Polonia: Wyszynski e i successori

di:

vecsovi

Perdono e visione politica in Wyszynski, ombre ecclesiali e settarismo politico nei suoi successori di oggi: una semplificazione eccessiva, ma può dare l’idea della difficile condizione della Chiesa cattolica in Polonia.

Nel breviario del Primate del millennio vi erano, oltre ai santini, due foglietti. Nel primo Wyszynski aveva annotato i nomi dei suoi preti che erano usciti dal ministero. Nel secondo vi era un nome solo: Boleslaw Bierut. Era il funzionario che aveva firmato il suo mandato di arresto (fu in prigione dal 1953 al 1956). «Prego per lui ogni giorno perché era un uomo che ha fatto scelte sbagliate nella sua vita, ma in realtà non era cattivo»: lo ha ricordato mons. S. Gadecki, presidente della conferenza episcopale, il 23 giugno scorso.

E ha sottolineato che il primate, benché non avesse competenze diplomatiche e politiche, era considerato uno statista eccezionale dai cattolici e dai suoi oppositori comunisti: «È stato lui a rafforzare la libertà interiore dei suoi connazionali, il senso di dignità, la fede e l’identità nazionale, mostrando come costruire la vita sociale», fino alla mediazione fra Solidarnosc e autorità nei suoi ultimi mesi di vita (1981).

La sua beatificazione, prevista per il 12 settembre prossimo cadrà in un momento in cui la sua Chiesa patisce l’esplosione delle denunce di abusi (peraltro positivamente riconosciuti e attivamente censurati) e sembra prigioniera di una politica a lei favorevole, ma che la condiziona secondo un indirizzo settario.

Vescovi e censure

Sta diventando inquietante (e liberante) la lista dei vescovi sottoposti a censure in ragione della copertura di preti abusatori: J. Paetz (2002), H. Gulbinowicz (2020), S. L. Glódz, E. Janak, T. Rakoczy, J. Tirawa, Z. Kiernikowski, S. Regmunt, S. Napierala  (2021).

Altre indagini sono in corso, fra cui quella a carico di S. Dziwisz (arcivescovo emerito di Cracovia e a lungo segretario personale di Wojtyla). Ha fatto scalpore la scelta di mons.  L. Glódz che, censurato da Roma, si è fatto eleggere come sindaco a Piaski, dove ha una tenuta di 52  acri, e si è fatto fotografare sorridente sulla macchina di campagna assieme al cane. «Purtroppo non si tratta di una telenovela – ha commentato il trimestrale cattolico Wiez – ma è parte della nostra vita ecclesiale in Polonia ».

Al primo rapporto della fondazione San Giuseppe (incaricata di gestire le denunce e i percorsi di riabilitazione delle vittime e degli abusatori) presentato nel 2019 in cui si parlava di 382 denunciati, 624 vittime e delle avviate attività della fondazione, è seguito il 28 giugno scorso un secondo rapporto sugli abusi compiuti dal 1958 al 2020.

Le denunce sono state raccolte dal 2018 al 2020. 368 le indagini (su 292 preti diocesani e religiosi). Le vittime (347) sono per il 47% sotto i 15 anni e altrettante sopra, divise in forma equivalente fra maschi e femmine. Le pratiche pienamente istruite sono il 39%, il 51% sono ancora aperte e il 10% sono state giudicate inattendibili. 65 segnalazioni riguardano atti commessi negli ultime tre anni, dal 2018 al 2020. «Siamo di fronte a  un’onda di denunce – ha detto p. Adam Zak, il responsabile operativo della fondazione – e la tendenza attuale non è al ribasso. È il segno che resta potenzialmente da scoprire un grande numero di casi che potranno essere denunciati in futuro».

E ha aggiunto una considerazione sull’equivalenza fra maschi e femmine tra le vittime: «È bene evitare la semplificazione che si registra nel dibattito in Polonia negli ambiti dei LGBT, quella di ridurre il problema alla questione omosessualità, di confondere gli ambiti stigmatizzando alcuni contesti. I nostri risultati sono assai diversi da studi similari condotti negli Stati Uniti dal 2000 o qualche anno dopo in Germania, dove le vittime maschili risultavano nettamente predominanti».

Trasparenza coraggiosa

Il 48% delle denunce è arrivato direttamente dalle vittime. Per l’11% da preti o religiosi. Per il 4% direttamente dall’incaricato diocesano o religioso relativo agli abusi. Il 13% da familiari o conoscenti e il 3% da autorità statali. Il resto da fonti diverse come i giornali. Dal mondo clericale sono arrivata il 19% delle accuse.

