Doppio processo per il parroco abusatore

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abusi

Nulla osta a che il ministro di culto, giudicato dall’Autorità ecclesiastica competente per un «delitto contro il sesto comandamento del Decalogo commesso con un minore di diciotto anni», e che abbia già scontato, in ragione della suo status clericale, le pene dalla medesima Autorità irrogate a conclusione di un “processo penale amministrativo”, possa essere giudicato, in ragione del suo status di cittadino italiano, dalla giurisdizione statale per l’analogo reato rinvenibile nell’art. 609-quater del codice penale che punisce chi pone in essere atti sessuali nei confronti di chi non ha compiuto gli anni sedici.

È il principio di diritto affermato nella sentenza n. 34576 del 17 settembre 2021 con la quale la Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione affronta la questione della cumulabilità delle sanzioni canoniche inflitte dalla giurisdizione ecclesiastica agli appartenenti all’ordine clericale per delitti violativi del sesto comandamento del Decalogo commessi con minori di diciotto anni e delle pene ai medesimi comminate dalla giurisdizione statale per il reato di atti sessuali compiuti con persone che non hanno compiuto gli anni sedici di età.

Il fatto

Indagato per atti sessuali compiuti con ragazzo infrasedicenne, un parroco della diocesi di Pescara-Penne nel giugno 2015 viene condannato, a norma del codice di diritto canonico e delle nuove norme De gravioribus delictis, con decreto penale del delegato del vescovo diocesano alla pena del divieto perpetuo di esercizio del ministero presbiterale con minori di età, della sospensione del ministero presbiterale per un termine di tre anni e della privazione della libertà personale, con obbligo di dimora per un periodo di cinque anni presso una struttura residenziale per trascorrervi una vita di preghiera e di penitenza e per seguire un percorso psicoterapeutico.

Nel frattempo, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Pescara avvia, nei confronti del parroco, un procedimento penale per il reato di cui all’art. 609-quater del codice penale per aver compiuto atti sessuali con un ragazzo infrasedicenne affidatogli per ragioni di educazione religiosa.

Nel 2017 la Corte di Cassazione respinge, dichiarandolo inammissibile, il ricorso dell’indagato che, invocando il principio del ne bis in idem, ritiene di non poter essere giudicato anche dalla giurisdizione statale, per un reato per il quale sta scontando una pena inflitta dalla giurisdizione ecclesiastica.

Nel 2018 il Tribunale di Pescara, con rito abbreviato, condanna l’imputato alla pena di 3 anni e 8 mesi, all’interdizione dai pubblici uffici per 5 anni, al risarcimento danni con una provvisionale di 30 mila euro per la vittima e di 10 mila euro a testa per la madre e la sorella del ragazzo abusato.

Nel maggio 2020 la Corte d’Appello di L’Aquila conferma la sentenza del Tribunale di Pescara.

L’imputato, nel ricorrere in Cassazione avverso la sentenza di condanna della Corte di Appello di L’Aquila, solleva numerosi motivi di doglianza: 8 inerenti la conferma della condanna e 5 di natura preliminare.

Con la citata sentenza del 17 settembre 2021 tutti i motivi sono respinti dalla Corte di Cassazione o perché inammissibili o perché infondati.

Meritano di essere analizzati quelli di natura preliminare, con i quali l’interessato deduce la violazione del principio di diritto del ne bis in idem, previsto dall’art. 649 del codice di procedura penale, che vieta di giudicare nuovamente, per il medesimo reato, chi è già stato condannato o assolto nel corso di un precedente procedimento penale.

La regola del ne bis in idem

Ne bis in idem è una locuzione latina che, tradotta alla lettera, significa “non due volte per la stessa cosa”.

Si tratta di un brocardo che esprime un principio del diritto in forza del quale un giudice non si può esprimere due volte sulla stessa azione, se si è formata la cosa giudicata.

La regola del ne bis in idem viene applicata solo se i due possibili processi hanno degli elementi esattamente identici quanto alle parti in processo, alla domanda giudiziale proposta dalle parti e ai motivi alla base della domanda giudiziale.

Quattro sostanzialmente i motivi per i quali si ritiene ragionevole che una persona non possa essere processata due volte per la stessa fattispecie di reato:

  • il sistema giudiziario non può vessare indefinitamente un cittadino sulla stessa circostanza;
  • lo Stato e i suoi organi hanno mezzi economici e poteri di persecuzione più ampi di quanti il cittadino ne abbia di difesa;
  • l’essere esposti senza garanzia alla pubblica accusa fu, e potrebbe essere se non regolamentato, uno strumento di tirannia;
  • il cittadino ha il diritto di sapere che il giudizio cui è stato sottoposto si è concluso.

