
Se la teologia osasse “pensare le onde”, chiunque ci abita in mezzo, purché non abbia ostilità preconcette, la sentirebbe amica, forse interlocutrice.
Un articolo potente. È questo che ho pensato leggendo il testo che padre Antonio Spadaro, sottosegretario del Dicastero per la cultura e l’educazione, ha pubblicato su Avvenire del 19 gennaio (qui). Mi ha riguardato.
Spadaro parte dalla velocità dei cambiamenti che caratterizzano il mondo d’oggi: non sembra proprio che ci indichino un’epoca di cambiamenti, ma un cambiamento d’epoca. I cambiamenti che avvengono Spadaro li definisce rapidi; e spiega che “nell’aggettivo rapido si trova la radice del rapire, cioè afferrare, trascinar via”. Rapidus, ci ricorda con Calvino, non è ciò che è veloce, ma ciò che rapisce, trascina, travolge. Basta l’esempio della corrente elettrica, della luce, e del suo effetto sulle nostre giornate per capire.
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A questo punto del suo testo che spiega perché serva una “teologia rapida”, sostiene che occorra attraversare questo tempo rapido. E richiama il noto passaggio evangelico di Gesù che tra venti e onde paurose invita gli apostoli a passare all’altra riva. Qui interviene la prima osservazione del lettore, credente o non credente non credo che cambi molto.
Tutti sappiamo che Gesù dormiva e gli apostoli avevano paura. Ma quel dormire cosa dice? Spadaro colpisce in profondità il lettore ricordando che papa Francesco ha affermato che il passare sull’atra riva “presuppone un passaggio che avviene nelle coscienze, negli atteggiamenti e nelle intenzioni delle persone”. Dunque davanti al cambiamento d’epoca che stiamo vivendo non dobbiamo cambiare fede, o idea, ma trovare il modo di compiere questo passaggio nella coscienza, negli atteggiamenti, nelle intenzioni.
Forse è per questo che il testo evangelico presenta un Gesù che dorme: lui è sempre padrone della situazione, non è il cambiamento d’epoca che lo sconvolge. Le acque in cui si trovava quella barchetta sono quelle in cui ci troviamo oggi: come si fa a restare saldi? Questa a me sembra la domanda che emerge, decisiva, da questo testo che non riassumo tutto perché non è ciò che serve. Quello che serve è individuare la domanda e ragionare sulla risposta: è evidente che emerge l’esigenza, in questa epoca nuova che si va definendo intorno a noi, di nuovi dialoghi, per dire diversamente ciò che diversamente mi circonda.
Non serve il fondamentalismo che rassicura, né serve illudersi che un sincretismo di maniera sia la nuova ricetta, afferma Spadaro. Personalmente non temo il sincretismo, perché se è possibile vuol dire che accavalla, non mischia, forse arricchisce, ma queste sono idee mie, non dell’autore.
Lui vede l’urgenza, approcciandosi all’altra riva, di leggere l’inquietudine sociale, non di illudersi di poterla acquietare con un tradizionalismo che leggendo il suo testo mi ricorda il brodino per il malato: farà pure piacere, ma cosa risolve? Leggere l’inquietudine del tempo vuol dire orientarla, non diventarne schiavi. Non è proprio questo quello che tutti sentiamo come difficile, desiderabile, pauroso, necessario?
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Se la teologia davvero osasse di “pensare le onde”, chiunque ci abita in mezzo, purché non abbia ostilità preconcette, ideologiche, la sentirebbe amica, forse interlocutrice, di certo vicina. Questa teologia sarebbe vicina perché non sarebbe un prodotto da politburo; non si astrarrebbe nella ricerca dell’interpretazione profonda del nuovo piano quinquennale, ma entrerebbe in dialogo con me, con chiunque, nelle onde.
La vecchia idea di fermarsi a contemplare le stelle per orientarsi non ci darebbe nulla in questa fase: le stelle sono coperte, piove a dirotto, le nubi incalzano tutti, ecco perché mi colpisce profondamente l’idea di rapidità. Così riconosco di aver sgranato gli occhi leggendo questo approdo che l’autore prende dal gesuita Claude Larre che commenta l’antico Tao Te King: “L’approccio contemplativo di Lao Tze intende il vivere come un’arte che si sposa al contesto e al fluire della realtà”.
