XXVIII Per annum: Amò il cammello triste

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Abbiamo già fornito una breve introduzione al Libro della Sapienza commentando il brano di Sap 2,12.17-20, letto nella XXV domenica per annum B. Seguendo le indicazioni di un maestro indiscusso dei libri Sapienziali M. Gilbert, Sap 1–6 può essere strutturata secondo una forma di chiasmo: a) 1,1-22 Esortazione ai principi; b) 1,13–2,24 Progetto degli empi; c) 3,1–4,20 Tre tipi paradossali di esistenza e loro contrasto; b’) 5,1–23 Bilancio degli empi; a’) Esortazione ai principi 6,1-25.

In Sap 7–9, a cui appartiene il brano letto oggi nella liturgia (7,7-11), l’autore parla per la prima volta in prima persona e si presenta fittiziamente sotto le vesti di Salomone. Anche Sap 7–9 può essere strutturata in modo chiastico: a) 7,1-6 Salomone nacque come ogni altro uomo; b) 7,17-21 ma domandò la sapienza nella preghiera e ricevette con essa tutti i beni regali; c) ricevette ugualmente tutti i beni di carattere culturale; d) 7,22–8,1 Descrizione della sapienza: natura, origine e azione; a’) 8,2-8 La sapienza porta tutto ciò che forma una personalità; b’) 8,9-16 Con essa come sposa, Salomone si mostrerà un grande re; a’) 8,17-21 Per l’uomo di buone doti naturali, la sapienza si ottiene solo con la preghiera.

In Sap 7,1-6, il brano che precede immediatamente quello letto nella liturgia, l’autore “salomonico” si presenta come un uomo mortale come tutti: la sua nascita non si distingueva in nulla da quella degli altri uomini, come avviene per tutti i re: come per tutti, il pianto fu il suo primo grido, ha respirato l’aria comune, è caduto sulla terra dove tutti soffrono allo stesso modo, «una sola è l’entrata di tutti nella vita e uguale ne è l’uscita» (v. 6).

Pregai, mi fu donata la sapienza

“Salomone” ricorda perciò come, non essendo la sapienza un dono di natura posseduto fin dalla nascita, la richiese nella preghiera come un bene di cui aveva assolutamente bisogno per governare il popolo. Non la possedeva dalla nascita e, per giunta, era di giovane di età.

“Salomone” si riferisce al sogno che il re “reale” ebbe sull’altura di Gàbaon (1Re 3,4-14), pochi chilometri a nord di Gerusalemme, durante il quale gli apparve YHWH che gli chiese cosa dovesse donargli. Salomone gli ricordò le grazie concesse da YHWH a suo padre Davide e i meriti di quest’ultimo.

Salomone si dichiarò un “giovane ragazzo/na‘ar qāṭôn” inesperto di governo nei confronti di un popolo numeroso. Chiese quindi un “cuore che ascolta (CEI: “docile”)/lēb šōmēa‘”, per saper così render giustizia al popolo e distinguere il bene dal male.

YHWH si rallegrò che Salomone non avesse richiesto doni di gloria e di ricchezza e gli promise un “cuore sapiente e intelligente/lēb ḥākām wenābôn” più di ogni altro uomo del passato e del futuro (e quindi, a maggior ragione, un re) e il dono ulteriore di “ricchezza e gloria/‘ōšer gam-kābôd”, che non aveva richiesto. Gli promise inoltre che, se fosse rimasto fedele ai suoi comandi, gli avrebbe prolungato anche i giorni della sua vita.

Solo YHWH poteva dare a Salomone le doti necessarie a governare saggiamente in così giovane età. Sap 9 riporta una parafrasi della preghiera che Salomone innalzò a Gàbaon. Sul suo esempio, i saggi invocarono in seguito nella preghiera il dono della sapienza (cf. Sir 51,13-22).

“Salomone” riconosce di “aver ricevuto in dono/edothē (passivum divinum)” la “prudenza/phronēsis” e uno spirito di “sapienza/sōphia”. La “prudenza” è la sapienza pratica nel governo, ma anche qualcosa di più. Posta in parallelo con la “sapienza”, di cui si parla come “spirito di sapienza”, si ricollega allo spirito del Signore.

