Plastica: quale futuro?

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Il 22 aprile è la Giornata della Terra (Earth Day). Celebrata dal 1970, è oggi un evento capace di mobilitare milioni di persone in 192 Paesi con iniziative di sensibilizzazione e formazione per la custodia della «casa comune». Per il 2024 si è scelto il tema «Planet vs. Plastics» (Il pianeta contro le plastiche), immaginando di costruire un futuro senza plastica per le generazioni a venire. Con il prof. Giulio Marchesini facciamo il punto della situazione a proposito del tema.

Quando Giulio Natta riuscì a sintetizzare polimeri partendo da monomeri del petrolio per dar luogo alla plastica, il mondo, giustamente, applaudì per una scoperta scientifica in grado di affrancare il genere umano dall’uso di materiali più naturali, ma più pesanti, di non facile reperimento e di elevato costo.

Il premio Nobel nel 1963, assieme a Karl Ziegler, gli venne assegnato per aver liberato l’umanità da terracotta, vetro e metalli, realizzando un materiale col quale produrre, con grandi vantaggi, una varietà infinita di oggetti. Pensiamo alla differenza di peso tra un orcio di argilla, col quale attingere acqua, ed una tanica di plastica; ovvero ad un secchio di metallo mangiato dalla ruggine, oppure ad un cesto di vimini sfilacciato e marcito, alle parti corrose delle carrozzerie e a tutte le alternative in plastica.

Durabilità, il problema

Oggi, neppure immaginiamo che tanti oggetti possano essere fatti di materiale diverso dalla plastica. La plastica garantiva robustezza, duttilità di forme, leggerezza e straordinaria durata nel tempo. Ma, ecco, il vantaggio si è trasformato in problema: la durabilità! Nessuno aveva pensato che, presto, l’uomo avrebbe trasformato un materiale di sintesi, durevole, in un materiale usa-e-getta. Nessuno aveva pensato a dove buttarlo e con quale fine.

Dai 15 milioni di tonnellate di plastiche prodotte nel 1964, si è arrivati, in modo esponenziale, a 234 milioni di tonnellate nel 2000, sino ai 430 milioni di tonnellate (e oltre) attuali, la maggior parte delle quali – almeno il 50% – prodotta per essere usata una sola volta: ad esempio, quale materiale sanitario, packaging alimentare, comprese le bottiglie, ecc.

Ogni abitante della Terra consuma in media, ogni anno, 68 kg di plastica – all’incirca, l’equivalente del proprio peso – ma, se appartiene al Nord del mondo, arriva facilmente a 100 kg, mentre l’abitante del Sud del mondo ne usa 20 volte meno, ossia 5kg.

Natalie Gontard, nel suo saggio C’è vita senza la plastica, pubblicato da EMI nel 2021, fa un drammatico confronto: ogni secondo nascono sul pianeta 2,7 bambini e, nello stesso istante, si producono circa 4 tonnellate di plastica! Dal 2021 l’inverno demografico ha probabilmente ridotto il numero dei nuovi nati, ma non ha certamente ridotto le tonnellate di plastica. Anzi.

I maggiori Paesi produttori sono gli Stati Uniti (42 milioni di tonnellate) e, nell’ordine, India, Cina, Brasile. Ma se questa poco invidiabile classifica viene fatta per abitante, l’Italia – con 6 milioni di tonnellate per 60milioni di abitanti, pari a 100 kg pro-capite – certamente non sfigura.

Una quota significativa delle materie plastiche è utilizzata per la realizzazione di imballaggi. Ci sono quelli flessibili – films estensibili, sacchetti, pellicole, poliaccoppiati a prevalenza plastica, shopper – quelli rigidi – bottiglie, flaconi, vaschette, barattoli – e altri imballaggi di protezione e trasporto, quali pallet, cassette, casse, cestelli, fusti, secchi; ci sono poi le pacciamature delle coltivazioni, i teli delle serre, ecc.

ll rapporto Global Plastic Outlook diffuso dall’OCSE per misurare il livello di consumo, riciclo e inquinamento della plastica su scala mondiale, stima che si ricicli solo il 9% della plastica prodotta a livello mondiale, mentre il 19% finisce negli inceneritori e quasi il 50% nelle discariche, sanitarie (e non). Il restante 22% è probabilmente smaltito in discariche non controllate, bruciato a cielo aperto o disperso nell’ambiente, o spedito in Paesi del Sud del mondo, individuati dal Nord come pattumiere.

