Presepe: l’immagine prima del pensiero

di:

presepe1

Seduto su di una panca nella chiesa del monastero delle monache agostiniane, ove la scena è allestita a pochi metri davanti a me[1]: addossata all’altare, che oggi si presenta avvolto in un denso mantello di cielo stellato, l’immagine sembra sorgere dal pavimento e allo stesso tempo planare dalla volta in tutta la sua rotonda semplicità.

Il mio sguardo, come quello di tutti i personaggi del presepe, è portato naturalmente a fissare il suo fulcro, situato dentro la capanna che spunta dalla grotta: una mangiatoia, che tra poche ore accoglierà il corpicino di un neonato. È così, attraverso la comunanza dello sguardo, che, impercettibilmente, io stesso divento un personaggio di quel presepe. L’immagine precede il pensiero.

L’angelo è colto nella sua ripida discesa mentre Lo indica dolcemente; i pastori, i contadini e gli artigiani giungono dalle più diverse direzioni della terra e sembrano insieme stupiti e sollevati mentre Lo guardano esibendo ciascuno il proprio gesto che, tradizionalmente rude, si fa gentile e premuroso; anche il bue, l’asino e il cammello, così come pure gli alberi, i fiori e l’erba, paiono inclinarsi verso di Lui come sospinti da un vento leggero, attratti da una voce profonda e inconfondibile che li chiama a sé; Maria, inginocchiata con le mani giunte sul petto, con accanto Giuseppe, ritto in piedi, sorretto ad un lungo bastone, attorniano deliziati la sporta dal quale viene il pane della vita.

Osservo meglio e mi accorgo che persino le grandi pietre e le travi della capanna, incastrate da una stella, sembrano subire la stessa forza d’attrazione. Io stesso mi sento ora traversato da quella forza irresistibile. È il cielo sta per assaltare la terra: la realtà, il cosmo, la vita, l’universo, tutto si contrae attorno a quel fulcro, cogliendosi immobile nel momento della meraviglia. Tutto è fasciato di silenzio nell’attimo prima dell’esplosione di gioia.

Rovesciamenti

In questo fermoimmagine che il presepe ci permette di contemplare c’è l’inizio di tutti i rovesciamenti, della trasvalutazione di tutti i valori.

Arriva un pensiero: platonicamente bisognava riuscire a fuggire dalla grotta, cioè, rigettare ed evadere dalla nostra stessa vita fatta di carne e di terra e di storia, per contemplare la Luce. L’anima doveva separarsi dal corpo, considerato un ingombrante ostacolo alla conoscenza della luminosa realtà ideale del bene posta al di là della materia, della carne e delle sue rozze idee. Tuttavia, l’uomo antico, il suo ordine supremo, i suoi dei, la sua filosofia e la sua Luce restavano tutti dentro i confini del mondo.

Qui, con il Vangelo, dobbiamo invece immergerci con tutto il corpo negli elementi cosmici e percorrere le vie accidentate della storia, dobbiamo camminare su strade scoscese, arrampicarci lungo i sentieri del possibile e quindi inchinarci, farci piccoli e infine entrare nella grotta per adorare la Luce del mondo, la quale, vuole la verità; non consiste in una bella idea installata nel firmamento come fosse una grossa lanterna, ma emana dal corpo di un bambino posatosi quaggiù.

Eppure, tutto in questa scena, in questo indifeso neonato, allude a un oltre di questo mondo. Quella grotta, con i suoi «odori» e le sue povere suppellettili, decostruisce ogni sicumera della nostra cultura e civiltà. È un invito permanente a bucare i confini del noto e dell’ignoto, e per orientarci abbiamo solo da seguire ciò che è fragile, indifeso, povero, bisognoso, perciò regale. Il Messia viene nel mondo ed è solamente un bambino, ma lo è così perfettamente, nella sua nuda povertà, da essere il «Re dei cieli».

Dietro l’apparente serenità del presepe si intuiscono troni che si rovesciano e cuori superbi che vanno in confusione, perché qui gli ultimi, i piccoli, gli umili, sono i primi ad arrivare. E quelli che poi diffonderanno questa buona notizia sono «that have turnes the world upside down» – «quelli che mettono il mondo sottosopra» -, come suona l’accusa a san Paolo e agli altri discepoli nella versione del NT di King James (Act 17, 6) che diede lo spunto ad un’antica canzone popolare inglese. Ma sottosopra, questa scena, appare solamente a chi da quei troni non vuole cadere.

Contro le aristocrazie

Mentre guardo il presepe penso che oggi, al posto del platonismo, c’è il transumanesimo, il postumano, l’aristocrazia digitale e la gnosi selvaggia. Il Vangelo invece è sempre lui, sempre la stessa Parola che viene ad abitare il mondo, sempre qui a raccontarci la divina Incarnazione. Sempre quel bambino, sempre quell’uomo, sempre quel Signore che annuncerà, guarirà, libererà, suderà sangue, verrà crocifisso, morirà e risorgerà.

