
Il problema riguarda tutti gli Istituti religiosi, proprietari di immobili non più in uso per la chiusura dei seminari, la riduzione numerica, l’onerosità delle ristrutturazioni, i vincoli di carattere architettonico o monumentale… L’origine di questi immobili è stata possibile per la “beneficienza” dei poveri, ma le ipotesi di alienazione o cambio di uso, pur necessarie, seguono spesso la logica del profitto e non della “restituzione”. Spesso, ma non sempre.
La solidarietà individuale è stata spesso molto generosa, anche se poteva permettersela chi possedeva qualcosa di più, aderendo alla “tradizionale” beneficienza, fatta con l’evangelico “superfluo”, o rispondendo alle decine di bollettini e rivistine che propongono ancora collette a favore di missioni o progetti vari.
Anche gli Istituti religiosi sono capaci di qualche scelta significativa per queste finalità: il Capitolo provinciale del nostro Istituto, ad esempio, ha deciso lo smobilizzo del “Fondo Borse di studio”, ormai insufficiente a creare utili da distribuire, e il trasferimento progressivo delle disponibilità alle Provincie religiose dove ancora ci sono percorsi di formazione alla vita sacerdotale e religiosa.
La solidarietà a livello ecclesiale si trova però in affanno quando si tratta di ripensare spazi e immobili di proprietà, non solo in vista di una maggiore redditività, ma soprattutto in vista di un’attenzione alle nuove esigenze ecclesiali e sociali.
In uno dei documenti operativi dell’ultimo Capitolo provinciale del nostro Istituto, che ha il titolo coraggioso di “Programma esecutivo”, si legge: «Chiudere una struttura non significa chiudere una comunità, che può trovare altro luogo e modo, più sostenibile, per proseguire, possibilmente in strutture non di proprietà. L’obiettivo resta anche legato all’ascolto delle nuove povertà per le quali si possono convertire le finalità della casa». E, in altra pagina: «Destiniamo le risorse rese disponibili dalla vendita delle strutture, ove possibile, anche al finanziamento di nuovi progetti». Dichiarazioni di principio che, quando si passa alla fase operativa, vengono soffocate da motivi affettivi e prudenziali e, spesso, dalla mentalità che sostiene la necessità della conservazione del patrimonio ecclesiastico.
Ma come convertire? La domanda del titolo è una delle domande che mi ha accompagnato nei nove anni del mio servizio in campo amministrativo. La maggior parte del patrimonio ecclesiastico (almeno quello del nostro Istituto religioso) è frutto di donazioni fatte da piccoli benefattori.
Charles de Montesquieu scriveva che «è assai sorprendente che le ricchezze degli uomini di Chiesa si siano originate dal principio di povertà». E così, in un recente incontro, dicevo che «noi abbiamo trasformato in proprietà istituzionale i beni che altri, quelli che chiamiamo benefattori – somiglianti più alla povera vedova del Vangelo che al ricco Epulone – ci hanno affidato come dono togliendolo alle loro disponibilità».
E ponevo questa domanda: dove gli immobili non servono più per gli scopi di formazione e/o di carità per i quali erano stati edificati, non sarebbe oggi profetico ripensarli come dono, più che come fonte di reddito o di accumulo? Nelle nostre città ci sono sempre meno posti letto per i poveri, per le famiglie bisognose, per gli universitari o i lavoratori in trasferta…, perché gli appartamenti e le stanze sono trasformate in B&B, più remunerativi economicamente e meno vincolanti contrattualmente. «Non sarebbe profeticamente possibile sostenere una politica degli affitti per le categorie sopra citate che non sia speculativa, o “convertirli” per incontrare non solo i bisogni ma anche le persone?».
In molti casi, gli immobili dei nostri Istituti religiosi sono stati trasformati in Case per ferie, qualche volta in strutture di accoglienza semi-alberghiera, altre volte in strutture di accoglienza di profughi e richiedenti asilo, altre ancora, soprattutto se vicini ai grossi complessi ospedalieri, per parenti di degenti provenienti da altre regioni.