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Come va in Italia sul riciclo?

I dati ISPRA sulla raccolta differenziata dicono che l’Italia è seconda in Europa per milioni di tonnellate raccolte (1,7), a fronte di quasi quasi 6 milioni di tonnellate/anno prodotte – tra le quali 2,3 milioni di tonnellate di imballaggi -, la frazione più interessante per la raccolta e il riciclo.

Secondo il più recente rapporto sul riciclo in Italia della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile, le quantità avviate a riciclo – sulla specifica frazione degli imballaggi – sono pari al 55,6%, appena al di sopra dell’obiettivo dell’Unione Europea posto al 55% entro il 2030.

Purtroppo, il 90% delle plastiche nei rifiuti da imballaggio viene riciclato con procedimenti chimici di riduzione dei polimeri a monomeri, mentre il riciclo meccanico per triturazione, considerato più sostenibile, tratta solo una quota marginale. Anche in questo caso, la quota rimanente viene avviata agli inceneritori o termocombustori.

Un uso sconsiderato è l’impiego di bottiglie di plastica per l’acqua e le bevande con lo «sport», tutto italiano, del lancio del vuoto a perdere dal finestrino dell’auto. I ciclisti, come me, pedalando ai margini dell’asfalto, hanno chiara coscienza di quanti rifiuti in plastica si annidino nei fossi ai lati delle strade.

In Italia si arrivano ad usare oltre 30 milioni di bottiglie di plastica al giorno, equivalenti a 13 miliardi per anno: è una media di una bottiglia ogni due giorni per abitante, Ovviamente non solo per l’acqua e le bevande!

L’inquinamento globale da plastiche

Tutta la plastica che non viene riciclata, dispersa nell’ambiente, o in discariche abusive, prende lentamente la via dei fiumi e dei mari. Secondo l’OCSE, in uno studio ormai vecchio di un paio d’anni, sono centinaia di milioni le tonnellate di plastica finite in mare.

Trasportate dalle correnti hanno formato, un’isola gigantesca: il Pacific trash vortex, conosciuto anche come Great Pacific patch, ovvero la grande chiazza di immondizia dell’oceano Pacifico, grande almeno come l’intera penisola iberica; ma sarebbero oggi almeno sei le isole di questo tipo sparse tra il Mare Artico, l’oceano Atlantico ed il Pacifico ed anche il Mediterraneo ha ora la sua isola di plastica, al largo dell’Arcipelago Toscano.

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Il grande problema è che la plastica si degrada molto lentamente.

I fili delle reti da pesca impiegano fino a 600 anni; per le bottiglie di plastica sono necessari fino a 450 anni; ad un sacchetto di plastica non biodegradabile servono «solo» 20 anni. Ma, attenzione: i polimeri vengono scissi molto lentamente in monomeri, ma questo non vuol dire che il danno ambientale – e sanitario – sia esaurito!

Dalle macroplastiche derivano microplastiche che non vediamo ad occhio nudo – polimeri con un diametro inferiore a 5 mm – e quindi le nanoplastiche, di dimensioni ancora più piccole, con un diametro inferiore a 0,001 millimetri.

Queste entrano facilmente nella catena alimentare: dall’acqua del mare e dalle falde idriche nei pesci e negli animali d’allevamento, ma anche nella frutta, negli ortaggi, e, dagli alimenti al nostro organismo, il passo è breve. Secondo uno studio del WWF, l’uomo ingerirebbe sino a duemila frammenti di plastica ogni settimana, equivalenti a circa 5 grammi. Anche nel sangue, ormai, abbiamo micro e nanoplastiche.

