Un Autore, che per EDB ha scritto opere egregie e, a lungo, ha predisposto un importante e pregevole sussidio per la liturgia quotidiana, un giorno propose un manoscritto diverso, nato da un corso di esercizi spirituali su l’invecchiare e il morire.
Il manoscritto, divenuto volume senza difficoltà, è stato, nel corso dei miei anni romani, una sorta di livre de chevet (“libro da comodino”) che però tenevo sulla scrivania accanto ad altri libri importanti e ai manoscritti del Fondatore sui quali in quegli anni lavoravo. Letto “a sorsate”, se così si può dire, quel libro ha accompagnato il passaggio dall’osservazione remota della vecchiaia al progressivo ingresso in essa, con tutto ciò che comporta come l’esperienza del costante indebolimento delle abilità e l’emergere di fragilità sino a ieri impensabili.
Quando, paragrafo dopo paragrafo, confrontavo le cose che leggevo con quelle che cominciavo a vivere mi sono talora sorpreso a chiosare la saggezza giovane del monaco benedettino alle prese con temi che non aveva però ancora vissuto. Una sera a Roma ci fu per me una sorta di epifania del mistero. Un paragrafo o capitolo intitolato «Mi scuso», con il quale l’Autore prendeva congedo dai suoi lettori, giunto al termine della sua lunga e articolata riflessione, scusandosi appunto «per avere osato parlare» di cose che ammetteva, in realtà, di non conoscere, in quanto la sua vita non aveva sperimentato ancora i segni della pienezza e, aggiungerò io, quelli della mancanza incipiente e progredente che caratterizza l’invecchiamento.
Chiedeva scusa, con raro senso di onestà mentale e verità, per «quei passaggi in cui l’inesperienza e un pizzico forse di “arroganza intellettuale” gli avevano fatto dire o stigmatizzare cose e situazioni che in realtà, sono vissute con dolore e angoscia».
Il libro mi ha fatto bene. Ricordo di averlo suggerito a tanti e fatto donare a tanti altri, per cui all’Autore che si dice grato nella sua conclusione a chi gli ha chiesto il servizio di questa riflessione divenuta libro, come è giusto, voglio dire il mio grazie privato… dopo avergli firmato il contratto per la pubblicazione di quel suo libro.[1]
Le riflessioni che proporrò a mia volta, dal di dentro di un tempo e di una condizione che si ha troppo spesso pudore di chiamare con il suo nome – “vecchiaia” – sono diverse da quelle sviluppate in quel libro e da quell’Autore. Partono dalla constatazione di quella che qualcuno, in riferimento ai nostri tempi, ha chiamato «dittatura della giovinezza». E tutto ciò più come semplice constatazione che come annotazione critica.
Constatazione, in primo luogo, di una curiosità statistica che non è di questi giorni ma dell’altro ieri e tuttavia non ha scalfito nessuna resistenza intellettuale: l’aumento quantitativo degli anziani e la progressiva proporzionale diminuzione dei giovani, almeno nel nostro continente.
Già la seconda Assemblea mondiale sull’invecchiamento, promossa dall’ONU nel 2002, prevedeva, a fronte di una percentuale che era stata dell’8% di anziani nel mondo negli anni ’50 e del 10% nel 2000, il 21% per il 2050. Oggi una società fatta soprattutto di vecchi si confronta con una cultura fatta e pensata per i giovani. È questo che ha indotto a parlare di «dittatura della giovinezza» e di assenza di cultura della vecchiaia. Constatazione, non lagna.
Proiettati verso un domani in cui la gente vivrà più a lungo e, dunque, sarà più di ieri e di oggi “vecchia”, paradossalmente drogati dalla mitologia dell’autosufficienza e del benessere, si è come a disagio di fronte alla vecchiaia. Non può stupire il rifiuto dei segni della debolezza che la vecchiaia manifesta e diffonde, il peso che essa diventa per la società, per le stesse famiglie e le istituzioni. Si vive di più, dunque in più si è vecchi e il guiderdone della longevità, il messaggio che i vecchi percepiscono, insieme a infermità crescente, solitudine, povertà, è quello del rischio di percepire la propria crescente inutilità e insignificanza.
L’arte dell’invecchiare, oltre che nelle raccolte di epigrammi e aforismi, è oggi confinata in testi spirituali che nessuno o ben pochi leggono, in qualche pensoso editoriale per eruditi, nei saggi di qualche bel nome che raggiungono però un pubblico estremamente ridotto, in certe crestomazie[2] sul tema che, dopo avere appagato gli autori citati, sono spesso destinate a fare bella mostra di sé in qualche biblioteca di amatori.
Tutti preferiscono rimandare, a un eterno domani, lettura e presa d’atto di una trasformazione che è scandita dal fluire dei secondi. Da stagione normale dell’esistenza, la vecchiaia è divenuta problema dalle molteplici sfaccettature, problema da spiegare, risolvere e giustificare. Come la morte del resto. Ma di questa ho già scritto a suo tempo.[3]
Smarrite le radici di un sentire cristiano presenti nella Bibbia, negli scritti dei padri antichi e nell’insegnamento della Chiesa, da benedizione (cf. Is 65,20) la vecchiaia è diventata un problema e come tale è vissuta e percepita da tanti, anche se non necessariamente da tutti.
