Carnefici del Duce

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Eric Gobetti è uno storico e ricercatore impegnato nella ricostruzione di alcun delle vicende più problematiche e inquietanti del Fascismo. Nel suo ultimo libro I carnefici del Duce (Laterza, 2023), si occupa dei crimini commessi da militari italiani del Regio Esercito nelle guerre coloniali italiane del Novecento in Libia ed Etiopia, e nella Seconda guerra mondiale nei Balcani: in Grecia, Montenegro, Croazia, Slovenia.

Si tratta, appunto, dei crimini di guerra compiuti in violazione delle norme dello stesso Codice penale militare italiano adottato nel febbraio 1941 che vietava e puniva «l’incendio, la devastazione, il saccheggio», a meno che ciò non fosse imposto da superiori esigenze di guerra; proibiva le violenze contro i civili, la fucilazione «senza regolare giudizio» e la «deportazione di massa», che però era consentita dal Codice di polizia coloniale.

Va ricordato anche che, sul piano internazionale, dopo la fine della Prima guerra mondiale, vigevano le norme che proibivano l’uso di armi chimiche (iprite, fosgene, arsina) che gli italiani usarono invece in Libia negli anni venti e soprattutto in Etiopia, per responsabilità di Pietro Badoglio. Tali delitti sono rimasti per la quasi totalità impuniti.

Le difficoltà maggiori al riconoscimento di responsabilità nascono da ragioni di politica interna e di politica estera: dopo la sconfitta del Nazismo, con la fine del conflitto mondiale, era urgente chiudere il capitolo della guerra civile interna che si era combattuta fra fascisti e antifascisti. Per sostenere la ricostruzione fu scelta la continuità dello Stato dal Regno alla Repubblica.

Sul versante internazionale – con la Guerra fredda – la collocazione dell’Italia ha comportato il forte presidio armato dei confini orientali della NATO.

Per queste ragioni, molti protagonisti italiani di crimini di guerra rimasero integrati nelle loro funzioni. I documenti furono nascosti nei cosiddetti «armadi della vergogna» e ignorate furono le richieste di condanna e di risarcimento da parte dei governi di Etiopia, Libia, Jugoslavia, Grecia.

A completare il quadro dell’anomalia italiana, va contrapposto che, a fine guerra, sia il Governo federale tedesco di Bonn che il Giappone perseguirono e condannarono, in ben altro modo, propri militari responsabili dei crimini.

In Italia, quando si parlò della guerra dei nostri militari, nel racconto prevalse lo stereotipo degli “italiani brava gente”, del buon soldato italiano incapace di agire con durezza, semmai vittima degli eventi.

È quindi gravissimo il non aver ammesso – e il continuare a non ammettere – le responsabilità nei crimini compiuti al di fuori dai confini del patrio Regno: le stime parlano di 75.000 patrioti combattenti e 110.000 civili in Etiopia; di 250.000 vittime nei territori della ex Jugoslavia; di 100.000 Greci, molti morti per fame, stenti e malattie, come pure di decine di migliaia di libici. Gli italiani aprirono e gestirono campi in Libia, Somalia, Slovenia, Francia, Grecia, nei quali furono internati soprattutto civili oppositori.

Gobetti ci propone, fra gli altri, le figure del generale Alessandro Pirzio Biroli, impegnato a controllare la sicurezza dei territori della Bosnia Erzegovina, del generale Mario Robotti che operò in Slovenia, di Rodolfo Graziani  in Etiopia e in Libia, del generale Mario Roatta, autore della “Circolare 3”, vero e proprio  manuale di controguerriglia che raccomandava il «testa per dente» al posto del «dente per dente», oltre all’internamento di «famiglie e categorie di individui della città o campagna, e, se occorre, intere popolazioni».

Il libro di Eric Gobetti è intitolato ai “carnefici” di Mussolini, ma quei crimini furono compiuti nella quasi totalità non da Camicie Nere, ma da alti quadri del Regio Esercito, generali che, per quanto convintamente fascisti, avevano giurato fedeltà al Re e che mantennero, almeno in parte, fede a tale giuramento anche dopo la caduta del Fascismo il 25 luglio 1943.

Quegli ufficiali avevano imparato nelle guerre coloniali a comportarsi con violenza contro popolazioni “native”, ritenute razzialmente inferiori.

Penso che specie ora – mentre stiamo assistendo ad altri orrori nel mondo e in Europa – sarebbe importante ricercare seriamente, dal punto di vista storico, cosa si insegnasse nelle Accademie militari italiane nella prima metà del Novecento circa i comportamenti da adottare nelle guerre di conquista e controllo dei territori occupati e quale sia stata la cultura che ha prodotto – o non ha impedito – tutto ciò.

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