Epifania: Il cammino di fede dei magi

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«È stato duro venire, faceva freddo, / proprio il tempo peggiore dell’anno / per un viaggio, per un viaggio così lungo, / le strade fangose e il clima rigido, / la morte stessa dell’inverno» (T.S. Eliot, Il viaggio dei Magi). Immagino che introdurre con questi versi una festa come l’Epifania possa creare una qualche perplessità, perché la liturgia del giorno si apre con la splendida e gloriosa pagina di Isaia (Is 60,1-6) che lascia intravedere orizzonti completamente diversi: cortei di popoli in marcia, folle che, dalle tenebre e dalla nebbia fitta in cui sono immerse, si muovono attratte dalla luce che risplende su Gerusalemme: «tutti verranno da Saba, portando oro e incenso e proclamando le glorie del Signore».

Questo versetto forma il coro iniziale della Cantata 60 di Bach, Sie werden aus Saba alle kommen (Verranno tutti da Saba), facilmente reperibile in Internet, dove lo sfarzo è affidato a corni, oboi, oboi da caccia, flauti e archi, e da un movimento delle quattro voci che si rincorrono ripetendo questa frase, quasi un accavallarsi impetuoso di onde possenti che visualizzano magnificamente la scena dipinta dal profeta.

Pure la pittura ha colto questo aspetto della festa, come è dato di vedere da quella che è diventata l’immagine standard dell’Epifania, dipinta da Gentile da Fabriano, doppiata per così dire dal grande corteo dipinto da Benozzo Gozzoli a Firenze per celebrare la gloria dei Medici.

L’uso di accoppiare l’Epifania con la festa delle genti risponde sicuramente al tono prevalente della ricorrenza. E però, se partiamo dal vangelo, che pure celebra l’arrivo di alcuni campioni rappresentativi di queste genti, e per l’età (il giovane, la mezza età e il vecchio), e per il diverso colore della pelle (il bianco, il giallo e il nero), come la pittura usa interpretare i magi, l’atmosfera che ci viene trasmessa è decisamente diversa. Ma prima di concentrare l’attenzione sul brano evangelico, procediamo con ordine.

Sognare il futuro

La prima lettura (Is 60,1-6) è un testo che straripa da ogni parte, una visione che traduce l’entusiasmo di un popolo che, tornando dall’esilio, gonfia il cuore che palpita e letteralmente “si dilata” in speranze senza misura, perché su Gerusalemme si riverserà «l’abbondanza del mare e la ricchezza delle genti», e tutti i popoli dell’Arabia, con i loro cammelli e dromedari verranno «portando oro e incenso e proclamando le glorie del Signore».

Di quale Gerusalemme si parla qui? Probabilmente non quella che vedeva questo discepolo del grande Isaia, ma certo il profeta sentiva il bisogno di sostenere il coraggio del suo popolo proiettando la storia in un futuro che non era proibito sognare.

Ancora oggi – e si continuerà sempre a farlo – la metafora del “sogno” è sempre usata quando si vuole incoraggiare ad avere prospettive grandi, senza lasciarsi soffocare dalla miseria e meschinità di certe realizzazioni che non mancano mai. «I vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni» proclama Gioele (3,28), dopo aver elencato una sequenza di disastri e flagelli.

Mistero e ministero

La seconda lettura (Ef 3,2-3a.5-6) sembra dire che la visione di Isaia si è realizzata, e la cosa è dovuta alle scelte e ai risultati del ministero di Paolo che ha fatto il salto di aprire la rivelazione alle “genti”, superando il blocco della matrice ebraica. Ma attenzione: quello che è scritto non è la descrizione di un sogno realizzato, ma la percezione di una vocazione che si allarga, di una “salvezza” destinata a tutti, che lui chiama «il ministero della grazia di Dio, a me affidato a vostro favore», un mistero che gli è stato fatto conoscere “per rivelazione”.

È il mistero che precede, e che diventa un ministero, termine che sintetizza il servizio di evangelizzazione perseguito con l’ardore ben noto dell’apostolo. E la grande scoperta, che trova nei magi una primizia, è che «le genti sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del vangelo». Tre volte ricorre l’aggettivo “stesso”, che è quasi ovvio nel respiro di universalità che traspare dall’intera lettera agli Efesini.

Ciò che conviene segnalare è che, se il formare un “corpo” può essere compito nostro, gli altri due termini che in certo senso lo abbracciano, “eredità e promessa”, sono puro dono di grazia, ed è anche per questo che – come ho già avuto occasione di scrivere – Efesini è un mirabile esempio di teologia dossologica, quella che canta.

Videro e vennero

Siamo al vangelo (Mt 2,1-12), che mi ha suggerito la citazione di partenza, alla quale consacrerò il resto della riflessione. Anche perché la nascita di Gesù non è il centro del racconto (è affidata a una subordinata, “Nato Gesù”, come cosa già nota al lettore di Matteo), che invece è tutto dedicato al viaggio dei magi.

