La prima monografia del 2025 della rivista Presbyteri – che si presenta in una rinnovata veste grafica – si interroga sulla funzione di «presidenza» della comunità: «essa spetta al presbitero, ma avviene con il concorso di tutti, perché anche i laici, donne e uomini, possano esercitare la loro responsabilità, differenziata in base alla identità sacramentale e al mandato pastorale ricevuto. Perché ciò si realizzi, c’è bisogno di chiarezza sul ruolo del presbitero, ma anche di processi di discernimento comunitario e percorsi umani e relazionali che portino a superare reciproche paure e diffidenze per mettersi tutti a servizio del Vangelo e della missione». Riprendiamo l’editoriale del numero 1/2025 firmato da don Nico Dal Molin.
Ai primi di dicembre di ogni anno è pubblicato il Rapporto sociologico del Censis, giunto alla sua 58° edizione, che legge e interpreta i più significativi fenomeni socio-economici e culturali del nostro Paese e dei nostri stessi stili di vita. Rimango sempre stupito di fronte agli slogan e alle immagini con cui i sociologi, discepoli del fondatore Giuseppe De Rita, riescono a creare un identikit puntuale e anche un po’ inquietante di ciò che ciascuno di noi sta vivendo, talvolta senza averne una reale consapevolezza. Scrive Antonio Polito, editorialista del Corriere della sera:
Intendiamoci, nessuna profezia di sventura. Il Censis fa il suo mestiere e ci racconta l’Italia come farebbe un pittore impressionista: per come la vede. «Società del rancore», «sovranismo psichico», «furore di vivere», «ruota quadrata», «società irrazionale», «Italia malinconica», «un paese di sonnambuli»: sono solo alcune delle metafore dei rapporti di questi ultimi anni che si sono succedute e talvolta accavallate (…). Eppure siamo ancora qua a confermare il paradosso del calabrone, che così pesante e con ali così piccole non dovrebbe volare, eppure vola[1].
La conclusione a cui giunge Polito è semplice ed è estendibile anche al contesto di vita ecclesiale: abbiamo tutti bisogno di uno scatto di volontà per tornare a camminare insieme, unendo energie e risorse. E abbiamo bisogno di una leadership che promuova questo con convinzione e con dedizione.
Quasi certamente la prospettiva che l’editorialista propone troverà tante, forse troppe resistenze nell’ambito sociale, economico e politico della nostra complessa realtà nazionale. Ma questa stessa proposta vale anche per il cammino ecclesiale in cui siamo impegnati. Che cos’è la sinodalità se non questo? Un mettere insieme idee, energie, risorse e, soprattutto, voglia di condividerle. Credendo possibile e creando le condizioni per una leadership ministeriale (o una «presidenza», come suggerisce il tema della monografia) che promuova i processi di condivisione, anziché frenarli; che cerchi la collaborazione di tanti anziché avvalersi dei pochi e soliti «volti noti» che vivono di compiacenza; che impari a cercare, a valorizzare idee e persone oltre lo stretto perimetro degli ambiti conosciuti e frequentati.
Diversità e unità
«Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune» (1Cor 12,4-7).
Conosciamo bene questo testo di Paolo. Egli scrive ad una comunità, quella di Corinto, che è stata motivo di parecchi momenti di sofferenza, di lacrime, di insegnamenti a più riprese, ma che è anche una comunità vivace ed entusiasta dei doni dello Spirito.
Doni che sono ripartiti e distribuiti, non accentrati solo in pochi o in uno soltanto. Ci suggeriscono gli esegeti che il termine comunemente tradotto con «diversità», letteralmente significa «ripartizione», «suddivisione», e appare solo in questo contesto nel Nuovo Testamento.
Lo stesso verbo «ripartire» compare solamente nella parabola del Padre misericordioso, il quale «ripartisce», cioè divide i beni tra i suoi due figli: «Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze» (Lc 15,12). Una espressione che evoca l’idea di una ricchezza che non appartiene al destinatario, ma a colui che la dona; ed è una ricchezza distribuita fra diverse persone, anzi, fra «tutti» (v. 6b). I vari carismi sono ricchezze che provengono da Dio stesso, come i talenti che non sono da sotterrare ma da far fruttare (cf. Mt 25,14-30).
