Acutis: il caso serio di una devozione per i giovani

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© Tony Antoniou

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Contro le attese di una parte dei fedeli cattolici, che hanno faticato a comprendere perché io abbia ritenuto di criticare la teologia sottesa alla canonizzazione di Carlo Acutis, si sta sviluppando un dibattito serio e per certi versi sorprendente, che prende le mosse da una valuzione critica intorno allo stile e alla forma della presentazione ufficiale del nuovo giovane santo.  In questo intervento Pietro Busti, giovane presbitero della diocesi di Verona, dottorando a Lovanio e Parigi, parte da una osservazione di Giovanni Salmeri, sviluppando un discorso molto ricco e originale sul tema della “devozione giovanile”. Mi pare una ripresa molto opportuna e uno sviluppo serio e sagace degli impulsi che ho voluto dare nei miei primi articoli sul “caso Acutis” (Andrea Grillo).

Nell’alveo del dibattito generato dalla critica di Andrea Grillo alla teologia implicita nella presentazione della figura di Carlo Acutis, Giovanni Salmeri ha offerto una interessante “via d’uscita”, spostando l’attenzione dal piano teologico-dottrinale a quello affettivo e corporeo (l’articolo di Salmeri si può leggere su SettimanaNews).

Qui, più che una riflessione sulla teologia nel giovane beato, si tratterebbe – secondo Salmeri – di parlare di devozione, cioè della forma concreta e personale con cui ci si appropria della fede. Il problema, dice Salmeri, è che il Concilio non ha saputo tradursi in forme altre di devozione e che quindi un giovane spiritualmente sensibile si trova costretto a riprendere linguaggi “vecchi” per dare carne alla propria fede. Anziché per forza spingerci a canonizzare le sue forme di espressione, o rassegnarsi alla dicotomia tra “pensiero” e “affezione”, o tra “teologia” e “devozione”, forse occorre capire come coglierne l’intuizione e cercare di tradurla oggi con nuovi linguaggi: non è forse questa una responsabilità ecclesiale? Sappiano bene infatti che l’intuizione “affettiva” rischia di diventare (cosa non accaduta sicuramente per il giovane beato, morto precocemente) pericolosa, nel momento in cui se ne rifiuta la reale incarnazione. Basti pensare allo scambio di critiche tra Gesù e Pietro, dopo che quest’ultimo aveva riconosciuto Gesù come il Cristo, a Cesarea.

È proprio vero allora che dobbiamo accontentarci di una divisione così netta tra teologia e devozione? L’autore stesso allude a questa critica. Rilancio così la questione provando a proporre come uno dei nodi della questione sia la comprensione e l’utilizzo di quello che potremmo definire affectus1, come segno dei tempi che sembra marcare la spiritualità giovanile e in generale la contemporaneità post-secolare. Si profila un terreno potenzialmente fecondo e pericoloso, su cui può annidarsi la ricerca di devozioni rassicuranti e, in ultima, alienanti o la spinta per un nuovo slancio del cristianesimo in occidente.

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Nel primo caso, l’evoluzione post-conciliare sembra comprensibile come una reazione al percepito eccesso di “razionalizzazione” e “disincanto” della fede, sullo sfondo più ampio della disgregazione accelerata dell’occidente. L’idea è che la forma percepita come “tradizionale” e “ingenua” della devozione sia la più “santa”; viene privilegiato ciò che sembra più “mistico” e “miracoloso” come forma di sottomissione a quell’autorità di Dio che ci sentiamo come colpevoli di aver distrutto. Di sicuro i misteri del Regno sono rivelati ai piccoli.

Ma ciò non toglie forse che il compito della teologia e del cristiano adulto sia quello di tradurre le loro intuizioni, “servendole” (in tutti i sensi) a questo mondo. Mi pare che l’equivoco si sia creato proprio circa questa traduzione, che appare appunto una responsabilità ecclesiale.

Nel secondo caso questo affectus può diventare il motore di un nuovo slancio per il cristianesimo in occidente. Provo così a rileggere la questione articolando qualche allusione, e chiamando in causa il pensiero di Hartmut Rosa e la sua categoria di “risonanza”, per provare a formulare una domanda che potrebbe assomigliare a questa, di timbro certaliano: cosa significa custodire l’intuizione traducendola come “spinta” a una spiritualità risonante oggi?

Secondo il filosofo tedesco, la frammentazione postmoderna, esito dell’accelerazione costitutiva della modernità e del suo tentativo di “messa a disposizione” del mondo, si rivela oggi in realtà come la storia di una nuova sensibilità alla risonanza, intesa come apertura all’altro e al trascendente, a un mondo che ci interpella, che ci “affetta”, e a cui rispondiamo così con “emozioni” che ci spingono fuori di noi, facendoci paradossalmente ritrovare. In questo senso provo a leggere l’affectus come un segno dei tempi che una buona teologia può riconoscere, leggere e orientare, entrando lei stessa in una forma di “risonanza”.

Se l’autore riconosce così nell’occidente una fine della devozione, forse potremmo leggerne una evoluzione, che proprio le categorie conciliari potrebbe permetterci di riconoscere. Proprio i giovani infatti sembrano, anche dalle ultime ricerche sulla loro religiosità condotte in Italia, cercare spiritualmente e anche corporalmente forme di risonanza. Giovani che si ritrovano sensibili ai segni dei tempi in maniera inconsapevole, sensibili alla Parola come autorità che vuole dialogare con le loro vite, sensibili a forme di autorità “autorevole” e liberante.