Questo non è solo il soggetto di un poemetto di Eliot, ma è il tema di un intero sermone di Lancelot Andrewes (1555-1626), vescovo anglicano di Winchester e predicatore di corte nel regno di Giacomo I Stuart, dal quale Eliot ha tolto la citazione dell’inizio. Il sermone in questione è il n. 15, predicato davanti al re per il Natale del 1622 (L. Andrewes, Dio è diventato uomo, Qiqajon, Bose 2012, pp. 235-261). Non ci si stupisca per la lunghezza del testo: al tempo i sermoni duravano anche un’ora, e Giacomo I ne era letteralmente ghiotto.

La frase messa a tema è Mt 2,1-2 e, con l’abilità filologica che lo caratterizza, Andrewes elabora uno schema costruito sui verbi che si affollano nei due versetti: 1. Vennero e dissero. 2. Abbiamo visto. 3 Siamo venuti. 4. Dov’è il re dei giudei? 5. Si prostrarono e offrirono. Questi sono i cinque raggi della “stella” che guida il tragitto dei magi.

Ma, tra questi cinque, è il viaggio che riceve un’attenzione tutta speciale, perché un’altra sintesi raccoglie il tutto in due verbi cruciali: abbiamo visto e siamo venuti (vidimus et venimus). È per questo che la sezione sul viaggio occupa il centro in questa girandola di atteggiamenti già nella breve sintesi appena riassunta, dove si parla dei «passi della loro fede in venimus, la loro venuta, il venire, con un tale viaggio, in un tempo del genere, e con tale velocità».

E, del resto, più volte Andrewes ricorda che era certo importante che Gesù fosse nato, ma a cosa sarebbe servita questa nascita se egli non fosse stato “trovato”? Il viaggio, dunque, di cui sono elencate con puntiglio le difficoltà: “un viaggio stancante, noioso, penoso, pericoloso, fuori stagione”.

Eliot dedica tutto il suo poemetto a illustrare con immagini efficaci tutti questi ostacoli. Ma come dice Andrewes: «nonostante tutto ciò essi sono venuti. E venuti con gioia e rapidamente, come appare dalla loro velocità. Per loro fu solo vidimus, venimus: videro e vennero, non appena videro subito partirono. E su questa “prontezza”, che dovrebbe caratterizzare il cammino di fede, l’autore torna volentieri, facendo anche dell’ironia. «E noi cosa avremmo fatto?» si chiede. Rispetto alla loro, la nostra fede non ha lo stesso slancio. «Per loro, non fu altro che vidimus, venimus; per noi sarebbe stato al massimo solo veniemus, verremo. Il nostro stile è vedere e rivedere prima di muovere un piede, soprattutto se ciò ha a che fare con l’adorazione di Cristo.

Fare un viaggio del genere, e con questo tempo? No, ma avremmo preferito spostarlo alla primavera dell’anno, aspettando che le giornate fossero più lunghe, e le strade più buone, e il clima più caldo, così da andare a Cristo in condizioni migliori. La nostra Epifania sarebbe di certo caduta al più presto nella settimana di Pasqua. […] E peraltro tutta la nostra religione è piuttosto un vidimus, una contemplazione, che non un venimus, un movimento, uno slancio a fare qualcosa. […] Che bisogno c’è di avere tanta fretta? La verità è che noi abbiamo di lui e della sua nascita un’idea fiacca, e la nostra rapidità ne è lo specchio esatto» (p. 250-51).

Vengo alla sintesi conclusiva del percorso, che mostra come la “stella” con i suoi cinque raggi è entrata nei cuori dove continua a guidare il cammino. Come? «Nel loro dicentes, confessando liberamente la loro fede, nel loro vidimus, dandole un fondamento pieno, nel loro venimus, affrettandosi ad andare speditamente da lui, nel loro ubi est? (dov’è?), cercandolo con diligenza, e nel loro adorare eum, adorandolo devotamente. Facendo per omnia, in ogni cosa, come fecero loro: adorando, e adorando in questo modo, celebrando, e celebrando in questo modo la festa della sua nascita» (p. 260).

Ma la più bella sorpresa viene nella conclusione: nel giudizio finale, in una sorta di felice contrappunto, Dio ci accoglierà allo stesso modo con cui noi abbiamo accolto lui! «Quando Cristo, alla sua seconda venuta, apparirà nella gloria, chiamerà all’appello questi saggi, i magi, e tutti quelli che hanno seguito i passi della loro fede. Perché – dirà – ho visto la loro stella splendere e rivelarsi con gli stessi raggi. E come loro vennero ad adorare me, così io sono venuto ad onorare loro. Un venite, allora, che risponderà al vostro siamo venuti ora. Ho visto la loro stella, e do loro un posto quassù tra le stelle. Essi si sono prostrati, io li solleverò e li esalterò. E come essi hanno offerto doni a me, così io sono venuto per concedere doni a loro, e ricompensarli, con la gioia infinita e la felicità del mio regno celeste» (p. 261).

Ed ecco l’Epifania: un incontro di “volti” che si riflettono a specchio l’uno nell’altro, realizzando appieno la vita di fede come esperienza della compagnia del “Dio con noi”.

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