Una delle riflessioni leopardiane più sconsolate sull’insensatezza delle illusioni e sull’insignificanza della parola “felicità” è contenuta nel Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere. La storia è nota: senza un minimo di cornice, come fosse un vero e proprio copione teatrale, due personaggi – qualificati l’uno come “venditore”, l’altro come “passeggere” – entrano in dialogo tra loro.
Lo sfondo spazio-temporale è affidato alla immaginazione del lettore e alla sua capacità di ricostruirlo a partire dalle parole che i due protagonisti vanno scambiandosi. Il venditore è un venditore di almanacchi e lunari nuovi (Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi? – questa è la sua prima battuta).
Possiamo immaginare, dunque, che il breve racconto sia ambientato nei giorni che precedono la fine dell’anno, in una qualsiasi via cittadina. Attraverso un serrato incalzare di domande, il passeggere – che incarna la figura del filosofo, ossia dell’uomo che si pone con atteggiamento critico e interrogativo di fronte alla vita – smonta tutti i tentativi del venditore – l’uomo qualunque che si pasce di illusioni – di presentargli la vita come una cosa bella. Ogni uomo, dimostra il passeggere-filosofo, è consapevole del fatto che la vita dispensa, anno dopo anno, più male che bene: E si vede chiaro che ciascuno è d’opinione che sia stato più o di più peso il male che gli è toccato, che il bene; se a patto di riavere la vita di prima, con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere.
Eppure tutti continuano a coltivare l’illusione che l’anno che verrà possa tenere in serbo felicità insperate: Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura.
La conclusione è amara e sconsolata, ma il tono con cui il passeggere si rivolge all’ambulante si mantiene, dall’inizio alla fine del dialogo, su un registro leggero, che non si lascia mai tentare dal sarcasmo.
Anzi, le ultime parole dell’Operetta si declinano con ancor maggior garbo e gentilezza: Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?
Quando tutto va a rotoli, quando tutto è disincanto e disillusione, quando l’amarezza intride le giornate, cosa resta, cosa ci resta? Leopardi passeggere-filosofo attraverso questo breve intensissimo racconto ci dimostra che, al fondo di tutto, ci resta sempre la possibilità di essere gentili gli uni con gli altri. Al fondo ci resta la gentilezza.
La vita dispenserà anche a suo capriccio piaceri e dispiaceri, ma nelle nostre mani resterà sempre la possibilità di dar forma alle relazioni reciproche nel segno del garbo e della cortesia. Della gentilezza, appunto.
Ma cos’è la gentilezza? Cosa significa essere gentili? Dentro la parola gentilezza ritroviamo il termine latino gens/gentes, che stava ad indicare le famiglie di antico retaggio nobiliare e aristocratico. Sarà il movimento poetico e di pensiero dello Stilnovo, con Guinizzelli e Dante, a teorizzare una nuova forma di nobiltà, non più questione di eredità familiare, di sangue e di natali, ma di cuore, come canta l’incipit della più famosa canzone guinizzelliana: Al cor gentil rempaira sempre amore…
La gentilezza è per tutti, purché la si sappia coltivare dentro di sé, nelle profondità e nella verità del proprio cuore.
In un’epoca in cui lo spontaneismo, il “dico sempre quello che penso, io”, lo sbattere la porta, l’alzare la voce, la parolaccia, l’insulto, il gesto scomposto, lo schiaffo e il pugno, non sono più proclami ribelli ma banale quotidianità di un mondo virtuale sempre meno virtuoso, la vera sfida è recuperare una modalità del comunicare e del reciproco relazionarsi che sappia far tesoro del potenziale di nobiltà, cortesia e gentilezza custodito dalla nostra umanità.
Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia, quand’ella altrui saluta…
Nell’italiano di Dante quel “pare” non ha la labilità del nostro “sembra”, ma dichiara la forza di una forma che è sostanza, ossia un apparire che mostra all’esterno ciò che è stabile possesso interiore. La sfida della gentilezza vera è questa: essere non, semplicemente, una performance di buona educazione formale, ma diventare sostanza che informa la vita, così che ...par che sia una cosa venuta/da cielo in terra a miracol mostrare.