In questi ultimi anni è diventato un problema sempre più esteso quello della disponibilità di alloggi per studenti universitari. Nei mesi scorsi, le tende davanti agli atenei italiani sono diventate il simbolo di una protesta generazionale.
Solo a Roma, sono circa 44mila gli studenti fuori sede a fronte di 2.800 posti letto disponibili negli alloggi universitari di tutto il Lazio.
E, sul mercato degli appartamenti, ci sono ormai prezzi esorbitanti per pochi metri quadri… Ho testimonianze dirette di nipoti a Firenze, Bolzano e Modena, di giovani nelle nostre parrocchie di Milano, Bologna, Padova Trento, di figli di amici a Roma, Torino: geografia di un problema per il quale non sembra ci sia attenzione e programmazione, neanche a livello politico e amministrativo.
Questa forte emergenza attrae, tra l’altro, gli investitori immobiliari che fiutano l’affare. È in fase di realizzazione un grosso investimento su Bologna di Ardian e Rockfield, che si inserisce nella strategia «di focalizzarsi sulle maggiori città universitarie» del continente.
… In tale contesto noi cristiani dove siamo?
Daniele Rocchetti, in un articolo recente, parlando del «… totem idolatrico dell’individualismo esasperato che porta all’abolizione di ogni obbligazione sociale», poneva una domanda: «… In questo contesto noi cristiani dove siamo? Abbiamo parole da dire, azioni da proporre? “Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca”» (Ap 3,15-16) (Daniele Rocchetti in La barca e il mare 06/03/25 qui).
Faccio mia la domanda di Rocchetti, con riferimento esplicito all’emergenza che riguarda la popolazione universitaria. Quale posto hanno in questa difficoltà abitativa e di alloggi accessibili le numerose proprietà ecclesiastiche spesso vuote, come ex seminari, conventi, canoniche di parrocchie senza prete? Quale programmazione c’è nelle diocesi o negli Istituti religiosi per ovviare allo scandalo di vedere gli immobili di proprietà nelle liste di quelli vuoti? Quale riflessione c’è rispetto alla restituzione per beneficienza di quanto ricevuto dalla beneficienza?
Conosco la difficoltà di riconvertire un immobile per i vincoli urbanistici, per i vincoli delle Sovrintendenze, per l’ubicazione di molte strutture (molte delle ex colonie o ville estive dei seminari!). So, per esperienza, quali sono i costi di gestione e di manutenzione, che ci sono anche quando gli immobili sono vuoti, so quali sono gli oneri fiscali… So tutto questo, e l’ho relazionato nei bilanci annuali e nei Capitoli provinciali… So, ma «… In questo contesto noi cristiani dove siamo? Abbiamo parole da dire, azioni da proporre?».
Ci sono, in effetti, alcune esperienze dove un appartamento o la stessa casa canonica sono stati messi a disposizione per progetti di accoglienza più completi della semplice fornitura di un letto e di una coperta. Ne ho parlato con gli animatori di due di queste esperienze, che sono sicuramente segno di altre già esistenti, o segni di speranza per chi si sta ponendo la domanda su come e che cosa fare.
A Trento e a Modena
– Padre Antonio, la vostra esperienza si trova a Trento, vicino al polo universitario di Povo-Mesiano. È nata dall’esigenza di mettere a reddito la canonica ormai vuota?
Se lo scopo è quello di fare reddito e basta, non ha alcun senso fare ospitalità a studenti universitari nelle strutture ecclesiastiche. Ci deve essere un progetto che preveda il coinvolgimento di qualcuno che lo coordini. Il valore educativo dell’esperienza comunitaria è straordinario quando si creano davvero le condizioni perché sia tale.
– Raccontami gli aspetti più importanti della vostra esperienza.
Il progetto viene articolato tenendo conto delle persone che lo condividono e degli apporti di coloro che si aggiungono di anno in anno. È aperto sia a ragazzi che a ragazze. Si chiede un’adesione al progetto di due o tre anni, secondo il tipo di percorso di studi che si sta affrontando (triennale o magistrale ecc.).