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Questo approdo per l’autore deve produrre una Chiesa che non abita solo porti sicuri, ma prendere casa anche nei luoghi esposti alle rapide, ai venti e pure alle burrasche. Se così fosse il mondo secolarizzato qui in Europa, quello al quale ritengo di appartenere, non sarebbe costretto a uscire dal guscio nel quale si va chiudendo, invece di restare abbracciato alla presunta razionalità del chiudere porte e finestre quando arriva burrasca?
Ad Ajaccio papa Francesco ha affermato che molti secolarizzati “non sono estranei alla ricerca della verità, della giustizia e della solidarietà, e spesso, pur non appartenendo ad alcuna religione, portano nel cuore una sete più grande, una domanda di senso che li conduce a interrogare il mistero della vita e a cercare valori fondamentali per il bene comune”. Oggi il valore fondamentale per partecipare alla ricerca del bene comune per me è sentirmi in mare aperto.
Avverto una lezione di metodo indispensabile per chi cerchi i suoi valori in un cambiamento d’epoca. I tempi cambiano e i cristiani, fedeli al Vangelo, cambieranno leggendo i segni dei tempi.
Questo mi stimola a fare altrettanto, perché il metodo qui indicato mi dice che posso fare lo stesso, e non da solo, perché c’è chi riconosce la mia ricerca del bene comune, quella che guida qualsiasi secolarizzato che abbia inteso la sua idea di mondo come ricerca di spazi condivisibili.
Sposarsi al contesto nel fluire della realtà (per me senza congiunzione tra i due) è la sostanza della ricerca di senso per chiunque cerchi una maggiore inclusività, andando verso nuove frontiere pluraliste. E così scopro che non può non essere centrale una voce che sa chiedermi di passare all’altra riva: saldo nell’amicizia con l’altro entro nel mare aperto; è questa ora la società del vivere insieme.






Vorrei dire a Spadaro che il brodino per i malati serve a titolo consolatorio ed anche compassionevole e che nei casi di sequela ai malati, sofferenti, anziani non bisogna essere rapidi, ma occorre invece la pazienza, la stessa che ha avuto Maria che conservava e meditava nel segreto tutte le cose. Anche oggi che spostiamo le lancette in avanti lo facciamo solo per un ora, non andiamo troppo avanti perché in parecchi episodi evangelici si inizia con la dicitura “In quel tempo…” come per dire che certe esperienze vanno gustate qui ed ora, che non vanno demandate a domani, che vanno vissute mentre si cammina, con la croce sulle spalle ed un giogo alleggerito dalla fede della Speranza. Quindi piuttosto che rapido userei il termine latino rapto cioè trascinare o meglio TRASCINATRICE ecco cosa serve.
Strana riflessione quella di Spadaro: all’inizio dell’articolo velocità e rapidità vengono connotate rispettivamente in modo neutro e negativo. A questo punto ci si aspetterebbe che la teologia venga invitata a sfidare (magari velocemente) la rapidità e rapinosità dei tempi; invece Spadaro propone a sua volta una teologia rapida, il che – sulla base di quanto da lui esposto – dovrebbe configurarsi come una teologia minacciosa, rapinatrice e travolgente come una burrasca. Mi sembra evidente che non sia questo il suo intento, ma allora non capisco bene dove vada a parare il discorso. L’unica cosa che mi viene in mente è il possibile collegamento tra una teologia rapida e una delle più misteriose e conturbanti frasi dei vangeli, e cioè che il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono (Mt 11,12; Lc 16,16).
Nel contesto non è possibile non essere presenti, e secondo me non è affatto facile neanche smarrire in relazione ad esso il fatto della fede, se ci denota. Molto più ovvio esserci senza capire quanto avviene, senza nemmeno avvedersene. Non è Dio che dorme, ma piuttosto noi che non cogliamo gli snodi del reale. Secondo me è importante non perdere il senso della continuità, non per restare tetragonicamente uguali a se stessi, ma per farlo senza perdere la bussola. Non c’è da fare meno di dormire, ma da. passare via via.il guado nella concentrazione e come “vicini” alla realtà e ad essa sempre immedesimati. Dall’altra parte ci si trova senza nemmeno accorgersene, e sicuramente è successo a tutti più di una volta nella vita. Fissare lo sguardo sulla tempesta aiuta solo ad avere paura, mentre nel raccoglimento si lascia minor spazio alle intemperie. “Fissare lo sguardo in Gesù” evita di concentrarlo sui fulmini, che abbagliano ma stanno già passando – forse, pare, non tanto alla svelta, ma di necessità. E su ciò almeno di può riposare.