Se Salmieri riconosce che oggi la passione eucaristica è inesistente, è interessante notare la ricerca del mistero, di ciò che Rosa chiamerebbe l’“indisponibile”, così come la sete di comunità, di relazioni buone. Il problema è forse il punto di partenza che utilizziamo nell’ascoltarli: occorre cambiare i paradigmi e usare quelli “conciliari” per riconoscere e lasciarsi trasformare dalle nuove forme di devozione dei giovani… E così immaginare una devozione conciliare. Non è pensabile, infatti, la trasformazione diretta, ovvero di applicare il pensiero sulla realtà. Ma la trasformazione risonante forse si.

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È interessante come Rosa riconosca come questa “fame” di risonanza si risolva spesso in una semplice ricerca di “casse di risonanza”, che diventano più camere d’eco, in cui anziché una risonanza trasformatrice ci si rassicura in una ridondanza assordante e alienante.

Non è forse questo il caso di alcune forme di devozione? Non sembrano più delle rassicurazioni alienanti, nella loro difficoltà a guardare con fiducia e creatività a questo mondo? Non diventano così paradossali chiusure alle autentiche esperienze di risonanza? Una devozione ante-conciliare non rischia di risolversi spesso e volentieri (ma non sempre!) in un rifugio pronto in un’epoca di veloci cambiamenti? È chiaro che viviamo ancora, per certi versi, in un momento reazionario: prova ne è il dibattito scaturito, a toni molto accesi. Come cogliere il buono di questa ricerca di affezioni, ovvero di risonanza? Magari provando a cogliere l’istanza anche di quei residui di devozione anticonciliare che oggi si esprimono con violenza. E chiedendosi: risuona questa forma di devozione? O ridonda? Rassicura? O espone?

Devozione”, da devoveo indica il bisogno di una parte attiva nella fede, di implicarsi, di “fare un voto”. Di dare corpo, carne, immagine all’affetto provato, in una spiritualità agita. Non è forse questo un modo di parlare della dimensione sacramentale della vita e del mondo? Non resta forse promettente il cantiere che tenta di articolare l’“indisponibilità” della celebrazione con la disponibilità della vita?

Forse nell’articolazione di quella che Rosa chiamerebbe la dimensione “verticale” della risonanza (quella con il Trascendente), con le due dimensioni “orizzontale” (quella con gli altri) e “diagonale” (quella con le cose)? Si tratta di interrogare quelle forme di devozione prettamente “verticali”, in cui il santo, l’eucaristia o il sacramentale sono realmente solo “segno” e non sostanza di una presenza che ha scelto di donarsi nella carne di questo mondo.

Devozioni che volendo incarnare sembrano proprio produrre l’effetto contrario. Devozioni di cui gran parte dei giovani contemporanei italiani sembrano proprio disinteressarsi, perché raccontano solo un’altra storia, non quella del mondo, non la loro.

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La devozione suppone sempre (e forse abbisogna di) una teologia, come articolazione di pensieri per comprendere e rendere intelligibile la singolarità di Dio. La teologia, facendo eco a A. Gesché, sembra proprio il tentativo di preservare nella lingua del tempo la singolarità “alterante” di Dio: l’altro che “altera” e non “aliena”. Come ragionare allora teologicamente per predisporre (a partire da ciò che c’è) la costruzione di altre strutture di risonanza che possiamo chiamare in questo caso di “devozione”?

Nella storia immaginaria proposta da Salmeri, rispetto a una eventuale “devozione conciliare”, l’autore stesso ha pensato a qualcosa di molto suggestivo, “vibrante”, rintracciabile già dal titolo del libro trovato dalla giovane ragazza: “Gesù, la storia di un vivente”. Momenti come questi forse capitano oggi in tempi di adorazione, o di lettura della Bibbia, così come in incontri e dialogo con amici. Come accompagnarli, come costruire con loro strutture di devozione nuove?

Forse la comprensione del Concilio non ha “risuonato” ancora del tutto, perché la ridondanza di vecchi apparati è ancora forte e rassicurante in un mondo in tempesta. Ma resta viva quella brezza leggera, che attende nuove strutture per far risuonare la novità creatrice dello Spirito. Che attende uomini e donne sensibili e creativi, che con stile sinodale provino a costruire le barche capaci di attraversare questo mare2.

Forse è questa la caratteristica principale di una devozione conciliare, che già possiamo ritrovare viva tra di noi: quella di quegli uomini e quelle donne che sanno anzitutto vivere la costruzione di pensieri e strumenti con la fiducia nel mare di questo mondo, che per quanto in tempesta è abitato dallo Spirito, e non ci tradirà. Per vivere così un cammino di ricerca, insieme, di nuovi linguaggi, di nuove pratiche, tirando fuori cose nuove e cose antiche, facendo sinodo.

I giovani (e gli adulti sembra) cercano “vibrazione”, e forse non la trovano necessariamente in un manuale di teologia, che non incontra la loro domanda, che pure resta pienamente teologica. È un cammino da fare insieme, disarmando le parole. Questa forse è la “devozione” conciliare che è bello rintracciare: una fiducia nel mondo, e nell’altro, luogo sacramentale della Sua presenza. La teologia resta in questo modo una forma di sequela avventurosa e mai finita, che tenta di accogliere e tradurre le intuizioni dei “Pietro” nella linea dell’incarnazione.


1 Mutuo qui l’intuizione di Marcello Neri in https://www.settimananews.it/cultura/francesco-e-le-belle-lettere/.

2 Cf. J. Wolfe, The Theological Imagination: Perception and Interpretation in Life, Art, and Faith, Cambridge University Press, Cambridge, 2024, p. 26.

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5 Commenti

  1. Adriano Bregolin 2 luglio 2025
  2. Antonio Franceschi 30 giugno 2025
  3. Pietro 30 giugno 2025
  4. Angela 30 giugno 2025
  5. Angela 30 giugno 2025

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