I tanti (e poco unitari) 25 aprile

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Il 25 aprile 1953, Giorgio Almirante, segretario del Movimento sociale italiano – il partito fondato nel 1946 da reduci della Repubblica sociale italiana ed ex esponenti del regime fascista – pubblicava un lungo articolo sulla prima pagina de Il secolo d’Italia, all’epoca quotidiano indipendente di destra.

L’intervento collegava la ricorrenza con la prossima tornata elettorale del 7 giugno, quella che viene comunemente associata alla “legge truffa”, perché il passaggio dal sistema proporzionale a quello maggioritario rievocava la legge Acerbo del 1924.

Almirante sollecitava gli italiani a eleggere un Parlamento «capace di cancellare il 25 aprile dal novero delle festività nazionali».

Non l’8 maggio ma il 25 aprile

Nonostante che l’esito delle elezioni non portasse alcun conforto a questa iniziativa, prendeva da quel momento inizio una lunga campagna diretta a promuovere l’abolizione di quella che, nel 1955, la stampa neofascista definiva «la più stupida, assurda, drammatica e orribile data» nel calendario civile italiano.

Come sappiamo, senza nessun risultato. Anzi, settant’anni dopo, il 25 aprile 2023, la segretaria del partito erede del Movimento sociale italiano, che, per la prima volta dalla fine della guerra, vedeva un suo esponente svolgere la funzione di presidente del Consiglio dei ministri, indirizzava al Corriere della sera una lettera dedicata all’anniversario. Ricordando che avrebbe partecipato, assieme al Presidente della Repubblica, alla tradizionale celebrazione ufficiale dell’anniversario con la deposizione di una corona d’alloro al monumento al Milite ignoto, asseriva il permanente valore di quella commemorazione. Scriveva infatti: «Il 25 aprile è stato, e rimane senza dubbio, l’affermazione dei valori democratici, che il fascismo aveva conculcato e che ritroviamo scolpiti nella Costituzione repubblicana».

Si può così osservare che uno degli obiettivi di pedagogia politica che la festa intendeva svolgere è stato raggiunto: l’ordinamento costituzionale basato sul pluralismo dei partiti e l’alternanza di governo costituisce oggi il quadro di riferimento di tutte le forze rappresentate in Parlamento, anche di quelle la cui cultura politica discende dal movimento che contro quell’assetto ha per decenni lottato.

Occorre dunque riconoscere la lungimiranza e l’efficacia dell’intuizione iniziale dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia. Nel 1946 essa propose al governo di iscrivere nella memoria pubblica del paese non, come stava avvenendo in numerosi Stati europei, la data dell’8 maggio che aveva segnato la fine conflitto, ma il 25 aprile, giorno in cui il Comando di liberazione nazionale Alta Italia aveva lanciato l’appello all’insurrezione generale contro i nazifascisti.

Il risultato che oggi possiamo costatare non è però stato il frutto immediato di quella scelta iniziale, ma è maturato attraverso un lungo percorso in cui il significato dell’iscrizione della festa nella ritualità civile della Repubblica è stato via via approfondito in relazione al mutare del contesto politico-sociale.

È proprio questo itinerario che mi propongo qui, in termini necessariamente molto sommari, di ripercorrere, in modo che, alla sua conclusione, possiamo chiederci se le risorse politiche, etiche e simboliche insite nella celebrazione del 25 aprile si esauriscano nella promozione dell’ormai unanime riconoscimento della pluralistica democrazia dell’alternanza o se il messaggio pedagogico della festa abbia oggi – ovviamente a partire da questa acquisizione – ulteriori implicazioni per la nostra vita collettiva.

Il punto di partenza della mia ricostruzione è la lettera con cui l’esponente del partito comunista, Giorgio Amendola, allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, recepiva il suggerimento dell’ANPI, prospettando al primo ministro Alcide De Gasperi l’opportunità di accettarlo. Il documento intendeva, con tutta evidenza, catturare il consenso del leader democristiano, sottolineando i risvolti di politica internazionale che ne sarebbero derivati.

