Simone Weil: una memoria

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Nel fare memoria di Simone Weil sento molte emozioni, anche contradditorie, che, necessariamente, coloreranno le mie balbettanti annotazioni critiche. Infatti, riprendendo la lettura di tre libri che riposano qui in casa dal lontano 1988[1], integrati da una nuova lettura, La persona e il sacro, sono obbligato a sentire la stessa incertezza e quasi il timore che provavo, da giovane, leggendo Søren Kierkegaard, ma, nello stesso tempo, sorpreso e affascinato, contemplo di nuovo ciò che Simone riesce spietatamente a fare e pensare.

Non si può non essere d’accordo con Albert Camus, che pubblicò vari scritti della Weil presso Gallimard e la definì “l’unico grande spirito del nostro tempo”. Farne memoria è allora per me un presuntuoso invito a chi ancora si interroga sul senso della vita a leggere e rileggere Simone Weil, perché le sue parole sono come lampi che illuminano per un istante la notte del mondo in cui viviamo e sono pensieri che possono trasformarsi in attrezzi indispensabili per affrontare i pericoli dell’attualità.

L’uso della parola

Simone usa la parola come un bisturi di una vivisezione introspettiva, per nulla decorrente da fragilità depressive, ma, al contrario tesa a farsi vuoto in attesa della verità, della giustizia e dell’amore vero e, soprattutto, mai condizionata da soggettivismi e intimismi che la distolgano dall’attenzione alla situazione di chi soffre e alle drammatiche congiunture sociopolitiche del suo tempo.

Weil mantiene nelle diverse stagioni  della sua breve vita una coerenza radicale e sempre guadagna come conseguenza il ritrovarsi fuori dagli schemi e dalle convenzioni sociali, politiche e religiose, sempre impietosamente smascherate.

Non è assolutamente ipotizzabile dividere, né distinguere, in due momenti la biografia della Weil: il periodo militante, che è esplicito nelle Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale e il periodo mistico, dopo l’incontro con Gesù di Nazareth, che appare con chiarezza in numerosi altri scritti. Infatti, mi sembra di vedere un’estrema coerenza tra la battaglia per la destituzione e morte dell´”io”, unica condizione perché possa – come dono e non come conquista ascetica – rivelarsi il divino e la battaglia, altrettanto dura, antiautoritaria e antitotalitaria, per non accettare l’identificazione con qualsiasi gregge, tradizionale o moderno.

Oltre l’identificazione

Non si identificò con le sue origini ebraiche e fu greca per opzione filosofica, al punto di essere ritenuta antisemita. Nonostante frequentasse gli ambienti comunisti, sindacalisti e rivoluzionari, non si identificò con nessun partito e, fin dall’inizio, fu critica dello statalismo sovietico.

Nonostante la sua conversione a Gesù, non volle identificarsi con la Chiesa cattolica, considerata il peccato originale e l’ispirazione di tutti i totalitarismi. Non poteva accettare che l’universalità, la cattolicità, fosse resa vana dagli anathema sit. Anarchica, fu in Catalogna a combattere con Durruti, ma dopo un incidente nelle cucine, ritornò a casa, con sentimenti non violenti, sorti dopo avere constatato anche la violenza dei repubblicani, affermando: «Non sentivo piú nessuna necessità interiore di partecipare a una guerra, che non era più, come mi era sembrata all’inizio, una guerra di contadini affamati contro i proprietari terrieri e un clero complice dei proprietari, ma una guerra tra la Russia, la Germania e l’Italia».[2]

Nasce a Parigi nel 1909 e muore a Londra, a 34 anni, nel 1943: una breve vita in cui fu filosofa, teologa, insegnante, operaia, anarchica rivoluzionaria, matematica, mistica.

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Un aspetto delle sue ispirazioni filosofiche mi lascia perplesso e disorientato, fino ad oggi: non riesco a capire come possa rifarsi a Platone, alla tragedia e al pensiero greco, come possa riuscire a conciliare la sua radicalità mistica con il fascino – seppur sempre sulla soglia – esercitato dalla Chiesa cattolica, in cui è secolarmente egemonica una teologia frutto di un originario sincretismo tra l’essere greco e indoeuropeo e l’Adonai biblico e semitico.

Il Dio che ascolta il grido di un popolo reso schiavo e che scende per liberarlo è sottomesso e sostituito dall’essere parmenideo e platonico. Mi pare, infatti, che, in contraddizione con il dichiarato platonismo, la sua spiritualità si fondi nel dualismo teologico e monismo antropologico tipicamente giudaici e non nel monismo teologico e dualismo antropologico tipicamente greci.

