Libertà religiosa in Italia

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Ancora oggi in Italia manca una moderna legge sulla libertà religiosa e di coscienza. A causa di ciò, milioni di italiani e italiane – o di “nuovi/e italiani/e” – che professano una religione “diversa dalla cattolica” vivono la loro condizione giuridica come se esistesse una sorta di “gerarchia dei diritti e delle opportunità”.

La legge che non c’è. Proposta per una legge sulla libertà religiosa in Italia è il titolo di un volume, curato da vari giuristi (Roberto Zaccaria, Sara Domianello, Alessandro Ferrari, Pierangela Floris, Roberto Mazzola) pubblicato da il Mulino con l’autorevole prefazione di Giuliano Amato. Non è l’ennesimo volume di dottrina ecclesiasticistica.

È soprattutto un’operazione culturale che denuncia il grave ritardo della politica italiana che si ostina a ignorare un tema di sempre più stringente rilevanza politica e sociale: la libertà religiosa e di coscienza in una società sempre più pluralista anche sotto il profilo culturale e confessionale. Di più: il volume contiene anche la traccia di un articolato di legge che costituisce un’ottima base di partenza per un disegno di legge, avvalorato dal preliminare confronto con esponenti di diverse comunità di fede.

La legge che non c’è, insomma, è un esercizio democratico in cui la tecnica giuridica si è intrecciata con il vissuto di fede di milioni di persone. Soprattutto ai lettori di Confronti, lo stato delle cose è ben noto: in Italia manca una moderna legge sulla libertà religiosa e di coscienza per cui milioni di italiani e italiane – o di “nuovi/e italiani/e” – che professano una religione “diversa dalla cattolica” vivono la loro condizione giuridica frastornati dal movimento di un pendolo che, nei fatti, produce una sempre più irragionevole gerarchia dei diritti e delle opportunità.

La Costituzione: virtù e limiti

Da una parte c’è la solenne formulazione dell’art. 8 della Costituzione che garantisce “uguale libertà” a tutte le confessioni religiose e che contempla uno specifico strumento di regolazione dei loro rapporti con lo Stato mediante un’intesa da stipulare con lo Stato stesso. Nonostante le acrobazie retoriche di esponenti della Conferenza episcopale italiana (Cei) dei tempi della presidenza Ruini, per i quali “uguale libertà” non significava che queste confessioni hanno “uguali diritti” rispetto ai cattolici, la maniglia dell’art. 8 costituisce una garanzia giuridicamente forte e saldamente ancorata all’impianto di una costituzione democratica.

La criticità risiede nel fatto che, ad oggi, questa maniglia è accessibile al 10% soltanto di chi dichiara una fede diversa da quella cattolica: le intese attualmente in vigore, infatti, riguardano comunità di fede che tutte insieme non superano i 500.000 membri (dati del Dossier Statistico Immigrazione 2022): valdesi e metodisti, battisti, luterani e anglicani per il Protestantesimo storico; avventisti, pentecostali (delle Assemblee di Dio e della Chiesa apostolica) per l’area evangelica in senso lato; ebrei; buddhisti (dell’Unione buddhista italiana e della Soka Gakkai); ortodossi greci, induisti e mormoni. Privi di intesa, invece i musulmani (oltre due milioni di persone, tra i quali un crescente numero di italiani), gli ortodossi rumeni (quasi due milioni), i testimoni di Geova (oltre 400.000, in massima parte italiani), i sikh (circa 100.000), un numero crescente di evangelici indipendenti (300.000), altre comunità di fede per almeno 100.000 presenze.

È questo il limite dell’art. 8: non la sua sostanza giuridica ma la sua scarsa e debole attuazione, centellinata con criteri non sempre comprensibili, al punto da apparire discrezionali: questo sì, quello no. Una discrezionalità imputabile a partiti e coalizioni di governo che non sembrano capire la rilevanza del “fattore R” della religione in una società sempre più multiconfessionale e, per usare un’espressione sintetica ma ormai efficace, chiaramente post-secolare.

