Il dilemma dei cristiani dinnanzi al virus

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Francesco celebra a Santa Marta (foto: Handout/AFP)

I preti devono avere il «il coraggio di uscire e andare dagli ammalati, portando la forza della Parola di Dio e l’eucarestia e accompagnare gli operatori sanitari, i volontari, in questo lavoro che stanno facendo». Nella piccola cappella della residenza Santa Marta, dove celebra la messa privata ogni mattina, papa Francesco ha lanciato un vigoroso appello lo scorso martedì 10 marzo, mentre l’Italia intera è confinata nel tentativo di frenare la propagazione del Coronavirus e le messe pubbliche sono sospese almeno fino al 3 aprile.

Bisogna dunque continuare a visitare gli ammalati, a qualunque costo e a rischio della propria salute, ma soprattutto a rischio della salute delle persone più fragili alle quali il virus potrebbe essere trasmesso? In altre parole: bisogna seguire gli inviti alla prudenza, oppure obbedire all’imperativo evangelico di essere presenti presso i malati?

Sepoltura senza passare dalla chiesa

Nella diocesi di Brescia si seguono le disposizioni governative e sono sospese le visite per portare l’eucaristia agli ammalati e le veglie funebri nelle case. Sempre più spesso coloro che muoiono per le conseguenze del contagio da Coronavirus vengono portati direttamente al cimitero dove viene celebrato il rito breve della sepoltura, senza passare dalla chiesa.

Secondo il medico in pensione François Pernin, impegnato nella diocesi di Ajaccio che ha già una quarantina di casi, «l’esortazione del papa non è una buona idea». «Persino irresponsabile», la definisce Pernin, perché «essere personalmente responsabili significa non esporsi inutilmente. Si riuscirà a frenare il contagio solo se si seguono strettamente le disposizioni delle autorità».

A Lodi, epicentro dell’infezione che ha colpito tutta la Lombardia, don Alberto Curioni, responsabile della pastorale della salute della diocesi, da due settimane obbedisce «con sofferenza» all’ingiunzione di sospendere le visite agli ammalati negli ospedali per portare la comunione. «L’obiettivo è collaborare a contenere il contagio», ma – sostiene ancora – «la visita agli ammalati gravi a domicilio resta comunque legittima per noi preti».

«Seminare il bene in mezzo al male»

«Sarebbe curioso che smettessimo di essere cristiani per il fatto che dobbiamo combattere il male», afferma in un comunicato mons. Luc Ravel, vescovo di Strasburgo, una delle diocesi dove le messe pubbliche sono state sospese. «Non siamo noi cristiani chiamati proprio a questo con la grazia di Cristo? Seminare il bene in mezzo al male, la calma nel cuore della tempesta, il coraggio dove regna la paura?». Certo, in questa «lotta contro la propagazione» del virus «dobbiamo collaborare totalmente con lo Stato e coi comuni che hanno la responsabilità del bene di tutti». E questo può chiedere a noi di «rinunciare temporaneamente» alle celebrazioni pubbliche.

«Ma la missione non si ferma allargandosi le misure restrittive». Anzi, questo tempo deve invitarci a riflettere sulle «modalità nuove con le quali possiamo sostenere i più fragili, che rischiano di vivere male il loro isolamento, per condividere la parola di Dio attraverso i testi, per costruire delle catene di preghiera ecc.». Come stanno facendo i cappellani degli ospedali nelle zone in cui è loro interdetta la visita agli ammalati.

«Un legame si può mantenere con la preghiera»

«I membri del “Servizio evangelico ai malati” contattano coloro che sono soliti visitare per dire loro che non li hanno dimenticati e che mantengono vivo un legame con loro nella preghiera», dice Claudine Pabst, delegata per la pastorale della salute della dicesi di Strasburgo. «È molto doloroso rinunciare alla visita agli ammalati che soffrono e sono soli», sostiene Lucien Lebon, volontario della cappellania presso l’ospedale di Beauvais. «Ma in questi ultimi giorni ho fatto discernimento a tale proposito nella preghiera. Mi sono chiesto: che cosa è giusto agli occhi di Dio? Dal momento che potrei essere contagiato senza saperlo, e che di conseguenza potrei contagiare altre persone fragili, non ho il diritto di prendermi questo rischio».

«Non bisogna tentare Dio non prendendo le dovute precauzioni», afferma il gesuita François Euvé, caporedattore della rivista Études. «Certo, durante le grandi pestilenze i cristiani sono stati spesso coloro che per primi hanno portato soccorso ai malati o assistito i morenti. Ma nella società medievale il “sistema sanitario” era gestito dalla Chiesa. Noi non viviamo in quel tempo e oggi curare chiede precise competenze. Ciò che i cristiani possono e devono assolutamente fare è evitare che l’epidemia si diffonda, soprattutto a discapito dei più deboli». «Si può esercitare la propria solidarietà anche in modo diverso dalla visita agli ammalati, assicurando il sostegno scolastico ai bambini se le scuole sono chiuse; oppure organizzando corsi per persone anziane e sole», ribadisce il medico corso François Pernin, che nonostante la pensione è stato richiamato in aiuto dei suoi colleghi medici.

Consegne cangianti

I cristiani possono manifestare la loro empatia con le persone sofferenti. A Crépy-en-Valois, il parroco – padre Guillaume Devaux – è già stato chiamato sei volte per le esequie di persone decedute a causa del Coronavirus. «Il contesto attuale accresce lo sconforto di queste famiglie. Non solo perdono un loro caro, ma a nessuno è concesso di venire alle esequie e questo comunica la sensazione di essere “appestati”. Le famiglie sono molto sensibili alla presenza della Chiesa in questo momento: dobbiamo testimoniare loro la compassione di Cristo».

Senza considerare che le consegne trasmesse alla gente cambiano di giorno in giorno, al ritmo dell’evoluzione dell’epidemia e delle conoscenze relative. A Arradon, il parroco Arnaud Calonne ha dovuto prima annullare tutte le celebrazioni (2 marzo), e poi è stato di nuovo autorizzato a celebrare in pubblico (6 marzo). «Cerco di vivere tutto questo spiritualmente, come un cammino di Quaresima, per imparare la docilità, l’affidarmi e il rimettermi alla grazia di Dio. Questi giorni ci chiedono in fondo di essere vissuti come un tempo di conversione».

Articolo pubblicato su La Croix (edizione online) lo scorso 10 marzo 2020

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