Per quanto riguarda i (presunti) attori delle violenze, per il 46% sono stati rimossi temporaneamente dai loro incarichi pastorali, o da contatti con giovani e bambini (36%) o collocati in forma restrittiva in luoghi particolari. Il 16% è già in pensione. I casi che riguardano vittime minori sono stati segnalati alla giustizia civile, ma non nel caso in cui l’interessato era già morto o quando la denuncia è risultata infondata.

Il primate polacco che è anche vescovo responsabile per gli abusi, W. Polak, ha parlato di «grande vergogna e immenso dolore», rinnovando la richiesta di perdono per le negligenze dei responsabili ecclesiali. La sofferta e meritoria opera di quanti lavorano per scoprire gli scandali e curare le vittime, se da una parte ha evitato la facile demonizzazione dell’intera Chiesa, dall’altra, non può impedire la vistosa crescita dei processi di secolarizzazione. Come ha ammesso una ricercatrice, M. Grabowska, se prima era strisciante ora sta galoppando.

La frequenza alla messa è scesa dal 50 al 37% e sono in forte calo le vocazioni al presbiterato e alla vita religiosa. Fra i laici credenti cresce la domanda di sinodalità e l’attesa della preparazione al sinodo romano sulla questione. Sono convinti che senza una significativa conversione ecclesiale quanti si stanno allontanando non torneranno più. Per il direttore dell’agenzia informativa cattolica KAI, M. Przeciszewski, la crescita delle censure ai vescovi può rivelarsi un’opportunità per fare pulizia nella Chiesa.

I conservatori non aiutano

La rigidità della destra cattolica non aiuta. M. Jedraszewski, arcivescovo di Cracovia e vicepresidente della conferenza episcopale, in occasione di una messa funebre in memoria di Lech Kaczynski, ex presidente della repubblica, morto insieme alla moglie e a 94, fra ministri e alti funzionari dello stato, nel disastro aereo di Smolensk nel 2010, davanti al fratello gemello, Jaroslaw, ha inneggiato al servizio compiuto dai due fratelli: «Noi, come Chiesa, discepoli dell’insegnamento di Cristo abbiamo  il diritto di rendere grazie all’ex presidente e al fratello. Il popolo di Dio  è lieto per tutti gli anni in cui essi hanno vissuto in mezzo a noi». «Abbiamo il dovere di ringraziare per il dono della loro vita per la Polonia».

Lo stesso prelato si è distinto nell’indicare l’ideologia LGBT come la “piaga arcobaleno” non meno pericolosa dell’ideologia comunista e nazista del passato. Ha denunciato Bruxelles, Berlino e New York di imporre una visione neo-marxista e il «cosiddetto stato di diritto».

Ma anche la posizione più mediana e prudente dell’attuale presidente della Conferenza, mons. S. Gadecki, è interna alla pretesa ecclesiale di imporre allo stato una visione, seppur giustificata con il riferimento alla “natura” e non alla fede. Ha reagito duramente alla risoluzione del Parlamento europeo che ha accolto il rapporto pro-aborto del croato Matic.

Se l’accusa al documento di aver violato le competenze degli stati membri e di aver trasformato la non punibilità dell’aborto in un diritto positivo trova larghi consensi sia a livello di Comece (la Commissione europea degli episcopati dell’Unione), sia fra le Chiese ortodosse (in merito si è espresso il patriarca di Romania), non altrettanto la pretesa imperativa verso lo stato laico.

Ha parlato di una strategia delle «organizzazioni che vogliono introdurre questo tipo di cambiamenti nella legge che, consapevoli di non essere in grado di convincere la popolazione locale, hanno adottato una strategia di attuazione dall’alto al basso, utilizzando le istituzioni internazionali e la loro autorità». Difficilmente il contesto dei «principi non negoziabili» sarà condiviso dalla società polacca del prossimo futuro, sollecitata da una secolarizzazione non facilmente contenibile.

In previsione della visita ad limina dei vescovi a Roma che si aprirà ad ottobre, c’è chi prevede la drastica decisione condivisa dall’episcopato cileno, quella delle dimissioni collettive. In realtà credo che proprio il difficile lavoro della Fondazione san Giuseppe e il coraggio nell’affrontare il tema degli abusi non renderà viabile una decisione che sarebbe destabilizzante per l’intero paese.

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