I Avvento: Viene il Signore

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Quando ci si sta per inoltrare nel fitto di un bosco che non si conosce, avendo però bene in mente la meta di una montagna molto alta, si consulta con fiducia e attenzione una cartina della zona, con i sentieri ben segnati, prima di affrontare la salita finale segnata solo con i bollini rossi della scalata alpinistica. Si guarda indietro al punto di partenza, si fa la revisione dell’attrezzatura e dell’approvvigionamento, si rivedono i tempi di percorrenza e il percorso alternativo in caso di rientro forzato. Chi è passato prima di noi ci ha lasciato una memoria che ripercorriamo con fiducia e gratitudine, poggiando sicuri i nostri passi sui loro.

La meta è ancora lontana, ma l’animo è ben preparato e attrezzato. Le incognite non sono mai da escludere e, prima del pomeriggio, bisogna già essere fuori dai pericoli. Più si avanza, più la meta ci viene incontro. Spesso si nasconde dietro un avvallamento e la si scorge solo all’ultimo momento. Talvolta serpeggia un leggero moto di inquietudine, quando la stanchezza si fa sentire prima del previsto, il tempo passa e sta cambiando in fretta, e la meta è ancora lontana. Si guarda in alto, si rafforza la fiducia, passo dopo passo la meta non può deluderci, svanire nel nulla. È segnata sulla cartina…

Andiamo, saliamo, ma tu vienici incontro in fretta…

Tu sei nostro padre!

Un nuovo cammino si apre dinanzi a noi. Un cammino lungo un anno. È bello iniziarlo sollecitando l’attesa del nuovo, del rinnovato, del fresco riprendersi della vita dopo tempi passati nell’incertezza, nella delusione e nell’amarezza per un’umanità che sembra smarrita. È bello iniziare un nuovo cammino personale e comunitario con lo zaino pieno della vita vissuta, riserva per un cammino nuovo, inedito, seppur segnato da grandi amici che ci hanno preceduti.

Nel cuore del popolo di Israele brucia ancora viva la ferita dell’esilio vissuto a Babilonia (586-538 a.C.) da cui molti sono appena rientrati. Brucia il cuore per la schiavitù patita, fremono le viscere al vedere come è ridotto il paese e il suo “occhio”, il suo “ombelico”, la dolce città di Sion, Gerusalemme la fonte della nostra gioia…

Una preghiera nasce spontanea dal cuore credente del popolo ferito e incredulo. Il popolo si aggrappa alla memoria e all’invocazione del suo Dio, YHWH, il Fedele per eccellenza. YHWH ha vissuto una vita con noi, abbiamo intessuto una relazione d’amore altalenante ma tutto sommato continua, grazie alla sua misericordia viscerale. Un salmo storico “sale al cuore”, la lamentazione si fonde col ricordo e con la supplica.

Al ringraziamento, o memoria storica dell’esodo (63,7-14), segue la supplica piena di fiducia in Dio Padre (63,15-19a). Il lamento o confessione dei peccati risuona profondo (63,19b – 64,6), prima di sfociare nuovamente nella supplica piena di fiducia in Dio padre (64,7-11).

“Tu sei nostro Padre/’attāh ’abînû!” (63,16[bis]; 64,7). Te lo diciamo per la prima volta in tutte le preghiere che ti abbiamo elevato in questi secoli. Tu sei la nostra cintura di sicurezza, la roccia che non trema, la vita che sgorga sempre, la cura che non lascia mai soli. Anche i nostri patriarchi si sono dimenticati di noi. Abramo e Giacobbe/Israele hanno perso la memoria del nostro cammino. La loro paternità ci sembra fermata, seccata, inaridita. Tu hai allentato troppo le briglia della nostra libertà. L’hai rispettata fin troppo. Ci hai lasciato vagare, deviare, diventare duri di cuore, inselvatichiti come lupi, l’un contro l’altro armati. Homo homini lupus.

Tu sei nostro redentore!