C’è una profonda connessione – nota J. Vílchez Líndez – tra “spirito santo educatore” (1,5), “spirito di sapienza” (1,6), spirito del Signore (1,7), sapienza-spirito (9,17). Lo spirito della sapienza, o la semplice sapienza, appartiene alla sfera strettamente divina. “Spirito” accenna ad un carattere di interiorità, che dà vigore e trasforma tutto ciò che penetra, tutto ciò su cui si posa (cf. Nm 24,2; Gdc 3,10; 6,3; 1Sam 10, 6.10; 2Cr 15,1; Is 11,2-5; 61,1; Ez 2,2; 3,24; 11,5; 36,26-27; 37,14).

Per i saggi, la sapienza è frutto dello spirito: «Ma è lo spirito che è nell’uomo, è il soffio dell’Onnipotente che lo fa intelligente» (Gb 32,8). Spirito e sapienza alla fine dell’itinerario biblico si identificheranno, come si può vedere in Sap 10,1ss, in cui la sapienza gioca lo stesso ruolo dello spirito del Signore nella storia di Israele secondo gli scritti antichi.

Quello che apparentemente sembra essere a portata di ogni uomo, anche giovane ma ben consigliato, il libro della Sapienza lo presenta come una qualità da invocare da Dio nella preghiera. Un cuore che “ascolta” non solo gli uomini e le loro necessità ma Dio e la sua parola, può garantire un esercizio della regalità/sovranità/governo più illuminato, sapiente, lungimirante, attento alle molteplici variabili da tener presenti e disponibile a venire incontro alle necessità profonde delle persone, al di là delle necessità primarie e impellenti.

La sapienza si presenta come una valutazione meditata delle priorità da raggiungere per una “ecologica integrale” che abbraccia e comprende un’antropologia integrale, fatta di apertura al sovrumano e alla collaborazione/solidarietà/comunione fra i popoli. Un messaggio modernissimo e attuale.

La preferii a tutto

“Salomone” inizia a tessere l’elogio della sapienza mediante il paragone, la sygkrisis, con tutti i tesori del mondo. È una comparazione che ricorre frequentemente nei testi sapienziali (cf. Pr 3,14.15; 8,10-11.19; 16,6; Gb 28,15-19). Egli ricorda come “preferì/proekrina” – hapax nella LXX: l’autore di Sapienza prende in prestito un verbo presente in un autore profano – la sapienza a tutti i beni materiali, sui quali prevale nettamente: i simboli del potere politico e regale, la ricchezza, di cui sono portati alcuni esempi simbolici come le gemme preziose, l’oro e l’argento.

L’esegeta G. Scarpat ricorda come Platone affermasse che greci e barbari mettevano la ricchezza al primo posto: «causa di tanta diseducazione è la lode che viene stoltamente tributata alla ricchezza, celebrata sia presso i greci sia presso i barbari: essi la preferiscono (prokrinontes) come il primo dei beni, mentre è al terzo posto…» (leg. 870a). “Salomone”, invece, la valuta pari a un “nulla”, a “po’ di sabbia” e come “fango”. Sapienza è valutare la superiorità dei fini a quella dei mezzi strumentali al conseguimento della realizzazione integrale della persona umana e delle comunità dei popoli.

La sapienza vale più dei beni più intimi personali, quali la salute (hygieia) e la bellezza (eumorphia). In Simposio 218e eumorphia è la bellezza esteriore e ingannatrice di Alcibiade, mentre la bellezza di Socrate è kallos come quella della sapienza (cf. 8,2).

Salute e bellezza sono valori molto preziosi per la mentalità ellenistica, anche se la sapienza semitica li abbracciava nel concetto di šālôm (cf. Pr 4,22; Sir 1,18; 30,14-16). La stima della bellezza fisica non è assente nei testi biblici: si veda ciò che vien detto di Davide (cf. 1Sam 16,12; 17,42), di un re (Sal 45,3), della donna (Sir 26,13-18; 36,27-22) e un intero libro, il Cantico dei Cantici.