L’introduzione di una festa dedicata – come Amendola scriveva – alla «solenne commemorazione dei sacrifici e degli eroismi sostenuti dal popolo italiano» avrebbe formalmente palesato che l’Italia intendeva inserirsi nel concerto internazionale rivendicando il contributo dato, anche sul piano militare, alla sconfitta del nazifascismo.

L’iscrizione nella memoria collettiva del ruolo dei partigiani nell’anticipare l’azione dell’esercito delle Nazioni unite, avrebbe consentito al governo di presentarsi all’imminente tavolo dei negoziati per il trattato di pace in rappresentanza di un paese alleato, anziché vinto.

Come sappiamo, alla conferenza di Parigi le cose andarono diversamente; ma la lettera di Amendola perseguiva anche un altro obiettivo, che ebbe miglior fortuna. Sia pure sottotraccia, la sua proposta mirava infatti a sancire la legittimazione politica di tutti i soggetti politici che avevano partecipato alla Resistenza.

Il riconoscimento della festa del 25 aprile implicava che i partiti del CNL costituivano gli artefici e i garanti della costruzione del futuro ordinamento dello Stato affidato alle ormai prossime elezioni per l’assemblea costituente.

L’asciutto decreto legislativo firmato da De Gasperi introduceva un ulteriore elemento. Il nuovo «giorno festivo» era infatti destinato a celebrare «la totale liberazione del territorio italiano». Pur senza disconoscere il ruolo dei partiti, che veniva lasciato sullo sfondo, in virtù della polisemia del termine “liberazione”, l’ufficiale istituzione della ricorrenza veniva così chiamata a commemorare la riconquista dell’indipendenza nazionale dall’occupazione tedesca.

Le diverse tonalità politiche

Nel 1950 la rievocazione del 25 aprile – che una legge del maggio 1949 sul riordino delle feste nazionali aveva intanto inserito formalmente nel quadro delle ritualità civili della Repubblica italiana – assunse una più compiuta e articolata funzione di pedagogia politica. Non a caso si trattò della prima cerimonia unitaria dopo quella del 1946.

Le commemorazioni del 1947, 1948 e 1949, per quanto caratterizzate da un medesimo schema di fondo – la funzione religiosa; la consegna di riconoscimenti alla memoria o ai combattenti da parte delle autorità civili; il corteo e il comizio; poi nel pomeriggio le variopinte forme della festa popolare – erano state occasioni di profonde divisioni. In ciascuno di quegli anni la ricorrenza cadeva in prossimità di vicende che laceravano i partiti in precedenza uniti nel CNL: nel ’47 l’esclusione delle sinistre dal governo; nel ’48 le prime elezioni generali per i due rami del Parlamento repubblicano; nel ’49 l’adesione dell’Italia alla fondazione del Patto atlantico.

Le celebrazioni assumevano, quindi, valenze assai diverse a seconda dell’appartenenza politica delle amministrazioni o dei comitati che le organizzavano nelle varie località della penisola.

Queste divergenze non mettevano però in questione un aspetto su cui la storiografia recente ha più volte richiamato l’attenzione. I vari attori coinvolti nei festeggiamenti convergevano, infatti, nell’espungere dal discorso pubblico ogni considerazione sul consenso espresso verso il fascismo, fino ai bombardamenti alleati, da ampi strati del popolo italiano. Si evitava, così, di affrontare la questione dell’effettivo radicamento popolare delle pratiche della cittadinanza democratica dopo una ventennale adesione ai riti collettivi di un regime prima autoritario e poi totalitario.

Solo nel 1958 il ministro della pubblica istruzione, Aldo Moro, sembrava prendersi carico della questione, introducendo nelle scuole l’insegnamento di educazione civica. Il noto insuccesso dell’iniziativa costituisce una cartina di tornasole della difficoltà del paese a percorrere la strada di un consapevole ripensamento della propria storia.

