II Per annum: I primi seguaci di Gesù

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Il Battesimo di Gesù fa da cerniera tra la conclusione del periodo natalizio e il principio di quello che si chiama “Tempo ordinario”, da intendere come l’interim, il frattempo, che segnala lo scorrere quotidiano della vita, quella che precede o segue i grandi eventi che ne marcano i momenti chiave. È naturale che le caratteristiche dell’evento-cerniera finiscano per riverberarsi sulla maniera di vivere il trascorrere dei giorni che ci sono donati. Ecco la ragione per cui si inizia con il tema della “vocazione”, che, dopo quella di Gesù, diventa la nostra, a somiglianza della sua e con lui come guida.

Sbaglierò, ma non ho l’impressione che, di questi tempi, concepire la vita come vocazione, con il conseguente senso di responsabilità che ne deriva, costituisca una mentalità diffusa nelle fasce di età, adolescenza e giovinezza, che ne dovrebbero essere soprattutto segnate. Il termine non compare spesso nel linguaggio comune, e il riflesso più corrente è ciò che fa dire alle persone: “la vita è mia e ne faccio quello che voglio”, mentre il discorso corretto dovrebbe essere: “la vita mi è stata donata, e dovrò rendere conto di come l’avrò spesa”.

Tale rendiconto riguarda dapprima certamente Dio, ma vale anche per chi si dice non credente, anche solo per quello che dovrebbe essere un naturale senso di responsabilità rispetto a tutto ciò che dalla nascita uno ha ricevuto, e a tutti quelli che l’hanno aiutato a crescere.

Due sono perciò i temi che dominano la liturgia odierna: il primo è la chiamata, o vocazione che dir si voglia, che sta alla base della vita, la quale è già essa una “chiamata”; il secondo è la figura di Gesù che si propone come guida per orientare, educare e sostenere le risposte alle varie vocazioni.

Chi è che chiama?

Il racconto della chiamata di Samuele (1Sam 3,3b-10.19) è una pagina eccezionale, sia per vivacità narrativa sia per verità psicologica e contenuto sapienziale, il che ne fa un brano obbligatorio per ogni catechesi sulla vocazione rivolta ai preadolescenti e oltre.

La prima cosa che si nota nel brano proposto è la ripetizione dell’appello. Nelle numerose storie di vocazione che possiamo leggere o ascoltare, se pur troviamo quell’intuizione improvvisa che chiamiamo “colpo di fulmine”, e più rapidamente “conversione”, mi sembra più frequente il caso di percezioni o sensazioni ripetute, di un bisogno che rinasce ostinatamente, segnato da rifiuti e rimandi dovuti al fatto che non si capisce bene se sia l’illusione di un momento, che va e viene, o se invece siano segnali che rivelano un bisogno al quale non si può alla fine dire di no. Il caso di Samuele parla di un appello percepito “tre volte”, espressione ben nota che nella Bibbia equivale press’a poco a “più volte”, senza che sia specificato quante.

Samuele si trova già in un luogo, «il tempio del Signore, dove si trovava l’arca di Dio», che presenta un preciso contesto religioso, e per di più “dorme”, si trova cioè in un momento di totale “passività”, che è quanto dire pronto all’ascolto. Come si sa, i “sogni” ricorrono spesso nella Bibbia come momenti in cui si è preparati a ricevere una rivelazione di Dio.

Il primo problema è che Samuele fraintende la voce: pensa che sia Eli a chiamarlo. Non è ancora capace di riconoscere da chi e da dove viene la voce, ma un dettaglio importante ci dice già in modo preventivo la sua disponibilità ad accoglierla: tutte e tre le volte egli “corre” da Eli, una prontezza che è la prima qualità che si richiede in chi si sente chiamato.

E qui interviene un altro passo importante: il discernimento, per il quale c’è bisogno di una guida. Nel caso è il sacerdote Eli che fa da mediatore, e che, dopo aver capito che non si tratta di un abbaglio, suggerisce al ragazzo come rispondere: «Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta». Detto fatto.

E che si tratti di voci o di segni, di sensazioni o fascinazioni provenienti da modelli ammirevoli e ammirati che suscitano imitazione, o anche di proposte esplicite fatte da persone che ci conoscono e che giudicano a partire da ciò che vedono in noi, l’atteggiamento giusto è sempre quello: l’ascolto e la fiducia nei “segnali”, diretti o lanciati dalle persone. Che questo fosse quello che Samuele ha imparato in quella notte della sua fanciullezza è confermato nel versetto conclusivo del brano: «Samuele crebbe e il Signore fu con lui, né lasciò andare a vuoto una sola delle sue parole».

