
Entrare in carcere non è mai un’esperienza neutra.
Chi lo fa come volontario lo sa bene: non ci sono sbarre nei disegni, non ci sono colori accesi né storie edificanti pronte all’uso. Il carcere è un luogo pesante, spesso grigio, segnato dal sovraffollamento, dalla fatica quotidiana, da vite interrotte e da un tempo che rischia di diventare vuoto. Eppure, proprio lì, ogni giorno, accade qualcosa che riguarda tutti noi.
Il volontariato penitenziario non è un gesto di buon cuore isolato, né un’azione riparativa a basso costo. È una scelta culturale e politica nel senso più alto del termine: significa credere che la dignità umana non venga cancellata da una condanna e che la società abbia il dovere di interrogarsi su ciò che accade dietro le mura che ha costruito.
In carcere ci sono persone, prima ancora che reati
Alla Casa Circondariale di Bologna «Rocco D’Amato», i volontari dell’Associazione volontari carcere AVoC odv [1] entrano ogni settimana per incontrare uomini e donne che vivono una condizione di privazione estrema: della libertà, delle relazioni, spesso della speranza. Molti sono giovani, giovanissimi, senza un progetto di vita, senza reti familiari solide, senza strumenti per immaginare un futuro diverso.
Non è un caso se la recidiva in Italia sfiora il 70%: quando il carcere resta solo contenimento e non diventa occasione di cambiamento, il ritorno dentro è quasi scritto.
Il volontariato non risolve tutto. E non pretende di farlo. Ma testimonia che un’altra strada è possibile.
Distribuire vestiario e prodotti per l’igiene personale può sembrare un’attività semplice. In realtà significa restituire dignità, cura di sé, riconoscimento. Significa dire: «Tu conti, anche qui». Lo stesso vale per i colloqui, oltre 3.500 in un solo anno: spazi senza giudizio, dove una persona può raccontarsi, essere vista, essere ascoltata davvero.
L’ascolto, in carcere, è un atto rivoluzionario. Perché interrompe l’isolamento, riapre relazioni, rimette in moto riconoscimento e responsabilità. Non sempre funziona: ci sono persone chiuse, ferite, refrattarie a ogni contatto. Anche questo va detto, senza retorica. Ma quando accade, quando una relazione si apre, qualcosa cambia per entrambi.
Cultura, pensiero, creatività: semi di libertà
Dentro il carcere la cultura non è evasione, è resilienza. I laboratori di filosofia, arte, scrittura, musica, origami, cucito, lettura ad alta voce non sono semplici «attività ricreative»: sono spazi in cui le persone detenute riscoprono capacità, pensiero critico, parola, ascolto reciproco.
Nel laboratorio di filosofia si impara a sostare nelle domande, a non rispondere d’impulso, a riflettere sul tempo, sulla bellezza, sul nostro prima di tutto essere «persona». Nei laboratori creativi si lavora insieme, si sbaglia, si ricomincia. Il loro valore non sta solo nelle competenze pratiche che trasmettono, ma soprattutto nel contesto umano che creano: un ambiente in cui la fiducia, l’ascolto e la creatività diventano occasioni di crescita[2].
Nelle biblioteche del carcere si apre un varco: leggere significa uscire per un attimo dalla cella, ma anche rientrare in sé in modo diverso. Tutto questo è profondamente culturale. È educazione alla complessità, alla convivenza, alla possibilità di una seconda chance.
Spiritualità come spazio inclusivo
I Gruppi Vangelo e di spiritualità, nati oltre trent’anni fa, sono oggi luoghi di dialogo tra fedi, culture, storie diverse. Non c’è proselitismo, non c’è indottrinamento. Ci sono piccoli gruppi paritari, dove si parla di libertà, perdono, responsabilità, pace, senso della vita.
In un carcere sempre più eterogeneo, questi spazi diventano luoghi di umanizzazione, dove la spiritualità è prima di tutto riconoscimento dell’altro da sé.
Lavoro: la dignità che si costruisce
In carcere il lavoro non è un privilegio, ma uno strumento decisivo di dignità e responsabilità. Restituisce senso al tempo della pena, costruisce competenze, riapre un legame con la società. I dati mostrano che dove esistono percorsi lavorativi e misure alternative la recidiva diminuisce sensibilmente. Eppure, le opportunità restano esigue, al punto che il lavoro sembri essere un benefit per pochi.
Per questo ogni progetto che crea lavoro in carcere — come il caciottificio della Dozza, sostenuto dalle imprese Granarolo e Fare impresa in Dozza (FID)[3] — è un investimento sociale: perché il lavoro non assiste, ma trasforma, e rende possibile un rientro diverso nella comunità. La rinascita del caseificio è un progetto simbolico e, allo stesso tempo, concreto: la creazione di uno spazio ad hoc dove le persone detenute lavoreranno, impareranno competenze, assumeranno responsabilità, affiancate da volontari e sostenute da imprese e terzo settore.
Il lavoro non è solo reddito. È identità, fiducia, possibilità di futuro. È uno dei pochi strumenti che davvero riducono la recidiva. Investire in progetti come questo significa investire in sicurezza sociale, non solo in assistenza.
Perché continuiamo ad andare
Dire anche le difficoltà è un atto di onestà.
Il carcere è sovraffollato. Gli spazi sono pochi, i tempi compressi, le risorse professionali insufficienti. Il volontariato non può sostituirsi a educatori, psicologi, mediatori, formatori. Può però affiancarli, sollecitarli, testimoniare ciò che manca.
Raccontare il carcere solo in modo edulcorato sarebbe una bugia. Ma raccontarlo solo come luogo senza speranza sarebbe un’altra forma di abbandono.
I volontari continuano a entrare in carcere non perché sia facile o gratificante in senso immediato. Continuano perché «sanno che lì c’è qualcuno che li sta aspettando»: persone magari fragili, povere nel senso più radicale, che hanno commesso reati, sì, ma persone che restano parte della nostra comunità.
Il volontariato in carcere è un atto di responsabilità collettiva. Ci ricorda che la qualità di una società si misura anche da come tratta chi ha sbagliato. E che la speranza, quando è condivisa, non è mai ingenua: è una scelta.
Maria Caterina Bombarda è presidente di AVoC – Associazione Volontari Carcere di Bologna
[1] AVoC – Associazione Volontari Carcere di Bologna è una realtà di volontariato laica che da oltre trent’anni opera all’interno della Casa Circondariale «Rocco D’Amato» della Dozza e sul territorio, accanto alle persone private della libertà e alle loro famiglie. È fatta di donne e uomini diversi per età, storie e convinzioni, uniti da una scelta semplice e radicale: esserci. Con tempo, ascolto, cura, responsabilità condivisa.
[2] Cf. Blog Avoc “Cultura, affettività, diritti umani”
[3] Cf. Blog di Progetto FID “Granarolo entra a far parte della compagine societaria di FID”