Intanto, sulla condivisa elusione del nodo storico rappresentato dal consenso al regime, i protagonisti della festa costruivano valutazioni assai discordanti sul significato che essa doveva assumere in ordine all’assetto del paese. Di tale divaricazione era componente primaria l’antitetico schieramento in ordine alla scelta di campo in una politica internazionale che vedeva contrapporsi, nell’inquietante scenario della guerra fredda, il blocco atlantico a quello comunista. Ma discrepanze di fondo riguardavano anche il modello di consorzio civile cui inevitabilmente rinviava l’anniversario del 25 aprile. Celebrare la definitiva sconfitta del totalitarismo nazifascista poneva infatti la questione dell’ordinamento che a esso si doveva sostituire.

Per il partito democratico-cristiano la giornata richiamava all’edificazione di una società pacifica e ordinata perché i suoi valori fondamentali erano dettati dall’autorità ecclesiastica, cui si riservava non solo l’esclusiva interpretazione della legge naturale intesa come suprema regolatrice della convivenza umana, ma anche il compito di garantire la sua corretta applicazione da parte della nuova classe dirigente.

Il partito d’azione e i suoi vari eredi attribuivano invece all’anniversario il compito di ricordare la necessità di rompere quella continuità tra le istituzioni dello Stato fascista e la Repubblica democratica che, dopo il crollo del regime, si era manifestata non solo nell’autoperpetuazione di ceti dirigenti, ma anche nella persistenza di strutture legislative e amministrative.

Infine, per il partito comunista, il 25 aprile doveva celebrare quell’ingresso delle classi lavoratrici nel “paese legale”, in modo che le loro rivendicazioni di giustizia sociale potessero finalmente trovare pieno riconoscimento nel nuovo ordinamento come premessa alla costruzione di una società socialista.

Una faticosa celebrazione “unitaria”

Queste diverse prospettive non impedivano però che, nel 1950, si giungesse a una cerimonia unitaria. Giocava in questa decisione la preoccupante ripresa della capacità di penetrazione della propaganda neofascista nell’opinione pubblica. Ma pesava soprattutto, in occasione del quinto anniversario della liberazione, la volontà di evitare quanto era accaduto nelle commemorazioni dei due anni precedenti.

Gli incidenti, anche gravi, che si erano verificati in alcune località, manifestavano un’evidente contraddizione tra una festa diretta a ricordare la conquista delle libertà civili e le restrizioni poste dai prefetti, su precisa indicazione del ministero dell’interno, al suo libero svolgimento. Insistendo su un’ottica divisiva, si rischiava di sgretolare l’apporto della festa al consolidamento delle istituzioni repubblicane.

Senza dubbio, la veste unitaria della celebrazione del 1950 non impedì alla spontanea creatività di gruppi e personalità locali di conferirle tratti multiformi. A questo esito contribuì pure la volontà dell’ANPI di concorrere all’organizzazione di ogni manifestazione unitaria, senza rinunciare per questo a promuovere parallele iniziative autonome.

Il presidente Einaudi

Ma il significato complessivo di quella ricorrenza emerge nitidamente dal messaggio indirizzato dal presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, al Comitato unitario per le celebrazioni. Vi erano presenti, oltre alle massime cariche dello Stato, i segretari di tutti i partiti che avevano contribuito alla Resistenza, i presidenti delle diverse associazioni partigiane e i rappresentanti delle associazioni combattentistiche. Non a caso la manifestazione romana, che si svolse al teatro Adriano, venne aperta dalla lettura di quel messaggio affidata a un senatore comunista, Enrico Molé.

Il testo faceva perno sulla memoria del sacrificio di quanti avevano fatto «olocausto della vita» per la rinascita della patria. In questo senso, Einaudi riprendeva il tema della Resistenza come secondo Risorgimento che, fin dalla primavera del ’45, era diffuso tra tutte le componenti del CNL.