Il principio del ne bis in idem è previsto e regolamentato anche da numerose norme di diritto internazionale ed europeo. Esso, tuttavia, non costituisce principio generale di diritto internazionale riconosciuto e automaticamente recepito dal nostro ordinamento ai sensi dell’art. 10 della Costituzione in tema di conformazione dell’ordinamento giuridico italiano alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute.

Reati sessuali su minori: perché un doppio processo per il ministro di culto

Nel respingere tutti i motivi inerenti la questione preliminare, la Cassazione offre una puntuale disamina sul principio di diritto secondo cui non si ha violazione del ne bis in idem allorquando un ministro di culto, già indagato per un «delitto contro il sesto comandamento del Decalogo commesso con un minore di diciotto anni», e condannato a conclusione di un “processo penale amministrativo”, è processato e condannato anche dalla giurisdizione statale a norma dell’art. 609-quater del codice penale che punisce chi pone in essere atti sessuali nei confronti di una persona infrasedicenne.

La complessa e articolata motivazione della Corte di Cassazione è sintetizzabile nei termini che seguono:

  • il ne bis in idem non rientra nella sfera dei diritti inviolabili della persona umana e non ha natura di principio di diritto internazionale in grado di prevalere su quello di territorialità sancito dagli artt. 6 e 11 del codice penale, secondo cui chiunque commette un reato nel territorio dello Stato è punito secondo la legge italiana, e il cittadino o lo straniero che abbia commesso un reato nello Stato italiano è giudicato nello Stato anche se giudicato all’estero;
  • in generale lo Stato italiano, come la maggior parte degli Stati moderni, si ispira al principio della territorialità e della obbligatorietà generale della legge penale, al fine di assicurare una giustizia che tenga conto delle diverse valutazioni sociali e politiche delle condotte umane, in considerazione del fatto che, soprattutto in campo penale, il peso attribuito ad alcuni reati è diverso anche nella coscienza popolare;
  • il ne bis in idem può semmai essere applicato in presenza di convenzioni ratificate e rese esecutive tra Stati, vincolanti solo per i contraenti e nei limiti dell’accordo raggiunto.
  • il principio del ne bis in idem si può, conseguentemente, ritenere applicabile solo per effetto di accordi tra Santa Sede e Italia o di Convenzioni alle quali entrambe abbiano aderito;
  • la Santa Sede, avendo siglato solo la Convenzione monetaria europea, è rimasta fuori anche dalla Convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen, il cui art. 54 stabilisce che una persona giudicata con sentenza definitiva in una Parte contraente non può essere sottoposta ad un procedimento penale per i medesimi fatti in un’altra Parte contraente;
  • è da escludere anche che la Santa Sede abbia aderito all’Unione Europea, avendo solo una stabile rappresentanza a Bruxelles, ed essendo ininfluente, in assenza di una formale adesione, il fatto che il Vaticano sia un’“enclave” dell’Italia;
  • la Santa Sede non è membro dell’Organizzazione delle Nazioni unite, dove ha il solo status di “osservatore permanente”;
  • nessun effetto può derivare neppure dal Trattato del 1929 tra l’Italia e la Santa Sede, che si è limitato a consentire la libera circolazione di merci verso lo Stato Vaticano o istituzioni o uffici della Santa Sede;
  • in particolare, non è applicabile l’art. 23 del suddetto Trattato del 1929, secondo il quale per l’esecuzione delle sentenze emanate dai tribunali della città del Vaticano si applicano le norme di diritto internazionale;
  • la suddetta previsione, però, riguarda le sentenze dei Tribunali dello Stato del Vaticano e non quelle delle autorità ecclesiastiche della Santa Sede, come nel caso esaminato;
  • non è senza significato che il Protocollo Addizionale al Concordato tra Italia e Santa Sede del 1984 preveda che l’autorità giudiziaria italiana debba dare comunicazione alle autorità ecclesiastiche dell’avvio del procedimento penale, così come l’art. 129, comma 2, delle disposizioni attuative del codice di procedura penale disponga che, quando l’azione penale è esercitata nei confronti di un ministro di culto o di un religioso, l’informazione sia inviata al vescovo della diocesi cui appartiene l’imputato, essendo entrambe le norme finalizzate a consentite l’attivazione anche del procedimento canonico;
  • una conferma della legittima concorrenza tra la due giurisdizioni è rinvenibile nelle Linee guida per i casi di abuso sessuale nei confronti di minori da parte di chierici della Conferenza episcopale italiana, aggiornate nel giugno 2019, con le quali si ribadisce l’autonomia delle due vie e l’importanza della cooperazione tra vescovo e autorità civili.
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