
Dalla missione del MEAN in Ucraina per il Giubileo della Speranza 1-5 ottobre 2025: pensieri (2)
L’altoparlante della metropolitana di Kyiv trasmette i messaggi solo in ucraino (del resto non c’è turismo a Kyiv di questi tempi, e da molto tempo), ma Gloria traduce con un sorriso: la stazione ferroviaria è chiusa per via di un drone che svolazza al di sopra.
La metropolitana di Kyiv ha spazi sotterranei immensi, scale mobili da vertigine e treni velocissimi che ti sfiorano a pochi centimetri dalla linea gialla (che qui è bianca) e ti fan perdere l’equilibrio con frenate brusche e accelerate rapinose. La luce è fredda, l’ambiente piuttosto cupo, ma è un ottimo bunker quando c’è allarme aereo: facile da raggiungere, molto capiente, provvisto di sedie e panchine anche nei corridoi di passaggio. Quando c’è allarme non si paga il biglietto d’ingresso e si può sostare o viaggiare in tranquillità: solo i mezzi di superficie interrompono il servizio. Nei sotterranei della metro ci sono anche locali ristorante e pub, allestiti là sotto dopo i primi bombardamenti, tutt’altro che squallidi, anzi, accoglienti e ben curati, con musica il sottofondo e qualcuno con installazioni d’arte alle pareti.

Anche nella metropolitana di Kyiv si incontrano sbandati, senzatetto e borseggiatori, naturalmente, come in tutte le metropoli, ma colpiscono in alcuni snodi gruppetti di giovani dallo sguardo spento, pallidi, coi capelli rasati cortissimi, dall’aria stanca, sdraiati o seduti spalle al muro, incuranti di chi passa, fra loro qualche mutilato.
Anche senza chiedere, si capisce che sono, o sono stati, soldati.
Non mi sento di fotografarli.
Congedati o meno, non si capisce, ma fanno una gran tristezza e contrastano in modo stridente con i manifesti dell’esercito appesi alle pareti, da cui lanciano sguardi fieri giovanotti robusti e senza paura che invitano all’arruolamento.
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Siamo 110 noi del MEAN (Movimento Europeo di Azione Nonviolenta) e diamo parecchio nell’occhio, anche se ci muoviamo a gruppi di una ventina ciascuno, perché siamo tanti e siamo evidentemente stranieri. Stiamo raggiungendo la stazione ferroviaria per prendere il treno che ci porterà a Kharkiv in circa quattro ore, a soli 30 km dal confine russo. Siamo stanchi, perché abbiamo passato la notte sui vagoni letto del treno Przemysl-Kyiv e abbiamo avuto una mattinata piena di incontri e di emozioni.
In piazza Maidan l’impatto con la distesa infinita delle bandierine ucraine – ciascuna un caduto – ci ha subito precipitati dentro un mondo che nessun servizio televisivo è in grado di ripresentare. Le bandierine sono tutte ucraine, ovviamente, ma il Nunzio Apostolico Visvalda Kulbokas, un gigante di origine lituana che ci è venuto incontro e ci ha accompagnato a piedi fino alla piazza, ci ha invitati, in perfetto italiano, a pregare allo stesso modo anche per i caduti russi.

Stare dalla parte degli ucraini e aver compassione contemporaneamente anche per i soldati russi, mentre ancora si sta combattendo, senza nemmeno la sedimentazione della memoria, prima ancora che evangelico amore al nemico è questione di civiltà. Sappiamo bene che responsabile della guerra è meno chi la combatte sul campo di chi la prepara, la decide, la fomenta, e che ogni giovane ucciso, da una parte o dall’altra della linea del fronte, è vittima di un crimine contro l’umanità intera.

Allora che si fa? A proposito della stazione, s’intende.
Guardiamo interrogativamente Gloria.
La stazione è chiusa, ma i treni funzionano.
Sic.
Basta andare ai binari direttamente dai sottopassaggi, senza salire in superficie.
Gloria però, che vive qui da sei anni, è prudente e ci fa imboccare il sottopassaggio senza vetrate, non si sa mai.
Così si difendono gli ucraini.
Mettono in atto ciò che ragionevolmente li può tutelare, e poi continuano a vivere, a resistere.
Non vanno nei rifugi tutte le volte che c’è allarme aereo, ma seguono i canali telegram giusti, vedono che cosa vola in cielo (sono diventati espertissimi, giocoforza), su quale area della regione o della città vola, e valutano di conseguenza il da farsi.
Gli atleti non hanno smesso di allenarsi: lo fanno negli spazi della metropolitana.