Ma il Risorgimento non era qui interpretato solo come riconquista dell’indipendenza nazionale da un occupante straniero. La formazione di un autonomo Stato italiano veniva infatti legata alla conquista delle libertà civili e politiche. Einaudi scriveva chiaramente che l’unificazione aveva saldato la fine del «servaggio» dallo straniero con l’eliminazione della «tirannide» interna.

Tuttavia, l’individuazione di questo nesso storico tra le guerre risorgimentali e la lotta partigiana non si risolveva nella proposta di una mera ripresa dell’ordinamento liberale cancellato dalla dittatura fascista.

La Resistenza aveva aggiunto alla riconquista delle libertà un dato nuovo: le istituzioni democratiche che permettevano la partecipazione delle masse popolari alle scelte politiche fondamentali del paese. Va però sottolineato che il messaggio presidenziale non presentava questo aspetto come una costatazione, ma come un programma. Il presidente ricordava, infatti, che le future sorti della nazione dipendevano da un rafforzamento di una democrazia che rappresentava l’obiettivo assegnato alle forze che in quell’occasione avevano fatto prevalere le ragioni dell’unità su quelle della divisione.

Einaudi aveva comunque prospettato un comun denominatore a quanti celebravano il 25 aprile: il sacrificio dei caduti nella Resistenza costituiva il fondamento di un nuovo ordinamento – formalmente già delineato, ma da portare a concreto compimento – in cui l’identità nazionale italiana si sostanziava dei valori di libertà e di democrazia.

Vorrei qui ricordare un episodio che vi è certamente noto, dal momento che ebbe come epicentro Livorno, ma che mi pare importante rievocare perché mostra come l’orientamento espresso dal presidente della Repubblica trovasse consenso anche in quelle correnti che, per dirla con il celebre saggio di Claudio Pavone, identificavano la moralità della Resistenza nella lotta di classe.

Mi riferisco alla lettera che Furio Diaz, sindaco comunista della città, indirizzò a Pietro Ingrao, direttore de L’Unità, organo del suo partito, per precisare che, contrariamente a quanto scritto sul quotidiano, ricadevano sugli attivisti comunisti le responsabilità del mancato carattere unitario inizialmente previsto per la manifestazione livornese.

Nella visione del futuro professore alla Normale non si trattava del rimpianto per la mancata realizzazione del carattere unitario che si era riusciti a conferire alla festa grazie a un paziente e faticoso dialogo intessuto con le diverse forze politiche. Era, invece, la denuncia della persistenza, anche all’interno di chi si richiamava alla Resistenza, di ambienti che ancora non ne riconoscevano nell’ordinamento democratico lo sbocco istituzionale entro il quale ciascuna corrente poteva e doveva far valere le proprie ragioni di parte.

Com’è noto, la celebrazione unitaria del 1950 costituì un episodio effimero, dal momento che dall’anno successivo riprese un uso politico della festa in cui tutte le principali forze facevano ricorso al rituale commemorativo per legittimarsi attraverso la delegittimazione della controparte.

Presentando l’altro non come un avversario con cui competere sul piano elettorale, ma come un nemico irriducibile e irrecuperabile, lo si privava della capacità di assumere quel ruolo politico che veniva esclusivamente riservato alla propria parte.

Un’Italia repubblicana e democratica

Ma l’esperienza di una commemorazione unitaria non era passata invano. Ritornava, infatti, nel 1955, in occasione del decennale della Liberazione. Significativamente, si prendeva la responsabilità di organizzarne lo svolgimento un esecutivo guidato da Mario Scelba – il ministro dell’interno che più aveva limitato le libertà civili in precedenti celebrazioni. Appariva, infatti, ormai a tutti evidente il complessivo indebolimento delle istituzioni repubblicane derivante dalla rinuncia all’uso delle risorse simboliche di una festa diretta a iscriverne nella memoria pubblica le ragioni profonde di una democratica convivenza politica e civile.