La sapienza è più grande della luce, la più bella e dolce delle realtà umane che permettono di godere appieno della vita e del creato. Se però alla sera essa svanisce, la sapienza perdura intatta e invincibile. La malvagità ne uscirà sconfitta. La sua luminosità, infatti, supera quella del sole e delle stelle, ha a che fare con la sfera divina, alla quale partecipa e della quale è emanazione: «Ella in realtà è più radiosa del sole e supera ogni costellazione, paragonata alla luce risulta più luminosa; a questa, infatti, succede la notte, ma la malvagità non prevale sulla sapienza»; «La sapienza è splendida e non sfiorisce» (Sap 6,12a); «È riflesso della luce perenne» (7,26a).

Dio, infatti, fece la luce (cf. Gen 1,3) e “Dio è luce” (1Gv 1,5; cf. Gv 8,12).

Con la sapienza, tutto

Ottenuta la sapienza divina, al Salomone storico non mancarono sapienza umana proverbiale e ricchezze inestimabili (cf. 1Re 3,16-28 il giudizio su un bambino solo per due prostitute; 1Re 10: la regina di Saba rimase senza fiato di fronte alla ricchezza della corte di Salomone, v. 5; 2Cr 1,12.14-17; Sir 47,18). Sap 7,11 ricorda, infatti, come, attraverso la sapienza, “Salomone” ottenne tutti gli altri beni.

All’interno dell’“Elogio dei padri” (Sir 44,1–50,24), si trovano intessute le lodi della sapienza, della fama e della ricchezza di Salomone, ma non sono dimenticati i suoi ultimi tempi, segnati dall’idolatria e dalla lussuria, sprofondati nella stoltezza (aphrosynē) dalla ricaduta catastrofica a livello intergenerazionale: «Per i canti, i proverbi, le sentenze e per i responsi ti ammirarono i popoli. Nel nome del Signore Dio, che è chiamato Dio d’Israele, hai accumulato l’oro come stagno, hai ammassato l’argento come piombo. Ma hai steso i tuoi fianchi accanto alle donne e ne fosti dominato nel tuo corpo. Hai macchiato la tua gloria e hai profanato la tua discendenza, così da attirare l’ira divina sui tuoi figli ed essere colpito per la tua stoltezza (aphrosynē)» (Sir 47,17-20).

Una ricchezza incalcolabile è quindi nelle mani della sapienza, perché essa proviene da Dio e procura l’amicizia di Dio (cf. Sap 7,14).

L’uomo di oggi può essere contaminato dalla hybris delle possibilità tecniche, confondendo ciò che è tecnicamente possibile col moralmente fattibile, fino a giungere a vagheggiare ipotetiche connotazioni transumane per gli esseri umani.

Il Libro della Sapienza ricorda il faro di luce che illumina il cammino dell’uomo, penetrandolo nella profondità dello spazio e del tempo.

Sapienza veramente “umana” è la capacità di saper gestire il cammino dei giorni, avendo chiara in mente una priorità di valori, una prospettiva di crescita integrale dell’uomo, aperta alla comunione e alla globalizzazione della solidarietà, a ciò è “sovra-umano”, a ciò che non è visibile e rinchiudibile dalla mente umana. I mezzi sono mezzi, i fini sono fini. Vivere di piccolo cabotaggio è miseria morale, asfissia mentale, narrow-mindedness.

«Un politico guarda alle prossime elezioni; uno statista guarda alla prossima generazione. Un politico pensa al successo del suo partito; lo statista a quello del suo paese» (A politician […] thinks of the next election; a statesman of the next generation. A politician looks for the success of his party; a statesman for that of the country, James Freeman Clarke, 1810 – 1888).

Senza la sapienza, tutto è perduto. Con la sapienza tutto è ottenuto, custodito, trasmesso ai posteri.

“Fare” per ereditare?

Dopo l’insegnamento sul discepolo rispetto al comandamento di Dio (10,1-12) e il quadretto dell’accoglienza del bambino come l’unico atteggiamento adatto al discepolo per accogliere il Regno (10,13-17), l’evangelista Marco ricupera un lungo insegnamento di Gesù circa il discepolo e la radicalità della sequela (così la strutturazione del testo secondo M. Grilli).