“Tu sei nostro redentore/’attāh gōălēnû (63,16b)”, questo è il tuo nome da sempre! Tu sei il nostro parente più prossimo, il riscattatore delle nostre miserie e dei nostri debiti, il redentore dei nostri beni e dei nostri cari. Schiavi eravamo, tu ci hai riscattati e riportati a casa. La nostra terra è un disastro. Le menti piccole e ristrette, le vedute corte ed egoiste, gli occhi torbidi e striati dal sangue.

Non c’è molto collante sociale e familiare. Ognuno va per conto suo, gli egoismi si fanno nazionali e continentali. Ci stiamo riperdendo, dopo aver vissuto stagioni di liberazione, di speranza, di cammino comune e solidale, seppur nella povertà. Il nostro cuore, tu l’hai lasciato diventare duro, senza voglia di sentir parlare di te e di darti retta.

Qualche profeta dal cuore grande e dall’occhio penetrante ci sta avvisando che il nostro vagare va verso il nulla, ma un egoismo diabolico ci rinserra mente e cuore nel presente, nell’eterno presente. Deliri di onnipotenza di piccoli stregoni fanno baluginare scenari di felicità a basso prezzo, scontata al due per uno. Ci costruiamo la nostra identità. Siamo nostri. Noi siamo di noi, non apparteniamo a nessuno, non ci interessa di nessuno. I nostri figli troveranno al loro strada, se la sbroglieranno da soli nel mondo che lasceremo a loro.

Torna, strappa i cieli!

Torna tu, o Signore YHWH! Torna tu sui tuoi passi. Sei stato troppo accondiscendente, troppo permissivo. Convertiti, cambia direzione, non andare avanti da solo. Torna indietro a prenderci, torna presto a liberarci dalle nostre macerie, dai nostri piccoli sogni, dalle nostre speranze dalle ali molto corte. Strappa i cieli di bronzo, i cieli chiusi sopra le nostre teste. Torna a scendere sul Sinai dei nostri cuori. Falli tremare di scosse, così che ripartano dopo l’infarto. Defibrillaci, altrimenti ci perdi. Tu hai fatto cose terribilmente meravigliose/nôrā’ôt al Sinai dei nostri padri. Mai s’era sentito prima che un dio fosse così vicino al suo popolo, si interessasse tanto ad esso da abbassare i cieli e poggiare i piedi sul loro cammino per liberarli. Tu vai incontro a chi sta al tuo patto con gioia, con coloro che si ricordano molto bene di te, quando cammino secondo le vie del tuo cuore di padre.

Raduna le foglie disperse

Strappa i cieli della tua bellezza, torna a far splendere la tua vita sui nostri giorni. Siamo rinsecchiti come foglie d’autunno, impuri di cuore, stracci da macero. Le nostre scelte ci hanno preso la mano, abbiamo voluto segnare da soli i nostri sentieri. Non ci siamo fidati della tua cartina. E così i nostri pensieri sono diventati ideologie assassine, la nostra libertà libertinaggio, i mezzi il fine, i soldi il tutto.

Ci siamo guardati allo specchio e abbiamo detto che eravamo bravi. Abbiamo fatto migliaia di selfies e abbiamo creduto di non essere troppo malmessi. I nostri amici ci hanno linkato troppo, e noi ci crogioliamo volentieri nel facile consenso acritico ricevuto. Il nostro volto non rispecchia più il tuo. Un volto di Padre. Un volto di Madre. Un volto di papà di famiglia che gode nel vedere i suoi figli uniti a tavola, pur avendo ognuno le sue difficoltà.

Non siamo contenti delle nostre facce, dei nostri cuori. Rimodellaci con le tue mani, col tuo santo spirito (Is 63,10.11.14). Tu, Divino Vasaio, rifacci nuovi nel volto e nel cuore. Raduna le foglie disperse, ridona linfa al cuore e alla volontà.

