
Il silenzio delle fonti informative ortodosse non ha potuto impedire che un portale informativo come Courrier des Balkans (9 agosto) raccontasse la prima condanna di un vescovo (e di un monaco) in Romania per le accuse di reiterati abusi sessuali sui seminaristi.
Attingendo a informazioni da siti specializzati (in questo caso Sã fie lumina – Che la luce sia) si registra per la prima volta la condanna di un vescovo abusatore seriale a 8 anni di prigione (Corneliu Onilã, diocesi di Huşi), mentre il monaco prima complice e poi ricattatore è stato condannato a 15 anni (Sebastian Jitaru). Diocesi e seminario dovranno versare 170.000 euro alle vittime.
Il racconto può partire dalla riunione del santo sinodo della Chiesa romena il 25 febbraio del 2016. In coda al lungo elenco dell’ordine del giorno vi è la proposta di mons. Corneliu Onilã per una promozione importante di Sebastian Jitaru ad un alto rango monastico, quello di archimandrita. La decisione, sottoposta a una rapida verifica, porta la firma del patriarca Daniele, la massima autorità della Chiesa. Nessuno controlla perché un oscuro monaco debba ottenere tale riconoscimento.
L’anno successivo il vescovo Onilã presenta denuncia alla direzione nazionale contro la corruzione per la pubblicazione di una serie di video compromettenti in cui lui appare in atti sessuali con seminaristi nelle cappelle della cattedrale Huşi. I video provengono dal monaco Jitaru e dai suoi confratelli.
Esplode lo scandalo. Il monaco viene condannato per estorsione, ma la violenza sessuale viene ignorata. Si scopre che Jitaru, anche lui violentatore seriale, teneva il vescovo sotto scacco e lo aveva costretto a proporre al sinodo la sua promozione ad archimandrita.
Onilã chiede di essere esentato dai compiti pastorali. È collocato a riposo in un monastero femminile mantenendo il titolo e il salario da vescovo (in carico allo Stato).
Le condanne
Solo il giornalismo di indagine di Sã fie lumina obbliga a riaprire il versante degli abusi che negli anni indagati (2016-2017) hanno cumulato un centinaio di vittime fra i seminaristi.
Il silenzio delle istituzioni ecclesiastiche e la copertura dei partiti e dell’amministrazione pubblica rendono difficile il percorso giudiziario. Molti fra le decine dei testimoni abbassano il profilo delle loro denunce.
Nella tradizione giuridica locale, se i ragazzi non ne parlano subito coi genitori, non oppongono una resistenza fisica, non sono costretti a determinate posizioni non ottengono attenzione e credibilità.
Ma il tribunale di Galati, il 27 giugno del 2024, condanna formalmente i due imputati. Il successivo ricorso degli imputati all’Alta Corte di giustizia non ottiene se non la riconferma della condanna a 8 anni per il vescovo e a 15 anni per il monaco (30 aprile 2025).
La reazione del mondo ortodosso romeno ignora il peso della decisione dei giudici considerando mons. Onilã fuori di ogni ruolo ecclesiastico e il monaco già escluso da ogni appartenenza. Manifesta sorpresa e irritazione per l’ingiunzione della sentenza di pagare, come risarcimento alla vittime, 170.000 euro. La diocesi e il seminario si rifiutano di farlo.
La rimozione del problema
Del resto, fino al 2016 il vescovo Onilã godeva di grandi consensi anche dai vertici ecclesiastici. Il suo brillante percorso accademico (licenza e dottorato a Marburgo in Germania) gli consentono l’insegnamento all’Istituto teologico di Bucarest e, nel 1999, l’elezione a vescovo, prima ausiliare per le mani del patriarca Daniele e poi, a pieno titolo, a Huşi.
È stato delegato del Patriarcato in molte occasioni di dialogo e di gruppi di studio all’estero (Germania, Italia, Svezia, Belgio, Polonia ecc.), diventando autore apprezzato nelle principali pubblicazioni teologiche del Paese.
La reazione degli ambienti ortodossi romeni sembra ignorare gli elementi di sistema visibili nella vicenda. C’è un controllo quasi totale del vescovo che, con le sue lettere di consenso o no, permette l’entrata in seminario, il proseguimento degli studi, la possibilità di un ruolo pastorale (volontario o pagato), la prosecuzione degli studi di specialistica e l’eventuale carriera ecclesiastica.
L’imbuto dei copiosi esborsi statali e amministrativi verso la Chiesa è strettamente controllato da pochi responsabili e la corruzione è diffusa.
I media hanno sollevato negli ultimi anni diversi casi clamorosi che hanno interessato il vescovo Viarion Bãltat, il prete Petrica Leascu, il vescovo Teodosio di Tomis, il sacerdote Visarion Alexa ecc. (cf. qui su SettimanaNews). Tanto da indurre la segreteria del sinodo a pubblicare una dichiarazione (fine 2023) di condanna della simonia. «La simonia è un atto per cui in cambio di soldi o valori (per amicizia, nepotismo, influenze politiche o di altra natura) si ottiene l’ordinazione, una sede diocesana, una parrocchia, un diploma o una promozione accademica (pre-universitaria, universitaria e post-universitaria)».
In Romania vi è sufficiente libertà di stampa per far emergere i bubboni più evidenti, ma in molte altre Chiese ortodosse, da quella russa a quelle delle aree ex sovietiche, la questione degli abusi è rimossa e la corruzione è spesso coperta.
Una stagione di ampio consenso e di crescente potere sottopone le Chiese nazionali ortodosse a crescenti tentazioni e le espone a gravi contraddizioni.






Spiace per le vittime e per la Chiesa: anche l’ortodossia è poco ortopratica come la cattolicità. È purtroppo un dato di fatto che le persone violente ci sono anche tra il clero e sono spesso chiamate a ruoli di responsabilità e di direzione gerarchica, mentre i buoni vengono relegati a mansioni umili.