L’uomo (“un giovane/neaniskos” secondo Mt 19,20, un “capo/archōn” [dei giudei?] in Lc 18,18) che corre a inginocchiarsi di fronte a Gesù è un entusiasta, un impulsivo che agisce probabilmente sull’onda della sua vita vissuta con perfetta integrità nel giudaismo fin dalla propria giovinezza.

Chiede cosa debba “fare per ereditare/poien hina klēronomēsō”. Si pensava che la vita eterna, cioè quella futura (cf. Dn 12,2; Sal 3,16; 1Enoch 37,4; 40,9; 58,3, 2Mac 7,9; 4Mac 15,3; l’escatologia in parte presenziale di Giovanni non è ancora stata scritta) si ricevesse (cf. Mc 10,30 lambanein), si acquisisse (Erma, Mand III,5 peripoieisthai), che in essa si “entrasse” (Mc 9,43.45 eiserchomai). Nella tarda Lettera a Tito – probabilmente opera della seconda tradizione paolina – essa è oggetto di speranza: «nella speranza della vita eterna» (Tt 1,2a); «affinché, giustificati per la sua grazia, diventassimo, nella speranza, eredi (klēronomoi genēthōmen) della vita eterna».

Gesù “è in cammino verso la strada/ekporeuomenou autou eis hodon” che lo porta a Gerusalemme, al dono di sé, comunque si presenti la fine. È “in uscita”, per “dare la vita/dounai tēn psychēn” in riscatto per molti (cf. 10,45). L’uomo corre da lui, invece, tutto centrato sul “fare per avere/ereditare”.

Lo amò

Gesù respinge innanzitutto una probabile sfumatura di leziosità e adulazione (“Maestro buono”) e precisa amabilmente, ma con decisione, che Uno solo è buono, Dio.

Gesù rimanda quindi l’uomo alla sua religiosità ebraica, alla risposta all’alleanza che YHWH ha stipulato con Israele donandogli la Torah dopo la sua liberazione dall’Egitto. La “via” per rimanere nella “vita” e nella libertà consiste nell’ascoltare, custodire e mettere in pratica le “Dieci Parole” (Dt 5,6-21) e la Torah nel suo insieme, amando YHWH con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le proprie forze (Dt 6,4-13).

Gesù dà per scontato che l’uomo conosca i comandamenti di YHWH, e ne tralascia quindi i primi quattro – secondo la suddivisione seguita nella tradizione ebraica – che presuppone perfettamente conosciuti e praticati dall’uomo. Ricorda solo quelli della “seconda tavola”, quella dei comandamenti riguardanti il prossimo, i comandamenti “sociali”. Prima elenca cinque secche proibizioni (gr. /ebr. lō’ = assolutamente, non… mai) e poi il comandamento positivo di onorare i genitori. Un’inversione voluta? Un ordine “libero” tradizionale? In ogni caso, con il cuore libero dal male, ci si può riconoscere veramente “figli” nella riconoscenza serena e grata.

Il giudeo adulto esterna con sicurezza la qualità integerrima della sua vita religiosa fin dalla propria giovinezza (“tutte queste cose le ho custodite/praticate/gr. phylassein/ebr. perlopiù šāmar”).

Niente giustifica il sospetto che l’uomo stia mentendo. E infatti l’evangelista Marco annota che Gesù lo «guardò/fissò “dentro” rivolto a lui/emblepsas autōi». Uno sguardo intenso, profondo, che dalla pupilla giunge al “cuore/lēb” volitivo e generoso, radicale (cf. Dt 6,5) dell’uomo.

Allo sguardo intenso Gesù fa seguire un moto di amore: “lo amò/ēgapēsen auton”).

Lo amò! Nessuna cultura del disprezzo, della sostituzione! Nessuna accusa di esteriorismo, di legalismo farisaico. Gesù amò il suo correligionario, amò la fede ebraica vissuta con decisione.

Vendi tutto e segui me!

All’uomo che vive con radicalità la propria vita di fede in YHWH, Gesù propone con radicalità un percorso vocazionale personalizzato di sequela dietro a lui vissuta anche esternamente come i discepoli più intimi, cioè la vita itinerante al suo seguito.