I bambini non possono andare ai giardinetti: imparano l’arrampicata sulle pareti attrezzate dei sotterranei. Certo che sarebbero meglio gli alberi, ma da come sono fieri di mostrarci quanto sono bravi si capisce che la forza resiliente dei bambini sta nella capacità di risignificare con la fantasia il mondo che hanno intorno.
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Attraversando Kharkiv in pullman ci colpisce uno strano oggetto in mezzo a un parco, di forma incerta tra il conico e il piramidale, di considerevoli dimensioni: scopriamo che hanno imbottito e foderato il monumento dedicato a Shevchenko (non l’omonimo calciatore, ma il più grande poeta ucraino del XIX secolo) per preservarlo da droni e schegge. Evidentemente, per un paese che è stato soggetto a una dura forma di colonizzazione e che se ne vuole in ogni modo liberare, difendere il proprio patrimonio culturale è di vitale importanza quanto difendere il territorio.
Non è per errore né per caso che l’Università Beketov di Kharkiv (una sorta di Politecnico) sia stata colpita ventiquattro volte, ma proprio l’intenzionalità del bersaglio ha indotto la città a non aspettare una ricostruzione post-bellica: dopo ogni missile partono i lavori di sistemazione, tanto che ne sono stati abbattuti due piani e ne sono stati ricostruiti tre, e questo anche se le lezioni si svolgono ancora in massima parte online.

Kharkiv è la seconda capitale dell’Ucraina. Occupata dall’esercito russo nella prima fase dell’invasione su larga scala, porta i segni dei combattimenti strada per strada con cui è stata riconquistata ed è tuttora soggetta ad attacchi aerei: molti edifici sono stati danneggiati, i vetri sono in gran parte crollati, ma dappertutto si vedono infissi nuovi già installati e assi di compensato a protezione degli edifici che richiedono interventi di ricostruzione più impegnativi. Alle otto di sera, quando ci arriviamo, la stazione ferroviaria è del tutto deserta, ma ha un’architettura ariosa ed elegante, è curata e pulitissima. I parchi e perfino le aiuole della città sono lindi e ordinati come salottini.
Insomma, non si vuole solo sopravvivere, ma vivere, non solo resistere, ma resistere con dignità.
E infatti c’è un livello più profondo di resistenza, quello di chi comincia a costruire la pace prima ancora che la guerra sia cessata, così come alla Beketov si sposta la gru dopo ogni attacco, senza aspettare la fine dei bombardamenti.
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Dei tanti incontri che il MEAN ha predisposto con i diversi attori della società civile ucraina, ci colpiscono quelli con l’Associazione anticorruzione, con l’Associazione per la giustizia riparativa e con l’Istituto per la pace e la comprensione, tutti guidati da donne e attivi da tempo. Un Paese in guerra che parla di giustizia riparativa, di pace e comprensione, anziché di ritorsione e vendetta, sta adottando una strategia di «pace preventiva».
Quanto all’anticorruzione, forse non ci rendiamo pienamente conto di che cosa sia il cancro della corruzione (e delle oligarchie) in un paese ex comunista. Ma se siamo tentati di pensare che queste associazioni rappresentino una minoranza illuminata, una nicchia di anime belle o di intellettuali ben intenzionati, siamo smentiti dalle manifestazioni di piazza che l’estate scorsa hanno contestato il governo centrale per un provvedimento con cui si indeboliva l’azione di contrasto alla corruzione, che per la popolazione rappresenta un’eredità del colonialismo sovietico.

Del resto, quella che chiamiamo «società civile» in Ucraina trova alimento nella rete delle autonomie locali, molto forte e capillarmente diffusa. Il presidente del Congresso per l’autogoverno dell’Ucraina, Sergji Chernov, ha preparato col MEAN il viaggio e tutte le iniziative di questa missione, seguendoci ad ogni passo, preoccupato in primo luogo della nostra sicurezza. Sergji aveva come priorità evidente quella di stabilire contatti fra le persone e le associazioni, attivare relazioni, stabilire alleanze.
È stato lui a farci incontrare tanti amministratori locali, tra cui ricordo il sindaco di una cittadina a nord di Kharkiv, sul fronte russo, che con ostinata passione ha tra le sue priorità quella di tutelare i bambini che vivono sottoterra come topi da troppo tempo e costruire un asilo nido a prova di bombe, la sindaca di un’altra cittadina in zona di combattimenti, che cerca mezzi e idee per provvedere al riscaldamento dei cittadini per il prossimo inverno, la dottoressa primaria di psichiatria dell’ospedale locale, con l’emergenza dello stress post traumatico soprattutto di bambini e soldati, un gruppo di scout di cui molti membri stanno combattendo, col lutto di troppe perdite tra loro, un’associazione di imprenditori alle prese con la distruzione delle strutture industriali ucraine a cui si sta dedicando sempre più sistematicamente l’esercito russo.
L’attuale fase della guerra, infatti, vede sempre più frequenti e pesanti gli attacchi russi agli insediamenti industriali, alle infrastrutture energetiche, alle aziende agricole (durante la prima notte della nostra permanenza a Kharkiv sono stati bombardati e distrutti nelle campagne circostanti una centrale elettrica e un allevamento con 13000 maiali, e questa media giornaliera si mantiene). Ma è di oggi, 22 ottobre, la notizia che proprio in città è stato colpito un asilo nido e ci sono bambini feriti.
Insieme alla strategia del terrore, che si intensifica senza più alcun mascheramento, si persegue la distruzione di quel che non si riesce a conquistare.
Eppure, per quanto sia difficile da credere, non abbiamo mai sentito parole di odio.
Resistere senza odiare è una prova di grande civiltà, un grande esercizio di «pace preventiva».
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Tra le poche parole che ci ha rivolto il nostro amico Sergji, ricordiamo che ha confessato la sua incredulità nel vedere la lista di quei 110 «europei» che «davvero» stavano per arrivare fino a Kharkiv.
Ci ha proprio chiamati «questi europei».
Bellissima definizione.
La vogliamo intendere come un augurio.
Abbiamo visto – e ce lo aspettavamo – la bandiera ucraina dappertutto, sventolare sui pennoni, dipinta sui muri, drappeggiata sugli altari. Un’anziana signora ci ha regalato spille e orecchini fatti a uncinetto con i colori della bandiera nazionale e non potremo mai dimenticare la distesa infinita di bandiere al cimitero di Kharkiv, straziante schieramento di un esercito di morti.
Ma nelle sedi istituzionali, al Club Diplomatico come all’Università Beketov, siamo stati sorpresi di vedere, subito accanto alla bandiera ucraina, la bandiera dell’Europa, inequivoca scelta di campo.