Non mi sembra che le riflessioni spirituali della Weil siano riconducibili al monismo dell’Advaita, i cui l’Atman, l’anima della stessa sostanza del Brahman, tende asceticamente all’unione, oltre i dualismi, oltre i limiti del desiderio, della materia, della corporeità. Per i semiti, al contrario, esiste una diastasi radicale tra Adonai e l’essere umano, che, a differenza degli indoeuropei, induisti e greci, non è un congiunto binario di anima e corpo, ma un essere unico, indivisibile.

C’è poi da sottolineare l’aspetto che senza dubbio rivela quanto Simone è inevitabilmente giudea e cristiana: il divino che la seduce non è l’essere greco, né il Brahman dell’Advaita, ma la presenza del Figlio dell’Uomo, Gesù di Nazareth, in cui pare che per lei si confondano l’evento cabalistico del tzimtzum e quello cristiano della kenosis, il rivelarsi di Dio sub contrario, come diceva Lutero. Insomma, una teologia della Croce in radicale alternativa a una teologia della Gloria: Dio si rivela nell’estrema debolezza, nella sofferenza, nella povertà e nella mediocrità, nell’umiliazione della croce di Gesù di Nazareth.

Radicalità

Questo la pone in una salutare opposizione all’antiplatonico Nietzsche, anche lui, però, seguace della tragedia e della grecità, profeta dell’oltre-uomo, libero dalla schiavitù delle metafisiche dei deboli e dei risentiti, che condanna nell’Anticristo, con metafore – che, però, continuo ad interpretare letteralmente -, Gesù e il cristianesimo come religione dei chandala, degli schiavi, degli sconfitti.

In Portogallo, nel 1935, assistette a una processione delle mogli dei pescatori, in onore al santo patrono e il fado dei poveri la commosse profondamente: «Le mogli dei pescatori (…) innalzavano canti sicuramente molto antichi, di una tristezza straziante. Non vi è nulla che possa darne un’idea. (…) Là ho avuto all’improvviso la certezza che il cristianesimo è per eccellenza la religione degli schiavi, che gli schiavi non possono non aderirvi, e io con loro».[3]

La sua radicalità etica e politica la conduce a distanziarsi dalla mera comprensione critica delle strutture di dominazione e oppressione, tipica degli intellettuali – e tipica, ovviamente, anche della sua origine di classe – e a coinvolgersi esistenzialmente con i poveri, con gli affamati e gli sventurati, in varie esperienze di un processo di discesa kenótica nei luoghi piú poveri con i poveri.

Tradusse nella sua vita l’imperativo “come loro”, che segna indelebilmente la vita di testimoni, a lei sconosciuti, come Charles de Foucauld, René Voillaume, le Piccole Sorelle e i Piccoli Fratelli. Ma il “come loro” di Simone è di una superiore pazza intensità, che ci ricorda Francesco di Assisi, quello germinale, prima delle riduzioni canoniche dell’istituzione e dei rammendi traditori del movimento francescano, trasformato nell’Ordine dei Mendicanti.

A questo proposito mi pare interessante immaginare un’affinità elettiva di Simone con Francesco: Francesco tenta una rivoluzione contro il diritto romano e contro il diritto canonico e Simone è una nemica radicale del diritto. Al posto del diritto: il Vangelo sine glossa. Al posto del diritto la giustizia.

Giorgio Agamben si riconosce debitore della Weil, quando ricorda che la sua tesi di laurea in giurisprudenza, nel 1965, verteva sul suo pensiero politico. Agamben confessa l’influenza del libro La persona e il sacro e dirà poi, in un’intervista del 2016: «la critica del diritto, che non ho mai abbandonato a partire dal primo volume di Homo sacer, ha nel saggio della Weil la sua prima radice».[iv]  Nel 2011, Agamben pubblica Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita[5], in cui riconosce in Francesco il rivoluzionario che si oppone evangelicamente al diritto, alla legge, alla regola: incontro, senza dubbio, propiziato dalla mediazione di Simone.

Weil vs Marx

Se con Nietzsche l’opposizione fu prettamente esistenziale, con Marx e i marxismi, invece, il litigio critico sarà esplicito. Non si tratta solamente del suo incontro, nel 1932, con l’esule Trotskij, ospite nella sua casa, a Parigi, in cui accusa Lenin e lo stesso Trotskij quali carnefici di uno stato autoritario e oppressivo che rivela il suo vero volto nella spietata repressione fatta dall’Armata Rossa alla Macnovicina e ai marinai di Kronstadt.

Simone studiò davvero Il Capitale e la sua critica di Marx e dei marxismi appare originale e forse unica: la classe dominante riceve la missione storica di accelerare senza soluzione di continuità le forze produttive, ma in questo processo sopraggiunge il momento in cui le strutture di potere non riescono più a favorire e accompagnare lo sviluppo. Allora è la rivoluzione e il “soggetto” rivoluzionario sono le forze produttive, che propiziano il sorgere di una nuova classe egemone. Non c’è quindi assolutamente la  condanna etica e politica del sistema capitalista e dei suoi orrori, ma semplicemente la constatazione che quando la borghesia non è piú funzionale allo sviluppo delle forze produttive deve essere sostituita dalla classe che saprà far funzionare il sistema.