L’uomo non deve smettere di essere ebreo per diventare cristiano (!). Non deve smettere di essere cristiano per diventare un consacrato nella vita religiosa… Gesù propone all’uomo un salto di qualità nell’individuazione del volto escatologico di YHWH in quello del profeta/messia/Figlio dell’uomo itinerante nella povertà gioiosa e nell’annuncio liberante della buona novella del riscatto definitivo di Israele.

Vendi tutto e segui me! Segui il volto povero del Figlio dell’uomo potentemente debole, che anticipa nei segni la liberazione propria del Regno: il volto pieno del Padre e la vita filiale, fraterna e “divina”, dei discepoli di Gesù, il Figlio di Dio (cf. Mc 1,1; 15,39).

Non preoccuparti di “fare”, preoccupati di “dare”, dopo aver ricevuto in dono una vita filiale. Nessun contratto, nessuna “ricompensa” mercantilistica, neanche pensata inconsciamente.

Niente do ut des. Ricevi, da’ e vivi.

Un cammello triste

Sentito la proposta/il discorso di Gesù, l’ottimo uomo giudeo “si incupisce/stygnasas” (hapax marciano), come il cielo che si fa rosso cupo minacciando tempesta (cf. Mt 16,3, sola altra ricorrenza nel NT). Una burrasca lo agita. I “molti beni (acquistati)/ktēmata” premono sul cuore, sfaldano l’integrità della sua corrispondenza al patto.

Dt 6,5 comandava: “Tu amerai YHWH, tuo Dio… con tutte le tue forze (bekol-me’ōdekā)”. Le “forze” iniziarono a essere comprese nella tradizione interpretativa ebraica anche come “le ricchezze/i beni”.

La tradizione dice che nel 135 d.C., al termine della seconda rivolta ebraica contro Roma, rabbi Akiba comprese quello che Dt 6,5 realmente chiedeva proprio nel momento in cui stava per morire sotto tortura dei romani che lo stavano scuoiando vivo: «Amerai YHWH, anche se ti toglie la vita». Amare YHWH con tutta la vita, anche quando gli uomini ti tolgono la vita…

Il buon uomo giudeo, incupito, invece di “seguire Gesù/akolouthei moi”, “se ne va via rattristato/apēlthen lypoumenos”. Andare nella direzione opposta alla propria vocazione fa diventare tristi. L’uomo non solo diventa triste (Lc 18,23 perilypos egenēthē), , ma se ne va via rattristato da se stesso, dalle proprie scelte (apēlthen lypoumenos, Mc 10, 22 = Mt 19,22, participio presente medio-passivo, più forte del semplice aggettivo).

Gesù amò il cammello triste

Gesù “getta lo sguardo attorno/periblepsamenos” ai suoi discepoli, come il periscopio di un sommergibile. Dal suo cuore fa emergere un suo sguardo circolare che scruta i discepoli, vicini ma “lontani” allo stesso tempo. Come è difficile entrare nel regno di Dio per quelli che hanno beni “posseduti/usati/chrēmata” (<chraomai = usare/servirsi di) – constata con una punta di amarezza di uno che sta “perdendo” qualcuno di caro –. Il dramma è che i “beni usati/servi” diventano “beni padroni”.

Lo spazio vitale diminuisce, il campo mentale restringe le proprie visuali. Il cuore si accartoccia su ciò che vede e tocca. L’occhio guarda il dito e non più la luna. Le stelle sono sparite dall’orizzonte.

La sapienza se n’è andata, è rimasta la tecnica, la technē. Sola, spoglia, triste.

Rimane l’uomo tecnico. Autopossidente. Onnipossidente.

Un “cammello/kamēlos” triste, che non riesce a passare per la cruna di un ago.

Una “gomena/kamilos” che non riesce a farsi filo.

Un cammello con la pancia piena, strapieno di risorse. Per andare dove? Con chi? Perché poi? Perché l’essere e non il nulla?

Gesù amò il cammello triste. Il cammello si voltò, e seguì lui.

La sapienza tornò a illuminare di gioia i suoi occhi e a rinfrescare le sue froge riarse.

Caracollò felice dietro a lui.

Dietro le dune spuntava il giorno nuovo.

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