«Ragnatela», per un’esperta del tema[4] che in un suo editoriale si rifaceva a Jean Amery per il quale «La vecchiaia è lo sguardo degli altri che ti incolla al tuo destino senza futuro», descrivendo così, in modo plastico, il prender forma della vecchiaia, lento e lungo all’inizio, accompagnato dalla consapevolezza crescente di ciò che non si riesce più a fare come prima, dalla percezione di essere come in una morsa. Una morsa che, stringendosi e impedendoci, ci relega in una debolezza che aumenta e si diversifica trasmettendo la sensazione del limite, o meglio, del proprio divenire sempre più limitati, sminuiti, soli e, via via, separati dagli altri, se questi non acquistano consapevolezza di essere comunque sulla stessa strada e in cammino verso la stessa “sera”.
Perché poi resta vero per tutti quello che ha scritto il poeta:[5] «Ognuno sta solo / sul cuor / della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera».
Vero, non solo perché quell’età è destino di tutti, ma anche perché si accentua in essa la solitudine che non manca nemmeno in altre età, ed è insieme dolente e titanica, mentre si sta nel cuore di questo mondo, dove la luce che illumina o trafigge la vita degli umani è breve e a tutti schiude l’accesso alla notte, al buio della morte sul quale solo la fede getta un raggio di luce.
Vero perché, come all’ultimo raggio della luce per definizione segue la notte, quella sopraggiunge comunque presto («subito»). E tuttavia senza dimenticare che, come ogni tramonto, anche quello della vita si colora di particolarità impreviste e di nubi.
Avevo dodici anni quando Momi, un amico magari vagamente parente di non so quale ennesimo grado, mi aveva prestato un bel libro sui pellerossa, mentre si trovava anche lui nel paese dei nonni a godere l’aria buona dell’Appennino tosco-emiliano. Non si parlava di guerre con le giubbe blu dai «lunghi coltelli», in quel libro si descrivevano usi e consuetudini di un popolo. Mi sorprese l’accenno a quel farsi da parte dei più vecchi della tribù che, divenuti incapaci di muoversi con tutti gli altri, pudicamente si ritiravano nei boschi che costeggiavano le piste e si lasciavano morire così, lontani dagli sguardi di quelli che continuavano ad avanzare: per non essere di peso, per dignità, per stanchezza, forse anche per avere compreso che, poi, davanti alla morte si è comunque sempre soli. Ritrovo oggi lo stesso riferimento in un bel volume dei primi anni duemila.[6]
In quella cultura, annientata dall’arroganza dei bianchi, non c’erano stereotipi, pregiudizi o luoghi comuni impietosi verso la vecchiaia, ma una garbata attenzione che nel libro di Delia Guasco, appena citato, è riassunto nei ricordi di Orso in Piedi dei Sioux, come frutto di un’educazione che trasmetteva un profondo rispetto per i genitori. Tra i Sioux era edificante occuparsi dei propri vecchi, ricambiando l’amore ricevuto da bambini, e provvedere agli anziani era una gioia, non un dovere.
Ammiratori della saggezza, gli indiani, la consideravano dote da capi, insieme all’autocontrollo, la generosità, il coraggio, l’audacia. Saggio era l’uomo capace di consigliare e infondere fiducia nel pericolo e nelle situazioni difficili, capace di mediare nelle contese e nelle liti, a partire da una conoscenza stagionata di usi e consuetudini, della tribù, delle forze della natura e del mondo degli Spiriti messa insieme nel tempo, con gli anni appunto.
Custodi di tradizioni, miti, storie e canti, gli anziani erano ascoltati, consultati, venerati. Trasmettevano ai giovani tutte le cose che sapevano per consentire alla tribù di sopravvivere. E, se gli uni erano esortati al rispetto per gli anziani, questi a loro volta ritenevano normale preparare i giovani a rilevare il potere, a succedere nelle responsabilità. Questo faceva sì che non si sentissero inutili gli uni, frustrati gli altri, in nulla ostacolati nella conquista di un proprio ruolo nella comunità.
L’anziano che, pagando di persona, si era distinto nello spendersi per il bene del prossimo sapeva farsi da parte e, alla luce di una concezione non materiale della vita e delle cose tutte, inclusa la morte, trovava normale, se troppo ammalato o non più in grado di badare a sé, scegliere di allontanarsi dalla tribù per andare ad attendere la morte in solitudine. Una scelta non un’imposizione, un gesto di libertà non una costrizione frutto di una cultura dello scarto.
L’emarginazione e l’insignificanza caratterizzano le nostre società a proposito di anziani e vecchiaia. Questi ultimi, quando diventano non autosufficienti o malati, rischiano di essere emarginati, separati, destinati al grigiore di un’esistenza deprivata e segnata da solitudine, da perdite, da mancanza di certezze, se non quell’unica che è la morte. E beato chi ha nella fede risposte altre.