Il presepe concede di soffermarmi davanti all’immagine di quel nuovo inizio e, possibilmente, farmi raggiungere da una rivelazione. Il corpo non è una prigione maledetta, bensì la santa abitazione dello spirito. La vita non è una grotta oscura da cui fuggire, ma il soffio di Dio nella carne che mi permette di conoscere e di amare. La salvezza passa per la terra, gli uomini, le donne, il sangue e la storia. Redenti da quel corpo, carne di Dio e di uomo che unendo in sé cielo e terra sussurra «Io-sono». Da quel momento in poi, per vedere un po’ di cielo, sarà sufficiente guardare da quella prospettiva all’uomo e alla donna qualunque che incontro sulla via.

Per andare verso la Luce, allora, devo anch’io ogni volta mettermi in viaggio, impolverarmi, spogliarmi, riconoscere il verso giusto della realtà e divenire solamente quello che sono. Fare spazio, fare vuoto, «fare povertà» e permettere a quel bambino di nascere nella grotta della mia interiorità. Giustamente celebre è infatti il detto di Silesius sempre ricordato in questi giorni: «Mille volte nascesse Cristo a Betlemme ma non in te: sei perduto in eterno»[2].

E penso: un presepe in ogni cuore, migliaia, milioni, una moltitudine di presepi «incuorati», a Calais e a Kiev, a Gaza e a Mosca, a Sao Paolo e a Kinshasa, a Oslo e a Sydney, a Gerusalemme e a Roma, basterebbero a vincere tutto il male del «mondo», di quella terra che vuole restare chiusa su stessa, senza cielo, senza bambino, senza misericordia, perduta.

Sospensioni

Stillstand, che vuol dire in tedesco stato di arresto, stasi, sospensione, interruzione, immobilità, è una delle parole più importanti del vocabolario benjaminiano. Quella che lui chiama «dialettica in stato di arresto», Dialektik im Stillstand, sta al centro della sua filosofia teologica della storia e anzi si potrebbe definirla, con un pizzico d’ironia, il suo «motore immobile».

La storia non è una linea progressiva «omogenea e vuota» ma procede per discontinuità, salti, interruzioni e «risvegli», sostiene Benjamin, e quelle discontinuità possono essere descritte come dei fotogrammi dialettici in cui si concentra un passato che, venendo a contatto con l’attualità, giunge alla sua leggibilità, in tal modo salvandosi e componendo ogni volta una nuova «costellazione» di senso, di vita, di storia: «immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione.

In altre parole: immagine è la dialettica nell’immobilità»[3]. Ma in quell’incontro/scontro di tensioni temporali c’è anche l’occasione, il kairòs che Benjamin chiama «tempo-ora», lo Jetztzeit attraverso il quale l’immagine può improvvisamente significare la redenzione di tutto il passato oppresso nell’esplosione messianica dell’attualità.

Per analogia sonora è facile associare questa parola composta, Stillstand, a quella del canto festivo Stille Nacht, la notte silenziosa, la notte sospesa del Natale del Signore, la notte in cui tutto il nostro parlare e gesticolare non può che interrompersi perché è proprio il Verbo a farsi carne venendo ad abitare in mezzo a noi.

In quella notte in cui le stelle si muovono veloci come a comporre un «canto nuovo», la storia e l’intero universo subiscono un urto che costringe la prima a interrompersi e iniziare a girare in un’altra direzione e il moto dell’universo a fermarsi per un istante, immobilizzato dalla meraviglia. Se ne accorgono tutti che qualcosa sta accadendo. Il Vangelo racconta infatti come non solo Erode, come dire “il potere”, ma tutta Gerusalemme, che è come dire “la civiltà”, ne sia turbata (Mt 2, 3).

La sospensione di cui testimonia l’immagine dialettica fa parte di un lessico salvifico, messianico nelle intenzioni di Benjamin. Il presepe, mi rendo improvvisamente conto, ne è una sua perfetta rappresentazione e possiamo ritrovarla fissata in uno splendido passaggio del protovangelo di Giacomo, che fotografa plasticamente giusto l’istante prima della nascita di Gesù:

Io, Giuseppe, camminavo e non camminavo. Guardai nell’aria e vidi l’aria colpita da stupore; guardai verso la volta del cielo e la vidi ferma, e immobili gli uccelli del cielo; guardai sulla terra e vidi un vaso giacente e degli operai coricati con le mani nel vaso: ma quelli che masticavano non masticavano, quelli che prendevano su il cibo non l’alzavano dal vaso, quelli che lo stavano portandolo alla bocca non lo portavano; i visi di tutti erano rivolti a guardare in alto. Ecco delle pecore spinte innanzi che invece stavano ferme: il pastore alzò la mano per percuoterle, ma la sua mano restò per aria. Guardai la corrente del fiume e vidi le bocche dei capretti poggiate sull’acqua, ma non bevevano. Poi, in un istante, tutte le cose ripresero il loro corso[4].

Generazione

La nascita di Gesù è un’interruzione cosmica e una sospensione del continuum temporale, quindi il risveglio dell’intera creazione, un nuovo suo inizio, il compimento redentivo di tutta la storia precedente e l’inizio del suo nuovo corso. La creazione tutta che «geme e soffre le doglie del parto» (Rm, 8, 22), per un attimo, trattiene il respiro.