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Questo incessante rinnovarsi delle forze produttive non è che un mito, un assioma inconsistente e impermeabile a una lettura scientifica. Mito come il realizzarsi hegeliano dello spirito nella dialettica della storia. Mito che non sfugge all’illusione hegeliana e sostituisce le astuzie dello spirito con la materialistica misteriosa provvidenza delle forze produttive. Tutto ciò si trasformò inevitabilmente nella tragedia dell’oppressione totalitaria dei bolscevichi. Mito, perché Marx non riesce a spiegare la sua fede ingenua nello sviluppo ininterrotto e virtuoso delle forze produttive. E sono queste, per Marx, e non i diseredati e gli oppressi, l’unico vero motore della storia.

Inoltre, per Simone fu evidente il fracasso della Rivoluzione russa e della stessa idea di rivoluzione quando il potere del capitale sul lavoro – che si realizza pienamente nella grande industria con le sue macchine – è incorporato acriticamente nel sistema socialista.

È nella fabbrica che sistemicamente si struttura la disuguaglianza tra specialisti e lavoratori manuali, che si riproduce poi nel rapporto diseguale e oppressivo tra gli intellettuali del partito e le masse popolari; e nella riproduzione, senza soluzione di continuità degli apparati giuridici, burocratici, militari e polizieschi dello stato zarista. Si rivela con chiarezza, ancora una volta la differenza tra chi scientificamente crea, decide e comanda e chi ha accesso solo ai risultati, senza capire nulla del metodo, relegato al ruolo di chi tutto fideisticamente accetta.[6]

In questa lettura critica, Simone fu estremamente attenta a non buttare via il bambino con l’acqua sporca, perché «la grande idea di Marx è che nella società, come nella natura, tutto si svolge mediante trasformazioni materiali».[7] Non ha assolutamente senso sognare e desiderare il futuro, perché tutto dipende dalle condizioni materiali, che devono essere conosciute e analizzate per poter creare possibilità umane di vita sociale e politica. Ma, alla fine, dovette constatare che il metodo materialista, l’unica idea preziosa di Marx, è sempre stato dimenticato dai marxisti e che «non bisogna allora stupirsi che i movimenti sociali nati dal marxismo siano tutti falliti».

E sono fallite tutte le rivoluzioni cominciando dalla Rivoluzione Francese, che, vittoriosa contro l’oppressione, inaugura nuova oppressione. Sembra impossibile emanciparsi da questo imbroglio, che, sostanzialmente, è determinato dall’esistenza dello stato. Chi vuole resistere sembra condannato a due uniche possibilità: o la capitolazione o l’avventura; o il riformismo, piú o meno cinico, di chi realisticamente non vede cammini di vittoria definitiva contro l’oppressione o il sogno avventuriero di chi opta per un’opposizione radicale al sistema. Weil insiste che Marx, con il suo metodo dimenticato, ha trovato il modo di superare questa falsa alternativa che era egemonica negli anni Trenta e che continua paradigmatica nelle sinistre del nostro tempo.

Resistenze

Alla fine della sua analisi radicalmente realista dell’oppressione come costitutivo paradigma della politica, difenderà, via metodo materialista, la tesi che gli oppressi  possano esercitare la volontà di non arrendersi e di approfittare di ogni breccia dimenticata dall’onnipresente potere per lottare e non rinunciare alla libertà e alla possibilità di costruire cammini di umanità, eliminando la grande industria, il capitale finanziario, la divisione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, la diastasi tra scienza e lavoro, sostituendo lo stato centralizzatore, con il suo apparato burocratico e militare, con lo stato come potere obbediente.

Simone, però, non dimentica che «è solo nell’uomo preso come individuo che si trovano la chiaroveggenza e la buona volontà, uniche fonti dell’azione efficace. Ma gli individui possono associare i loro sforzi senza rinunciare alla loro indipendenza». E, preoccupata, con il contributo caratteriale dei chi lotta, ci ricorda «la vanità delle etichette politiche. Ci si può lanciare nel movimento rivoluzionario con uno spirito da capo desideroso di manipolare le masse e di avere un ruolo eminente sulla scena della storia, oppure da soldato fanatico; e si trovano nei ranghi dei conservatori uomini di buona volontà naturalmente disposti a far concorrere le forze di cui dispongono per il maggior bene di tutti. È per il carattere che gli uomini sono fratelli o estranei tra di loro».[8]

L’antropologia che Simone propone va oltre la persona, oltre la maschera, oltre il teatro sociopolitico, oltre l’amministrazione del mondo fatta dai partiti politici, oltre la democrazia, oltre il diritto, oltre lo Stato. La critica del concetto di persona la pone ancora una volta ai margini della teologia cristiana, che fonda fin dal IV secolo l’interpretazione della Trinità utilizzando il termine “persona”, πρόσωπον, prosopon.