La decisione governativa di ricorrere alla funzione pedagogica della ricorrenza è palesata dall’indirizzo dato sia alla radio – che, in precedenza, aveva riservato ben scarso rilievo all’anniversario – sia alla neonata televisione pubblica di trasmettere in diretta le manifestazioni ufficiali.

Non si possono certo sottacere i limiti dell’iniziativa presa da un governo legato alle politiche del centrismo. Ad esempio, venne vietato alle associazioni partigiane di prendere la parola nel corso delle celebrazioni ufficiali e l’opuscolo distribuito nelle scuole connotava la Resistenza come secondo Risorgimento, presentandola ancora come mera riconquista dell’indipendenza nazionale.

Tuttavia, non si può nemmeno ignorare che la cerimonia del 25 aprile 1955, proprio per il suo carattere unitario, cominciava a esplicitare più chiaramente il significato politico di quel sistema democratico che essa mirava a iscrivere nella memoria collettiva.

Certo, era una visione della democrazia legata a quello che sarà chiamato il “bipartitismo imperfetto”: non tutte le forze politiche coinvolte nelle cerimonie venivano ritenute legittimate ad accedere al governo del paese per i vincoli posti dal quadro internazionale.

Ma netta era ormai l’attribuzione alla festa di un preciso compito. Festeggiare il 25 aprile significava riconoscere che l’Italia repubblicana costituiva un regime democratico in quanto basato su un pluralismo politico in cui tutti i partiti del CNL godevano della piena capacità di liberamente competere per accedere, se non ancora al governo centrale, alla tutela dei rispettivi interessi all’interno delle sue istituzioni rappresentative.

I positivi effetti della scelta allora compiuta si videro negli anni seguenti. La mobilitazione del paese nel respingere l’ingresso del MSI nell’area di governo avviò la stagione politica del centro-sinistra. Non fu allora difficile procedere nuovamente a un’organizzazione unitaria della festa, di cui fu espressione significativa la commemorazione del 1965, in occasione del 20° anniversario. Guidata da un Comitato nazionale posto sotto il patrocinio del presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat, cominciò infatti a dare ulteriore esplicitazione alle potenzialità etico-politiche della celebrazione dell’anniversario.

Non solo perché si restituiva all’ANPI e alle altre associazioni partigiane la facoltà di esprimere le loro concezioni nelle manifestazioni ufficiali, né solo perché la RAI metteva in campo tutta la forza di una comunicazione televisiva che penetrava ormai in ogni famiglia, per diffondere nel paese una buona cultura storica sulle vicende della guerra e della Resistenza. Ma, soprattutto, perché unanime era la presentazione della Costituzione della Repubblica come la concreta traduzione di quel nesso tra indipendenza nazionale, libertà civili e democrazia che, in precedenza, appariva come il generico contenuto politico cui rinviava la ricorrenza.

Il dispositivo simbolico della festa usciva insomma da un significativo, ma indistinto, richiamo al passaggio dal fascismo alla democrazia, per caratterizzarlo con una connotazione precisa. Il mutamento di ordinamento trovava espressione in una specifica forma giuridico-politica positivamente determinata attraverso gli articoli della carta fondamentale della Repubblica.

Il significato di “patriottismo costituzionale”, assunto allora dalla commemorazione, resse alla prova delle difficili vicende attraversate dal paese nel successivo quindicennio.