Il Dio biblico agisce nel mondo attraverso cause seconde, cioè attraverso la storia e la natura. La sua non è una creazione che si è conclusa una volta e per tutte ma continua sempre, ogni giorno, ogni attimo e alla quale gli uomini sono chiamati a collaborare. E penso che sia anche questo che Walter Benjamin volesse dirci con la sua «dialettica in stato arresto», perché nel cogliere l’intensità di quell’attimo di saturazione storica, in cui tutto appare immobile, si potesse contemplare, penetrare, conoscere e partecipare intimamente al farsi dell’eterno nella storia, alle generazioni della natura e a quella di Dio, alla stessa dinamica della creazione. Alla stessa nascita di Cristo qui e ora.

I ricordi dell’umanità sono redenti nell’adesso dell’attualità, la quale spinge verso la pienezza escatologica. Benjamin diceva: «L’adesso della conoscibilità è l’istante del risveglio». È l’adesso della verità. Il risveglio, che segue l’interruzione, è il gesto che serve a vincere le potenze oscure del mito che sono sempre presenti nelle fantasmagorie che incantano l’umanità, mantenendola in uno stato di narcosi. Il passato viene così trasfigurato nell’adesso della conoscenza: risuscitato nella verità.

Se avessimo la capacità di cogliere e meditare le interruzioni, le sospensioni e i silenzi che accadono nella nostra vita e il coraggio di preparare un presepe nel cuore, credo comincerebbe tutto a girare diversamente. Purtroppo, la maggior parte delle volte siamo così distratti che se una cometa ci apparisse davanti non ci faremmo gran caso e, se mai ce ne accorgessimo, invece di seguirla ci metteremmo probabilmente a sbirciare dallo schermo del telefono per vedere cosa se ne dice sui social. Per questo la Luce deve penetrare la carne, l’interruzione accadere dentro di sé, la sospensione nella vita.

Un giovane filosofo francese, Foucauld Giuliani, illustra efficacemente il fatto che questa sospensione sia esattamente ciò che domanda il venire a contatto con il contenuto della fede: «L’obiettivo di ogni trasmissione cristiana potrebbe enunciarsi in questa maniera: non quello di razionalizzare il Vangelo, ma di condurre il neofita alla soglia della follia, essendo inteso che quest’ultima non significa un disordine del pensiero ma la sospensione della ragione»[5]. È in questa sospensione che si denota la metànoia, la conversione, quando la vita si mette improvvisamente a girare in un altro senso e, risvegliandosi, sa che niente sarà più come prima. Qui, adesso, davanti al presepe, sulla soglia della follia d’amore.


[1] Si tratta del Monastero dei Santi Quattro Coronati in Roma.

[2] Angelus Silesius, Il pellegrino cherubico, Edizioni Paoline, Milano 1992, p.118.

[3] Walter Benjamin, Opere complete IX. I «passages» di Parigi, Einaudi, Torino 2000, p.516 [N28, 3].

[4] Apocrifi del Nuovo Testamento, a cura di Luigi Moraldi, vol.I, Utet, Torino 1971, p.83

[5] Foucauld Giuliani, La vie dessaisie. La foi comme abandon plutôt que la maîtrise, Desclée de Brower, Paris 2022, p.70.

Print Friendly, PDF & Email

Lascia un commento

Questo sito fa uso di cookies tecnici ed analitici, non di profilazione. Clicca per leggere l'informativa completa.

Questo sito utilizza esclusivamente cookie tecnici ed analitici con mascheratura dell'indirizzo IP del navigatore. L'utilizzo dei cookie è funzionale al fine di permettere i funzionamenti e fonire migliore esperienza di navigazione all'utente, garantendone la privacy. Non sono predisposti sul presente sito cookies di profilazione, nè di prima, né di terza parte. In ottemperanza del Regolamento Europeo 679/2016, altrimenti General Data Protection Regulation (GDPR), nonché delle disposizioni previste dal d. lgs. 196/2003 novellato dal d.lgs 101/2018, altrimenti "Codice privacy", con specifico riferimento all'articolo 122 del medesimo, citando poi il provvedimento dell'authority di garanzia, altrimenti autorità "Garante per la protezione dei dati personali", la quale con il pronunciamento "Linee guida cookie e altri strumenti di tracciamento del 10 giugno 2021 [9677876]" , specifica ulteriormente le modalità, i diritti degli interessati, i doveri dei titolari del trattamento e le best practice in materia, cliccando su "Accetto", in modo del tutto libero e consapevole, si perviene a conoscenza del fatto che su questo sito web è fatto utilizzo di cookie tecnici, strettamente necessari al funzionamento tecnico del sito, e di i cookie analytics, con mascharatura dell'indirizzo IP. Vedasi il succitato provvedimento al 7.2. I cookies hanno, come previsto per legge, una durata di permanenza sui dispositivi dei navigatori di 6 mesi, terminati i quali verrà reiterata segnalazione di utilizzo e richiesta di accettazione. Non sono previsti cookie wall, accettazioni con scrolling o altre modalità considerabili non corrette e non trasparenti.

Ho preso visione ed accetto