Le cose che si chiedono in partenza sono: disponibilità al dialogo su temi di fede, il desiderio di sperimentarsi in un’esperienza di servizio continuativo durante l’anno (case di riposo, carcere, servizio agli stranieri richiedenti asilo, animazione gruppi adolescenti), la disponibilità a tenersi libera una sera alla settimana per un incontro comunitario.
Questo incontro, con la presenza di chi coordina il progetto, ha lo scopo di verificare l’andamento dell’esperienza, ma anche di creare percorsi di approfondimento su varie tematiche: ad esempio, quest’anno stiamo toccando il tema della narrazione di sé e dei propri vissuti in relazione al cammino di fede.
I ragazzi hanno scelto di vivere e di animare un momento di lectio settimanale sul vangelo della domenica successiva. Periodicamente è previsto un incontro personale con ciascuno. A inizio anno è prevista una due-giorni insieme in qualche realtà comunitaria per favorire l’inserimento dei nuovi, ma anche per riprendere in mano gli aspetti fondamentali della vita comune. Durante l’anno, si organizzano uscite insieme di una giornata, si partecipa alle iniziative diocesane per giovani e universitari.
– Padre Marco, tu sei a Modena. Quali le affinità e le diversità rispetto all’esperienza di Trento (si veda anche qui)?
La situazione nostra è simile e diversa da quella che ti ha descritto Antonio. Noi qui, adiacenti alla nostra comunità, abbiamo due realtà comunitarie di studenti: una maschile, l’altra femminile. La scelta è stata forzata dalla direzione della pastorale integrata: sono progetti in qualche modo moralmente patrocinati dalla diocesi, ma per farlo abbiamo dovuto non farle miste.
La comunità maschile è formata da quattro studenti universitari che vivono condividendo tempi e modalità che costruiscono un clima comunitario (cassa comune, pasti insieme), rispetto a un appartamento universitario qualunque. In realtà, però, si sono dimostrati poco interessati a incontri di formazione o a momenti di preghiera. Abbiamo valutato che ci sta e che il nostro servizio, per andare incontro all’emergenza alloggi a Modena, è comunque utile. Stiamo riflettendo se fare una selezione più accurata dei candidati. Magari prendendo spunto dalle ragazze.
La comunità femminile, infatti, è molto più “tosta”. Provengono tutte dai dintorni di Modena. Qui l’obiettivo è di fornire spazi di autonomia e di sperimentazione di vita comunitaria. Le abbiamo accompagnate nella stesura di una (blanda) regola di vita, con momenti di preghiera, di incontro con la nostra comunità, e abbiamo già fatto qualche cena insieme. Solo una è studentessa, le altre sono appena laureate e fanno supplenze. La fase dell’ingresso nel mondo del lavoro si accompagna alla graduale presa di distanza della famiglia d’origine, il che comporta non poche difficoltà nei giovani d’oggi. Questo spazio vuole essere un servizio costruttivo per vivere il momento.
– Padre Antonio, quali sono gli aspetti positivi che avete avuto modo di verificare?
Uno dei frutti più interessanti è vedere i ragazzi crescere nella responsabilità, aiutandosi e motivandosi nei propri cammini di studio e di ricerca personale. Gestire una struttura e i vari servizi domestici è formativo di per sé, se aiutati a tenerne conto.
Altro aspetto interessante, soprattutto qui, dove i ragazzi sono ospitati nella canonica, è vedere come, nel tempo, è cresciuta l’interazione con le comunità parrocchiali: testimonianze e incontri, ma soprattutto la richiesta nata da loro di poter dare una mano nell’animazione dei gruppi degli adolescenti delle parrocchie. Anche chi, negli anni passati, ha fatto più fatica a inserirsi nel progetto ha testimoniato la bellezza di una possibilità come questa.
Rimane fondamentale l’accompagnamento discreto ma costante, capace di far emergere le criticità, ma anche di far intravedere le possibilità che si sviluppano nelle difficoltà. La presenza di uno o più adulti che accompagnano è uno stimolo fondamentale a dare conto a qualcuno del cammino, anche di studio, che si sta svolgendo.