Più ancora che un augurio, ci pare una supplica.
Eppure qui da noi c’è ancora chi dubita che davvero gli ucraini vogliano liberarsi della colonizzazione russa e stare dalla parte dell’Europa, chi li dipinge costretti a combattere contro la loro volontà, soggetti a un governo centrale pronto al sacrificio del suo popolo per qualche oscuro vantaggio, o anche, dicono, russi come i russi.
Evidentemente la guerra ibrida inquina insieme alle informazioni anche le opinioni, com’è nei suoi obiettivi, e possiamo ben capire l’amarezza del vescovo di Kyiv, quando definiva una vera sofferenza, seconda solo alla violenza della guerra, l’alterazione della realtà dei fatti.
A questa continua mistificazione il MEAN chiede che si opponga una «contraerea dell’informazione», cosa che possiamo fare tutti, informandoci a fonti attendibili, facendo la fatica di verificare sempre e rompendo un silenzio che è più facilmente di comodo che di impotenza.
A chi si limita ai commenti dei social, ma anche a chi discute da esperto nei talk show senza muoversi da casa propria, il MEAN propone di andare a vedere, con le proprie gambe, coi propri occhi e le proprie orecchie.
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Può essere che in questa missione abbiamo incontrato solo l’Ucraina «buona», quella che chiede giustizia, quella che costruisce la pace, quella che crede nei valori fondativi dell’Unione Europea. E possiamo anche capire che, per molti e immaginabili motivi, questa resistenza morale e politica non sia sempre adeguatamente rappresentata dai tutti gli ucraini sfollati per lavoro o per la guerra. Può essere, insomma, che esista anche una zona torbida, una parte ambigua, violenta o addirittura pronta al tradimento, un’Ucraina che noi non abbiamo conosciuto.
Ma su quale Ucraina vogliamo scommettere, a quale dar credito, solidarietà e supporto se non a quella da cui abbiamo qualcosa da imparare?

Se non vogliamo cinicamente cedere alla violenza delle armi o alla politica della prepotenza, non possiamo accettare che la soluzione del conflitto russo-ucraino sia affidata a chi non conosce, non capisce, non apprezza le ragioni della resistenza ucraina, non possiamo accettare che si realizzino spartizioni ricattatorie, come se si trattasse di capricci da sedare, sopra le teste di chi ne è coscientemente protagonista.
Con il MEAN si può imparare che, non siamo così inermi, che è possibile e doveroso muoversi e «mobilitarsi», in Ucraina, in Italia e in Europa, dove si sta lavorando per chiedere l’istituzione dei Corpi civili di pace, uno strumento di civiltà per non limitarsi alle sanzioni e all’invio di armi.
Ma occorre agire insieme, insieme agli ucraini e insieme a tutti quelli che non vogliono stare a guardare.
La quattordicesima missione MEAN in Ucraina ha portato fino a Kharkiv 110 attivisti.
Sul treno del ritorno, mentre alla stazione di Leopoli attendevamo che tutti i droni fossero abbattuti per poter ripartire, si progettava di portarne, alla prossima, almeno 1100.






Nel leggere queste riflessioni mi rivengono in mente le mie. Chiaramente le tanto tipicamente belle ragazze dell’est Europa che spesso notavo (non a caso) nella metro di Milano con borse delle più rinomate boutique di moda dove erano venute per le spese e tornavano in aeroporto, non avrei ne io ne nessun italiano avuto capacità di distinguere se fossero russe oppure ucraine perché è una differenza che si comprendono tra di loro. Questo assunto lo ho poi ricollegato con gli etiopi e gli eritrei, perché finita le guerre degli anni 90 (anzi sono ancora in corso) quando venivano a Roma gli eritrei venivano presi per etiopi e viceversa, perché le loro differenze le comprendono soltanto tra di loro mentre all’esterno non appaiono.. Questo non significa nulla perché nessuno può ardire affermazioni definitive sugli eventi in corso, soltanto volevo osservare che nel periodo di Berlusconi (e benché sia antiberlusconiano dall’alto in basso) per bontà di rapporti si immaginava la probabilità di ingresso della Russia nella UE.