Negli anni dello stragismo e della violenza politica

La ricorrenza è un termometro sensibile di quella difficile stagione. Al 25 aprile 1969 si può far risalire l’inizio della strategia della tensione, poi tradottasi nelle stragi messe in opera da ambienti neofascisti e apparati deviati dello Stato: in quel giorno fu, infatti, collocata alla Fiera di Milano una bomba che provocò diversi feriti. Al contempo l’insufficiente risposta alle ragioni della contestazione studentesca – che già il 25 aprile 1968 aveva promosso in diverse città cortei alternativi a quelli organizzati dai partiti per esprimere la protesta verso la commemorazione ufficiale – ebbe esiti dirompenti sulla convivenza civile.

Si tradusse, da un lato, in un disimpegno giovanile, cui prontamente la televisione – allora ancora solo pubblica – si adeguò, cominciando a commemorare la ricorrenza, anziché con programmi di cultura storica, con trasmissioni di intrattenimento e di spettacolo. Dall’altro lato, ebbe anche esito, pur minoritario, nella formazione di una sinistra extraparlamentare che mostrava l’inclinazione a dissolvere il nesso tra festa e Costituzione, per proclamare la necessità di riprendere una lotta di classe che i partigiani non avevano portata a compimento.

Non si trattava solo dell’ideologica riproposizione del mito della Resistenza tradita: la sfilata nei cortei alternativi del 25 aprile di giovani in uniforme militare con il volto coperto da un fazzoletto rosso e l’ostentazione del pugno chiuso alludeva alla volontà di riprendere le armi.

Negli anni segnati da stragismo e violenza politica, la commemorazione del 25 aprile seppe mantenere il significato politico in precedenza maturato. Si manifestò, però, in termini difensivi della democrazia repubblicana. Ne derivò un mancato approfondimento delle vie con cui trarre dal dispositivo costituzionale concreti impulsi per una trasformazione della vita collettiva.

Lo testimonia l’unitaria celebrazione del 25 aprile 1978, avvenuta nel corso del rapimento del presidente della Democrazia cristiana, Aldo Moro, ad opera delle Brigate rosse, che vide ovunque un’imponente partecipazione popolare. Emblema di quella ricorrenza fu discorso tenuto a Venezia dal segretario della CGIL, Luciano Lama.

Questi ribadiva che il sacrificio dei partigiani aveva come scopo la nascita di un assetto democratico che aveva trovato la sua concreta formulazione nella carta costituzionale. Nonostante la persistenza di squilibri e ingiustizie, occorreva difenderlo contro le tendenze che propugnavano «la violenza e il terrore». La Costituzione, infatti, aveva garantito e continuava a garantire la libertà di una lotta politica in grado di correggere le esistenti storture sociali.

In particolare, Lama aggiungeva che articolo fondamentale della carta era il superamento della visione formale della libertà in virtù di quell’articolo 3 che impegnava la Repubblica a rimuovere gli ostacoli materiali che ne impedissero il concreto esercizio. Tuttavia, il suo discorso si limitava a parafrasare il dettato costituzionale: mancava ogni specificazione programmatica e propositiva per un’effettiva traduzione di quella norma costituzionale nel coevo contesto politico e sociale del paese.

Gli studi storici hanno peraltro messo in rilievo che si trattò di un soprassalto etico-politico di breve durata. Cominciava negli anni Ottanta il declino della celebrazione del 25 aprile. Restava ancora un obiettivo polemico della destra, anche se, mentre il Movimento sociale e i suoi eredi ne chiedevano ora una ridenominazione, era la Lega a invocarne la soppressione. Ma – come notava nel 1993 Norberto Bobbio – il rituale delle celebrazioni era diventato «scialbo e stanco». Ne era certo ragione il fatto che, in quel frangente storico, la cerimonia evocava quel che da molti veniva considerato un male – il consociativismo dei partiti – responsabile del degrado partitocratico della vita pubblica.

Ma il problema stava soprattutto nella difficoltà, in un momento in cui si moltiplicavano le voci, ma anche le iniziative, per modificare la Costituzione, di riproporre il nesso tra la carta e la festa del 25 aprile.