Paolo parla di «carismi, servizi e attività». Per essere vissuti secondo l’intenzione dello Spirito, questi doni debbono misurarsi con l’utilità del bene comune e tradursi in impegni, in servizi concreti che implicano il coinvolgimento delle nostre forze, poche o tante che siano.
Con un promemoria ben fisso nel cuore: è Dio che «opera tutto in tutti» (v. 6b). Non ci può essere posto né per l’orgoglio personale né per alcuna forma di autoreferenzialità, come Paolo afferma nella stessa lettera: «Chi dunque ti dà questo privilegio? Che cosa possiedi che tu non l’abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come se non l’avessi ricevuto?» (1Cor 4,7).
Lo esprime bene, con il suo immancabile tocco di leggerezza, Christian Bobin: «Vedere, sentire, amare. La vita è un pacco dono di cui sciolgo i nastri ogni mattina al risveglio»[2].
L’importanza del «Noi»
C’è un dipinto che descrive bene il disagio e il desiderio profondo dell’uomo d’oggi: è L’Urlo (Skrik) di Munch. Edvard Munch realizza questo dipinto dopo una passeggiata sulla collina di Ekeberg, a pochi minuti dal centro di Oslo[3].
È l’urlo che squarcia tutto il Novecento, è il grido che si leva forte anche oggi nella nostra società sempre più in balia di una drammatica e talvolta patologica solitudine del vivere. Una condizione esasperata dai nuovi «media» che ci offrono opportunità meravigliose ma che ci illudono di essere più connessi, quando in realtà siamo sempre meno in relazione con gli altri.
La solitudine attuale non è di tipo esistenziale, perché essa è fortemente una solitudine relazionale. I legami sono andati progressivamente frantumandosi sotto i colpi dell’individualismo diffuso e di un concetto di libertà individuale che ha reso sempre più problematici tutti i legami, in particolare quelli primari e familiari. Quando i legami diventano incerti, instabili e reversibili, ciascuno di noi diviene estremamente fragile. I social network possono dare l’illusione di poter esorcizzare la solitudine interagendo con più individui contemporaneamente, ma il grande rischio è quello di disabituare le persone a vivere relazioni personali, stabili, vive, umanizzanti[4].
La filosofa Giorgia Salatiello, nel descrivere alcune di queste dinamiche, prende lo spunto da una citazione di Joseph de Finance: «Qui non si tratta più tanto di vivere l’uno per l’altro quanto di vivere l’uno e l’altro per il Noi»[5].
Che cos’è questo «Noi» nel quale si può individuare l’essenza stessa dei legami umani e della stessa esperienza ecclesiale? La prospettiva suggerita è di imparare a cogliere il «Noi» come superamento dei tanti individualismi ed egoismi diffusi. È una questione di «sguardi», un modo nuovo di vivere la relazione personale e comunitaria: non ci si guarda più soltanto l’uno verso l’altro ma, insieme, si cerca di costruire un «Noi» che dà un orizzonte diverso e un inatteso valore alla singola persona e ad ogni altra relazione umana.
Scrive la prof.ssa Salatiello: «Nel “Noi” di una esperienza di comunità cristiana, come pure nella stessa realtà della famiglia, ogni alterità va rispettata e non può essere fagocitata in un vano tentativo di simbiosi che priverebbe ciascun soggetto della sua irripetibile peculiarità»[6].
Come nella famiglia, così anche nell’esperienza comunitaria le differenze permangono e sono quelle che conferiscono ricchezza e fecondità ad un cammino comune.
La gioia della comunione-condivisione
Si fa ancora molta festa quando i nostri ragazzi vivono il momento della «prima Comunione» e dei vari passaggi sacramentali della iniziazione cristiana; ed è bello e giusto che sia così. Credo, però, che si dovrebbe fare molta festa per ogni gesto di condivisione, di servizio, di solidarietà, di carità che viene fatto. E sono molti di più di quelli che si possono immaginare. Sono gesti che, in gran parte, non compaiono nelle pagine dei giornali o nelle news dei telegiornali, a meno che non si concludano in tragedia, come spesso capita con testimoni impegnati a portare un segno di speranza nelle terre più martoriate del nostro pianeta. Allora la gente si accorge che c’è qualcuno capace di fare comunione, di vivere non a parole ma con i fatti la condivisione.
