistra”. Ma sono anche le meno comprensibili, specie nelle classi culturalmente meno preparate (motivo per cui la sinistra prevale ovunque nel mondo tra chi ha titoli di studio più alti e nei centri urbani).

Il congresso che ci vorrebbe…

Occorrerebbe allora un dibattito culturale (e congressuale) che metta finalmente i piedi nel piatto di queste epocali sfide irrisolte per le sinistre.

Che vada ben oltre i problemi di alleanze a breve, di regolette congressuali e di guerre per bande.

Che a partire da una ormai irrinunciabile proposta di leadership credibile e coerente, provi però – una volta per tutte – a far capire ai cittadini che ha messo a fuoco le tre cose imprescindibili: una idea di società; una visione sovranazionale; un rigore attuativo e coerente delle sue classi dirigenti.

Tutto questo, nel vincolo della semplicità e della chiarezza di linguaggio.

Una sfida altissima. Ma nel Congresso del PD – se non si vuole morire – non ci può essere meno di questo. Oggettivamente, fin qui, la sproporzione tra altezza del compito e realtà del quotidiano congressuale è apparsa sconfortante.

Ma non si può escludere che la giusta reazione arrivi, ed è doveroso cercarla ancora per chi “si sente di sinistra”, mentre si incomincia a votare il nuovo segretario: magari accompagnandola – come cercheremo di fare ancora – con qualche ulteriore riflessione sui programmi dei candidati, appena saranno ufficializzati.

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2 Commenti

  1. Nino Remigio 25 gennaio 2023
  2. Tobia 24 gennaio 2023

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