Integri agli occhi di Dio

La seconda lettura (1Cor 6,13c-15a.17-20) apparentemente non c’entra nulla con il tema della vocazione. Semmai Paolo fa un discorso sull’“integrità” che si richiede in chi sta davanti al Signore al quale sa di appartenere con tutto se stesso: corpo e anima. In questo senso di appartenenza trova posto la vocazione, esattamente perché è la diretta condanna di chi dice: “la vita è mia e ne faccio quello che voglio”, come si è visto sopra.

Contro una visione che fa del corpo il tutto o, al contrario, un contenitore senza valore dell’anima – due atteggiamenti altrettanto pericolosi, anche se il secondo può apparire più spirituale –, Paolo proclama che «il corpo è per il Signore», che è «membra di Cristo», che è «tempio dello Spirito Santo», e che, alla fine, e fondamentalmente, «noi non apparteniamo a noi stessi», e in più che «siamo stati riscattati a caro prezzo».

Tanto basti per ricordare che la storia della spiritualità è costante nel raccomandare la “discrezione” nel fare penitenza, anche se questa può essere un mezzo per esercitarsi nell’autocontrollo, e che il “disprezzo del corpo” non è virtuoso, anzi, il corpo va amato proprio perché è il prezioso custode dell’anima, della quale è inseparabile compagno.

Trovare un “maestro”

Il vangelo (Gv 1,35-42) ritorna in diretta sul tema della vocazione presentando il racconto affascinante di come attorno a Gesù si forma il primo gruppo di discepoli.

In questa pagina Giovanni raduna tre storie, ciascuna con una sua caratteristica propria.

Nella prima il protagonista è il Battista che indica in Gesù l’Agnello di Dio, spingendo due suoi discepoli ad andare dietro a lui.

Nella seconda è uno dei due Andrea che, felice della scoperta, passa l’invito al fratello Simone e lo conduce a Gesù.

Nella terza – non presente nel brano letto oggi – è Gesù stesso che, incontrando Filippo, gli si rivolge direttamente con l’invito semplice ed esplicito: «Seguimi!», una parola che risulta tanto convincente da suscitare come reazione una risposta che spingerà costui a fare la stessa proposta all’amico Natanaele che, superata l’iniziale titubanza, esplode alla fine in un riconoscimento entusiasta.

Sono tre modi di scoprire una “vocazione” che hanno tutti qualcosa da insegnare, sia in ciò che fa partire la chiamata sia nei modi con cui la risposta si struttura.

Nel caso dei due discepoli, dei quali uno è Andrea, mentre l’altro è spesso ritenuto essere Giovanni, il figlio di Zebedeo, anche se forse è più probabilmente Filippo, lo stimolo è l’appellativo con il quale il Battista indica Gesù, chiamandolo «Agnello di Dio».

È ovvio che in questi racconti, redatti con la velocità della redazione stenografica, bisogna supporre qualche cosa di non detto, per esempio, nel caso, che l’espressione usata abbia già un chiaro significato per i due, anche perché è già stata usata dal Battista nella sua presentazione di Gesù (Gv 1,29), che la riprende da Is 53,7 dove il servo di JHWH è presentato come «un agnello condotto al macello» e che, per questo, è definito dal Battista come «colui che toglie il peccato del mondo».

Tanto è bastato per suscitare nei due una curiosità seria che li spinge a seguire Gesù in cui già riconoscono un “Rabbì”, a cercarlo per un incontro non superficiale, tanto che vogliono sapere dove “dimora”. E Gesù li asseconda, li invita nella sua casa, «e quel giorno rimasero con lui: erano circa le quattro del pomeriggio». Ognuno può immaginare cosa sia successo nel cuore e nella mente dei due. L’indicazione dell’ora indica la violenza e l’intensità dell’esperienza fatta in quel pomeriggio.

Nelle altre due storie il chiamato si fa a sua volta protagonista dell’invito: Andrea chiama il fratello Simone, e Filippo l’amico Natanaele. È una vocazione per “contagio”, come accade spesso, sotto la spinta dell’entusiasmo di una scoperta che spinge a condividerla.

Rimangono da considerare alcuni effetti che seguono alla chiamata. Il primo e più importante è la decisione di “rimanere” con colui nel quale si è riconosciuto un “maestro”, cioè una guida per la propria vita. E questo sarà un cammino lungo e non facile, fatto di scoperte e di incomprensioni, fino alla prova ultima che avrà la soluzione solo nella risurrezione del Crocifisso.

La seconda conseguenza è che si riceve un nome nuovo che indica già in Simone-Pietro un destino e una responsabilità che avrà un posto centrale nello sviluppo del racconto evangelico.

Nella storia di Natanaele si annuncia che seguire una vocazione è anche un decidere di andare incontro all’ignoto, perché ciò che conta è fidarsi totalmente di chi chiama, e questo aiuta ad essere aperti a tutte le sorprese che riserva la vita, pronti a rispondere secondo quanto si è capito del “maestro” che cammina davanti a noi, perché la vocazione “cresce e matura” nella conoscenza di lui e, insieme, di noi stessi.

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