–E l’aspetto economico?
L’aspetto economico, nell’esperienza di Trento, mira a garantire la copertura delle spese e il mantenimento della struttura, permettendo soprattutto alle parrocchie, oggi spesso in difficoltà, un’entrata costante. Ma non può essere questo il criterio fondamentale, anche perché la quota che chiediamo a posto letto è ben al di sotto del valore di mercato. Sarebbe ingiusto non tenere conto di tutto quello che i ragazzi mettono nell’esperienza.
Qui a Modena – dice padre Marco – pagano le utenze (che controlliamo qualche volte durante l’anno) moltiplicate per due. Questo “di più” finisce in un “fondo virtuale” il cui utilizzo è per lavori di manutenzione semi-straordinaria. Abbiamo pensato questa cosa per dare sostenibilità e futuro al progetto.
Negli ultimi due bilanci della comunità religiosa rileviamo che la sostenibilità sta funzionando. E, comunque, gli studenti pagano meno della metà di quello che pagherebbero per una stanza in un appartamento universitario in centro.
Due esperienze fra tante altre, che possono essere una seppur parziale risposta alla domanda: «… In questo contesto noi cristiani dove siamo? Abbiamo parole da dire, azioni da proporre?»… Due piccoli segni di speranza per un uso più evangelico e profetico del patrimonio ecclesiastico.






Trovo molto interessante l’ interrogativo sull’uso dei beni, anche immobili, quando si rende necessario il loro cambio d’uso.
Sono un’ anziana, ancora vitale, e sensibile al tema del cohousing per la terza età, in forma, per così dire mista (varie generazioni condividono uno spazio abitativo) o per aggregazione anagrafica. È indiscusso ormai il dato relativo all’ invecchiamento della popolazione e si afferma la necessità di individuare forme nuove di servizi, forse la disponibilità/necessità di rivedere l’uso di beni immobili potrebbe favorire un confronto anche fattivo.
Mi domando se non ci sia bisogno in questi tempi di amministratori saggi come nel Vangelo e di tanta fiducia nella Provvidenza.
Se a me fosse dato il governo dell’ amministrazione delle sostanze della Santa Madre Chiesa, intanto mi chiederei come sia potuto accadere che l’obolo di San Pietro sia stato distolto dalle sue funzioni per operazioni finanziarie immobiliari che hanno creato buchi economici non indifferenti e insinuato dubbi sulla bontà delle destinazioni di carità.
Mi intertogherei sui bilanci delle diocesi e delle parrocchie dove le entrate non sono regolarmente registrate e il superfluo redistribuito alle comunità più povere.
Mi interrogherei sui milioni se non miliardi di dollari pagati alle vittime di abusi sessuali che hanno mandato sul lastrico intere diocesi americane.
Di quelle europee si conosce poco.
Qualcuno potrebbe obiettare che le mie argomentazioni non siano pertinenti.
Ma in una visione profetica di fraternità autentica e vissuta, se una mano desse all’ altra, situazioni paradossali come quelle degli immobili per i quali mancano quattrini per la manutenzione forse non si porrebbero.
E alla fine di tutto questo giro si lascino in pace le comunità fiorenti da visite ispettive di dicasteri che operano ideologicamente per distruggere( si legga da ultimo su Silere non possum).
E alla fine di tutto facendo proprie le parole del Maestro che il denaro è un ottimo servo e un pessimo padrone si abbia anche il coraggio di restituire gratuitamente a chi non ha quanto si è ricevuto in elemosina.
Renato: grazie per le coraggiose considerazioni utili per promuovere visione diverse dei capitali attuali. Forse sarebbero opportuno anche prendere atto dei tradimenti storici che hanno costruito capitali tuttora in atto e non coerenti con le donazioni. Ottimo promuovere esperienze nuove secondo criteri coerenti con i bisogni che cambiano. Chi ha il compito di gestire questi capitali dovrebbe però uscire dalle proprie comodità e vivere dal di dentro la fatica dell’essere sempre ultimi. Si chiama condivisione.