Torna, squarcia, scendi, raduna e rinnova. Torna tu (63,17) e noi ritorneremo. Il tuo avvento sarà il nostro ritorno. Torna, o Padre redentore, torna per sempre. Scuotici dal torpore dell’anestesia collettiva. Svegliaci con la tua Parola, il tuo Corpo, la tua famiglia. Portaci alla meta, in cima. Faremo cordata con te.

Insonni, vigili!

Il giorno e l’ora dell’avvento del Veniente definitivo nessun uomo lo conosce, neanche gli angeli celesti e neppure il Figlio – il Figlio di Dio fatto carne –, se non il Padre (Mc 13,32). Il Padre redentore custodisce nelle sue mani il segreto del tempo. Così rende sereni i suoi figli, che possono vivere con gioia e senza angoscia i loro giorni, non conoscendo scadenze che possono bloccare i cuori e frenare gli slanci.

A conclusione del suo discorso sulle realtà ultime, pronunciato da Gesù una volta uscito dal tempio e seduto come un maestro sul monte degli Ulivi (cf. Mc 13,3), egli invita i suoi discepoli che domandano il “quando” e il “segno” a coltivare gli atteggiamenti degni dell’uomo. “Fate attenzione/blepete, vegliate insonni/vegliate rubando le ore al sonno/agrypneite (13,33), vigilate/grēgoreitei” (vv. 35.37).

Non è il terrore di fronte a un futuro sconosciuto, al nulla verso cui si è stati gettati (come pensava qualche filosofo) a tenere svegli i credenti in Cristo. Essi godono della piena fiducia del loro Signore che, partendo fisicamente con la sua risurrezione, ha lasciato loro “la sua casa/tēn oikian autou”, ha donato loro l’autorità/tēn exousian come si addice a persone adulte e responsabili di beni propri e altrui, unitamente al compito/lavoro/ergon che ciascuno deve fare perché il suo Signore sa che può farlo, avendogli donato i mezzi adatti per tale impegno.

Il portinaio deve per primo vigilare/hina grēgorēi all’entrata dalla casa da proteggere, per evitare intrusioni di malintenzionati antievangelici o diavoli mascherati da angeli di luce (cf. 2Cor 11,14).

L’“uomo che parte per un paese lontano, all’estero, fuori della propria patria/anthrōpos apodēmos” (v. 34) è “il signore/padrone della casa/ho kyrios tēs oikias” (v. 35), che è sovranamente libero di “venire/erchetai” (v. 35) a qualsiasi ora oscura: la sera, in piena notte o al primo canto notturno del gallo, o sul far dell’alba, la mattina prestissimo (prōi; cf. Mc 16,2 “di buon mattino” le donne vanno al sepolcro con gli oli aromatici; Mc 16,9 “Risorto al mattino presto/anastas de prōi, … Gesù apparve”).

Il Signore può venire prestissimo il mattino, al sommo della stanchezza dell’uomo, come il mattino presto ha lasciato la patria squarciando il velo della morte.

Il Signore viene!

Insonni, vigilate! È il comando della libertà, è la libertà dall’anestesia. Nessuna angoscia, solo vigilanza adulta e responsabile. Niente cervelli all’ammasso, nessuna concessione alle urla lanciate alla pancia della gente o vomitate in faccia all’“avversario”. Nessuna briglia lunga lasciata al pensiero “comune”, alla dittatura della maggioranza (o della minoranza). Niente esagerazioni col pensiero “debole” e “liquido”… Nessun adito a clowneschi uomini della provvidenza o a piccoli pifferai magici. Il padrone di casa è un Signore libero e che ama i suoi “servi” (in realtà “amici” [Gv 15,14] e “fratelli” [Mt 28,10]).

Sono i “servi” del Risorto che è partito per un viaggio all’estero, ma che “torna/erchetai” senza alcun dubbio. Torna sempre, torna in ogni tempo e in ogni vita. Tornerà alla fine e porterà ai suoi gli acquisti preziosi fatti “all’estero”.

Sarà il conguaglio delle ricchezze anticipate con fiducia ai suoi al momento della sua “partenza”.


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