Uno studio olandese – Progetto Immunoplast – ha rilevato tracce di plastica in tre quarti dei campioni di sangue esaminati: il materiale più presente è il PET – il polietilene tereftalato, quello delle bottiglie di plastica – in concentrazione media pari a 1,6 microgrammi/millilitro, con valori massimi sin ad oltre 7 microgrammi/millilitro. Molto frequentemente si ritrova anche il polistirene – quello degli imballaggi – seguito dal polimetilmetacrilato, noto anche come plexiglas, il vetro di plastica.

Ma il passaggio dal sangue a tutti gli organi interni può essere anch’esso breve. Negli animali l’esposizione a micro e nanoplastiche è stata messa in relazione ai fenomeni di infertilità, infiammazione e cancro. Nell’uomo le microplastiche si depositano – è dimostrato – anche nei polmoni: ed ancora le plastiche più frequenti sono quelle derivate dal polipropilene e dal PET.

Nel mese di marzo 2024 è comparso sulla più prestigiosa rivista medica del mondo − il New England Journal of Medicine − uno studio italiano coordinato dal prof. Giuseppe Paolisso, già Rettore dell’Università di Napoli. Nelle placche di aterosclerosi delle arterie carotidi di soggetti sottoposti ad intervento – per riaprire un vaso che si stava occludendo – è stata documentata la presenza di polietilene (in circa il 60% dei casi), e di polivinilcloruro (PVC) nel 10% dei casi. La presenza micro/nanoplastiche all’interno di placche aumenta di oltre 4 volte il rischio di subire un evento infausto – quale infarto, ictus o mortalità da tutte le cause – nei tre anni successivi il rilievo.

Quale futuro?

Il futuro vorrebbe una plastica interamente riciclabile, non più derivata dal petrolio bensì da prodotti naturali (canapa, mais, canna da zucchero), ovvero il bio-based. La strada per produrre polimeri in questo modo è ormai tracciata da tempo. Ma questi polimeri «naturali» sono veramente e facilmente biodegradabili, senza danni?

La plastica siglata PLA – dall’acido polilattico – risulta biodegradabile solo ad alte temperature, sopra i 60°C: perciò non può essere usata per i contenitori di bevande calde. Se dispersa nell’ambiente, ovviamente, ha scarse probabilità di raggiungere tali temperature. Quindi: quanta parte ne rimane sparsa, anche in questo caso, in forma di piccoli polimeri, di micro/nanoplastiche?

Certo non è affatto semplice pensare ad un mondo senza plastica! Pensiamo solo ai rifiuti sanitari ed alla sicurezza igienica del materiale usa e getta, contrapposto a un materiale da sterilizzare ad ogni uso. Ma molte cose si potrebbero/dovrebbero, necessariamente, fare.

Non è forse opportuno pensarne un uso più razionale, posto che anche la fase di produzione danneggia l’ambiente liberando quantità impressionanti di CO2, gas che genera la maggior parte dell’effetto serra? E poi: quanta la CO2 prodotta dal trasporto delle bottiglie di plastica contenenti quell’acqua che potremmo, più razionalmente, portare in una borraccia? Perché non acquistare ricariche per saponi e detersivi, utilizzando gli stessi contenitori all’infinito?

Certo, questo comporta qualche sacrificio sui nostri stili di vita. Ma possiamo continuare ad agire così incuranti del futuro? Cerchiamo tutti di fare la nostra parte per favorire il recupero e il riciclo. Resto scandalizzato dalla maleducazione di chi disperde le bottiglie di plastica, ma, allo stesso modo, dai tanti benpensanti che vi passano accanto con indifferenza, senza alcuna preoccupazione di raccolta e di cura dell’ambiente di tutti.

Chissà cosa direbbe Giulio Natta se potesse vedere come abbiamo male approfittato della sua scienza!

Giulio Marchesini, docente presso l’Università di Bologna, è membro di Energia per l’Italia–ExIT

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