Ho già avuto modo di ricordarlo qualche anno fa, proprio sulle pagine di Presbyteri: non potrò mai dimenticare il mio primo incontro con la comunità di Taizé[7]. Era il lunedì dell’Angelo della settimana in albis. Assieme ad un gruppo di seminaristi eravamo arrivati alla comunità di Taizé e siamo entrati nella «Église de la Réconciliation» nel momento della preghiera serale. Davanti a noi c’era una folla di giovani che insieme pregavano, cantavano e vivevano lunghe pause di silenzio. Dopo tutti i riti solenni della Settimana santa eravamo incantanti dalla semplicità di quel modo di pregare, di leggere e ascoltare la Parola di Dio che si alternava con le melodie dei canoni che ti coinvolgevano tutto, dal di dentro. Ricordo, in particolare, come si siano impresse nella mente e nel cuore due parole che frère Roger Schutz, fondatore della Comunità, ripeteva incessantemente nelle preghiere, nelle riflessioni, nelle testimonianze: rèconcilier e partager: riconciliarsi e condividere.
Da quel momento ho capito come questo sia il segreto di un «Noi» in cui, camminando insieme, tutti si sentano corresponsabili della vita e della missione dell’essere chiesa. Sarà solo un’utopia o un sogno che si può realizzare? In un messaggio di saluto alla comunità del SERMIG di Torino, così scrive frère Roger:
«Se tu osassi vivere gesti concreti di perdono, di condivisione, di pace e di riconciliazione, quale festa potrebbe essere questa per gli uomini e le donne che, con te, avessero l’audacia di confidare in Cristo, talvolta anche senza comprendere niente di più di ciò che comprende un bambino»[8].
[1] A. Polito, Noi, la medietà e un Paese che galleggia, in Corriere della sera, 7 dicembre 2024.
[2] Christian Bobin (1951-2022) è stato uno scrittore e poeta francese, vincitore del premio Prix des Deux Magots nel 1993 e del premio Prix de l’Académie Française nel 2016.
[3] Di questo quadro esistono quattro versioni, tutte dipinte da Munch tra il 1893 ed il 1910; la più famosa è quella conservata alla Nasjonalgalleriet di Oslo.
[4] È illuminante il testo di Mario Salisci, docente di Sociologia dei processi culturali all’università LUMSA di Roma: Fragili. La costruzione dell’identità nella società liquida, Franco Angeli, Milano 2018.
[5] J. de Finance, A tu per tu con l’altro. Saggio sull’alterità, traduzione a cura di B. Alberti, Pontificia Università Gregoriana, Roma 2004.
[6] Cf. G. Salatiello, L’importanza del Noi, in Osservatore Romano, 2 aprile 2022.
[7] Cf. Presbyteri 2020/1, Editoriale, Migranti, uno dei volti di Cristo oggi.
[8] Frère Roger Schutz, priore di Taizé, lettera al SERMIG di Torino, 7 febbraio 1976.
La lettera agli ebrei è molto chiara. Nel NT l’ unico sacerdote è Cristo che esercita la sua offerta al Padre, essendo a un tempo sacerdote e vittima. I suoi discepoli nell’ eucarestia sono con – celebranti offrendo se stessi al Padre insieme a Gesù. Punto.
Poi ci sono nella comunità cristiana vari carismi ( vedi I Cor) tra cui quello di presiedere. Dalle Scritture non si può dedurre nulla di più. Scaravoltiamo il problema. È la comunità dei credenti in Gesù che annuncia e celebra. Così termina la piaga grande del clericalismo
Finchè si rimane ingabbiati dentro il paradigma clericalista (cioè la divisione in due stati di vita con i ministeri clericalizzati da una parte ed i laici dediti alla realtà temporali dall’altra) non si riuscirà a superare l’attuale fase di transizione e l’auspicata riflessione sul presbiterato non potrà contribuire ad una profonda riforma della chiesa. Occorre assumere un nuovo paradigma: la laicità come dimensione costitutiva dell’intera comunità ecclesiale. Solo in tal modo gli abusi del clericalismo potranno essere debellati.
Ho trovato Dio nelle pozzanghere d’acqua,
nel profumo del caprifoglio,
nella purezza di certi libri e persino in certi atei.
Non l’ho quasi mai trovato presso coloro il cui mestiere consiste nel parlarne.
Christian Bobin, autore citato nella nota 2
..a volte basterebbe smettere di “presiedere” e stare in silenzio