Non intendo entrare nella questione – ritornata di attualità politica – se intervenire sulla seconda parte della Costituzione, quella relativa all’organizzazione dei poteri dello Stato, che dai più parti si invoca per assicurare la necessaria efficienza all’azione di governo, finisca per toccare anche quei primi dodici articoli che vengono unanimemente considerati intangibili.

Mi limito, a questo proposito, ad accennare che Giuseppe Dossetti, uno dei più autorevoli costituenti, nel ricordare alla metà degli anni Novanta che, se era opportuna una riforma del testo costituzionale per assicurare maggiore efficacia all’azione dello Stato, non mancavano certo meccanismi legislativi (come l’elezione parlamentare del Primo ministro e la sfiducia costruttiva) in grado di ottenere questo obiettivo senza intaccare la coerenza tra il suo secondo titolo e le parti precedenti.

La prospettiva del presidente Napolitano

Ma mi preme piuttosto ricordare – a conclusione del mio intervento – una celebrazione del 25 aprile che, individuando lucidamente il suo significato nel patriottismo costituzionale, ne ha anche tratto un’indicazione programmatica che mi sembra oggi più che mai attuale.

Mi riferisco alla commemorazione compiuta dal presidente della repubblica, Giorgio Napolitano, a Cefalonia, nel 2007. Quel suo intervento è noto per aver recepito nel discorso politico-istituzionale un tema che da tempo circolava negli studi storici: il riconoscimento che una motivazione ideale aveva spinto diversi giovani ad aderire alla Repubblica sociale rafforzava il rispetto dovuto a tutti i caduti, ma non portava ad una equiparazione tra le ragioni degli uni e degli altri, tra la lotta per libertà e quella per il totalitarismo.

Ma è soprattutto noto per la valorizzazione dell’esercito italiano nel quadro di un allargamento dello spettro delle forze della Resistenza. Napolitano sottolineava, infatti, il ruolo in essa esercitato dai militari, accanto alle formazioni partigiane, ai renitenti alla leva, agli ebrei che cercavano di sottrarsi allo sterminio, agli internati nei campi di prigionia e di lavoro, e a settori della popolazione civile.

In questo contesto, nel riproporre il significato della festa come commemorazione della Costituzione repubblicana, il presidente procedeva ad una sua specifica attualizzazione. Ricordava, infatti, che, secondo l’articolo 11, alle forze armate toccava dare esecuzione all’impegno dell’Italia «per la pace e per la sicurezza internazionale sotto la guida delle Nazioni Unite».

Si erano infatti moltiplicati i conflitti in quel generale disordine mondiale che aveva fatto seguito alla fine dell’illusione di una diffusione planetaria della democrazia dopo il crollo, nel 1989, dell’ordine bipolare.

In questo contesto, il presidente collegava la festa alla partecipazione militare italiana a interventi di peace-keeping come via per la concreta attuazione dell’articolo costituzionale che impegnava l’Italia a concorrere con le organizzazioni internazionali per risolvere, in via pacifica, le contese fra i popoli.

Oggi, a distanza di quindici anni, in un contesto internazionale segnato dalla drammatica ripresa di nazionalismi bellicisti, ci possiamo chiedere se la cerimonia non rappresenti l’occasione per un passo ulteriore nell’attuazione dell’articolo 11. Com’è noto, esso proclama anche che la Repubblica «consente alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni».

Una celebrazione del 25 aprile imperniata sul tema che l’Italia intende rinunciare all’esercizio di tradizionali forme di sovranità dello Stato nazionale allo scopo di rendere gli organismi sovranazionali, a partire dall’Unione Europea, soggetti politici effettivamente capaci di concorrere alla soluzione pacifica dei conflitti, non sarebbe la più coerente applicazione odierna della lunga storia di approfondimento del nesso che lega la festa alla Costituzione?

Come hanno messo in rilievo diversi studi, per i resistenti l’obiettivo della pace era inscindibilmente legato al conseguimento di libertà e democrazia.

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