Gli anni che passano e il corredo di limiti e malanni che segna ogni nuovo domani danno talora ai vecchi la percezione dell’esclusione dalla vita che conta, mentre si fa più acuto il bisogno di essere con e per gli altri, come ieri. Quanto al come, se un giorno hanno aperto il libro del Siracide lì in poche righe è detto: «Parla, o anziano, poiché ti si addice, ma con saggezza, e non disturbare la musica. Quando c’è un’esecuzione non effonderti in chiacchiere, e non fare il sapiente fuori tempo» (Sir 32,3s).
Più che a non rendersi conto della crescita dell’insignificanza dei propri giorni, gli anziani faticano a contenere il peso dei propri limiti, a non renderlo peso morto per chi li circonda o di loro si prende cura, così che non sia sempre vero ciò che scrive Nazim Hikmet: «La vecchiaia la solitudine ed io e poi una malinconia / tutti e quattro camminiamo fianco a fianco senza parlarci / ciascuno cammina solo ma siamo l’uno al fianco dell’altro».[7]
[1] Fratel MichaelDavide, Facciamo l’uomo! Invecchiare e morire, un’iniziazione possibile, EDB, Bologna 2007, il testo citato inizia a p. 227.
[2] Lo so che il termine è raffinato e forse desueto, che è sinonimo più letterario e solenne di antologia e anche di raccolta di brani scelti di autori, ma questo è uno scritto sulla vecchiaia che, spesso, ha dalla letteratura gradevole compagnia e, qualche volta, non disdegna, a sua volta, una qualche solennità nell’incedere e nel parlare.
[3] Cf. A. Gelardi, E… poi? Una rivisitazione delle «cose ultime», EDB, Bologna 2012.
[4] R. Farneti, «La ragnatela della vecchiaia», in http://www.geragogia. net/editoriali/laragnateladellavecchiaia.html.
[5] S. Quasimodo, Poesie e discorsi sulla poesia, Mondadori, Milano 1971.
[6] D. Guasco, Una storia degli Indiani del Nord America, Giunti, Firenze 2001.
[7] N. Hikmet, «Notturno in tram a Berlino», in R. doIsneau – N. hIkMet, Poesie d’amore, Mondadori, Milano 2006 (citato in Farneti, «La ragnatela della vecchiaia»).
Il testo riportato è l’Introduzione al volume di Aimone Gelardi, Ed è subito sera. Divagazioni sulla vecchiaia, Collana «Meditazioni», EDB, Bologna 2016, pp. 112, € 9,00. 9788810808924
Descrizione dell’opera
L’arte dell’invecchiare è confinata in raccolte di aforismi, testi spirituali poco letti, qualche pensoso editoriale per eruditi, saggi per un pubblico ristretto. Il libro cerca una strada originale e diversa per parlare di una stagione della vita che ha ancora molto da dire a tutti, giovani compresi.
Da stagione normale dell’esistenza, la vecchiaia è divenuta problema da spiegare, risolvere e giustificare nelle sue molteplici sfaccettature. Un’età della vita che la dittatura della giovinezza e la mitologia dell’autosufficienza e del benessere confinano tra i pesi per la società, le famiglie e le istituzioni.
La vecchiaia è una stagione spesso attraversata dalla debolezza, dall’infermità, dalla solitudine, accompagnata da un sentimento di crescente inutilità e insignificanza. Eppure è anche «un’arte» da apprendere e da scoprire, come si propone di fare il libro con il suo approccio gradevole e stimolante.
Sommario
Introduzione. Senilità: vecchi e giovani. Giorni e giornate. Il santo e l’architetto. Beatitudine inattesa. La cultura dello scarto. Il salmo e la Bibbia. Ricordi e fantasmi. Oltre l’apatia. Hanno detto. Al di là della malinconia. Lui chi è?
Note sull’autore
Aimone Gelardi, sacerdote dehoniano, ha insegnato Teologia morale ed Etica filosofica. Per EDB, dopo una serie di testi su argomenti religiosi e antropologici, in questa collana ha pubblicato: «Lo avete fatto a me». Una rivisitazione delle opere di misericordia (2008); Le «dieci Parole». Una rivisitazione dei Comandamenti (22011); Beati voi. Una rivisitazione delle Beatitudini (2010); Vizi vezzi virtù. Una rivisitazione dei peccati capitali (2011); Il bruco e la farfalla. Una rivisitazione delle virtù (2011); E… poi? Una rivisitazione delle «cose ultime» (2012); Fare pace. Riscoprire la Confessione (2013); Sacramenti. Riscoprire i misteri cristiani (2013); C’era una volta… Riscoprire il silenzio (2013); Pietà di me. Riscoprire i Salmi penitenziali (2013). Per EDB Junior ha curato diversi volumi ed è autore di: Le regole del gioco. 10 no? noo!! 10 sì! I dieci Comandamenti (22012); Lo hai fatto a me. Le opere di misericordia a misura di bambino (2009); Il mondo alla rovescia. Le beatitudini (2010); 7 contro 7. Una strana partita. I vizi e le virtù (2011); I magnifici sette. I sacramenti (2012), Alfabeto della vita morale (2014), La domenica andando alla messa (2015).