Sceglie istintivamente il monismo antropologico giudaico ed eminentemente biblico, che opta per una visione unitaria dell’essere umano, lontana dal dualismo greco – oggi ancora egemonico – che lo divide in anima e corpo. Infatti, l’anima per la Bibbia è  nefesh, parola legata alla respirazione e alla vita concreta che con l’aria passa per la gola, le corde vocali, le vie aree, fino ai polmoni. In Gn 2,7 troviamo la fonte della vita come respiro: allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente.

Tutto quello che respira vive e Simone è indignata perché attraverso questa gola sembra non passare il grido di chi soffre privazione, umiliazione e ingiustizia. Oppure siamo noi che rimaniamo sordi a queste grida, che non hanno parole. E senz’altro viviamo in un sistema che è vaccinato per non udire questo grido, realtà costitutiva di ogni essere umano. Ogni essere umano è allora sacro per la sofferenza cristologica causata da altri esseri umani e non per essere persona, con peculiari e diversificate funzioni nel teatro sociopolitico.

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Il diritto

L’individuo non è sacro per ciò che egli è e rappresenta. Risulta sacro perché potenzialmente – e a volte di fatto – può aprirsi all’irruzione della Verità, della Giustizia, della Bellezza. Questo duplice approccio antropologico è la porta d’ingresso della critica radicale del diritto.

Paradigmatico è l’esempio che Simone usa per criticare radicalmente il diritto: «Quando si parla della sorte dei lavoratori, si sceglie in genere di parlare di salari. Dimentichiamo così che l’oggetto su cui si mercanteggia, di cui si lamentano di essere costretti a consegnarlo a basso costo, vedendosi negati il giusto prezzo, altro non è che la loro anima. Immaginiamo che il diavolo stia comprando l’anima di uno sventurato e che qualcuno, impietosito nei riguardi dello sventurato, intervenga nel contradditorio e dica al diavolo: “È vergognoso da parte sua offrire questo prezzo; l’oggetto vale almeno il doppio”. Questa è la funesta farsa che ha messo in scena il movimento operaio, con i suoi sindacati, i suoi partiti, i suoi intellettuali di sinistra».[ix]

La nozione di diritto era segnata da questo spirito di mercato fin dal 1789: il diritto si fonda sulla negoziazione, spartizione; il diritto funziona a partire da rivendicazioni quantitative, commerciali, che non discutono mai l’egemonia della collettività e dello Stato.  I Greci non avevano il concetto di diritto e si limitavano alla nozione di giustizia, principio questo che è anche supremamente evangelico, cristiano, anche se da sempre dimenticato dalle Chiese.

Sono infatti i Romani che inventano il diritto, concetto inseparabile da quello dell’impero, realtà pagana, non battezzabile in cui il diritto di proprietà, esteso alle cose e agli esseri umani, è il fulcro ispiratore di tutte le leggi. Solo la giustizia apre lo spazio all’agape, agli eccessi estremisti dell’amore. Costitutivamente, il diritto non ha alcun legame con l’etica e con la politica, ambiti fondamentali per la costruzione dell’umanità.

A modo di una impossibile conclusione, data l’ampiezza e la profondità del pensiero weiliano, la critica del diritto forse ci offre lo stimolo per ridiscutere la politica della difesa e la rivendicazione dei diritti umani, che continua egemonica e inoppugnabile sia tra le sinistre che nelle Chiese: un appello per verificare la sua pertinenza ed efficacia, sia come ispirazione della vocazione politica, sia come pratica di accompagnamento degli ultimi e fattore di trasformazione sociale.


[1] Weil Simone, L’ombra e la grazia, Rusconi, Milano 1985; Weil Simone, L’attesa di Dio, Rusconi, Milano, 1984; Weil Simone, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, Adelphi, Milano, 1983; Weil Simone, La persona e il sacro, Adelphi, Milano, 2012.

[2] Simone Weil, Sulla guerra. Scritti 1933-1943, Il Saggiatore, Milano, 2013, p.16.

[3] Weil Simone, L’attesa di Dio, p.41.

[4] Giorgio Agamben. “Credo nel legame tra filosofia e poesia. Ho sempre amato la verità e la parola” Antonio Gnoli, «la Repubblica», 15 maggio 2016.

[5] Agamben Giorgio, Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita, Neri Pozza, Vicenza, 2011.

[6] Weil Simone, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, pp. 14-37.

[7] Weil Simone, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, pp. 22-23.

[8] Weil Simone, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, pp. 136-137.

[9]Weil Simone, La persona e il sacro, Adelphi, Milano, 2012, p.27.

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