La religione non è affatto uscita dallo spazio pubblico post-moderno. Al contrario, è sempre più presente nella sua irriducibile pluralità di confessioni, di modi di intendere e praticare la fede, di intendere la laicità e il rapporto con le istituzioni. È un fenomeno complesso, che non annulla ciò che nei decenni scorsi abbiamo chiamato “secolarizzazione” ma convive e si intreccia con essa, animando un processo spurio, tutt’altro che lineare, in cui i valori positivi della solidarietà comunitaria, della carità fraterna, della interiorità che guarda al senso più profondo della vita si contrappongono alle guerre identitarie, ai settarismi, ai radicalismi confessionali, ai nazionalismi nel nome di Dio.

Retaggio fascista

E poi c’è l’altro polo: quello che ereditiamo dal passato delle leggi fasciste quando il regime ormai consolidato e forte del consenso popolare decise di “normare” anche la religione degli italiani, predisponendo due strumenti radicalmente diversi ma coerenti rispetto allo stesso disegno politico autoritario: da una parte il Concordato con la Chiesa cattolica, dall’altra la legge sui culti “acattolici” (Legge 24 giugno 1929, n.1159), scandalosa espressione che riduceva il pluralismo religioso a un accidente casuale che consentiva di mettere ebrei e musulmani, protestanti e buddhisti nello stesso “coacervo anonimo degli indistinti”, per citare l’espressione del giurista valdese Giorgio Peyrot. Una normativa che, sin dal titolo, esprimeva la sua intenzione discriminatoria e selettiva: “sui culti ammessi”.

Questa legge, invece, c’è e ancora oggi distingue tra confessioni giuridicamente riconosciute e altre (la maggioranza) che non lo sono. È la legge che decide quali ministri di culto e di quali confessioni hanno libero accesso agli spazi protetti (carceri, ospedali, centri per gli immigrati, residenze per anziani) e quali no. Soprattutto – benché non vi sia una norma che lo impone – è la legge che, creando un filtro preliminare, decide quali confessioni possano avviare una trattativa con lo Stato in vista dell’intesa e chi no.

In ogni caso, per le confessioni che ricadono sotto il cappello della legge sui “culti ammessi” non vi è nessun Otto per mille e nessun accesso programmato alle scuole; al contrario, si pongono molti problemi in materia di edilizia di culto, resi insormontabili da leggi regionali esplicitamente tese a contenere la visibilità del nuovo pluralismo religioso che si afferma in Italia. «No, la moschea no» è solo la più virulenta espressione di un’intolleranza alla diversità religiosa che – solo per fare un esempio –, lo scorso 22 febbraio a Tortona, si è espressa con un attacco incendiario di un centro islamico.

Ma se questo è razzismo islamofobico, su un altro piano di ordinaria convivenza multireligiosa, è normale che a Milano, città europea e interculturale per eccellenza, non ci sia una moschea degna di questo nome? E perché le chiese pentecostali devono accontentarsi di sedi improbabili e periferiche? O che decine di confessioni religiose che dispongono di adeguati locali, non possano ottenerne la conversione d’uso a finalità di culto?

Stressate dal pendolo tra l’intesa irraggiungibile da una parte, e la discriminatoria realtà dei “culti ammessi” dall’altra: vivono così le tante confessioni religiose che in questi decenni hanno cambiato il profilo religioso del Paese, in un deficit di libertà e di diritti.

Rilanciare il tema

La Fondazione Basso, la rivista Confronti, alcuni magistrati, i gruppi di giuristi e le altre componenti della società civile che hanno voluto il convegno Pluralismo religioso, Integralismi, Democrazie, tenutosi a Roma il 17 e il 18 febbraio scorsi, hanno rilanciato un tema centrale e vitale per una moderna democrazia che intenda accogliere e valorizzare le culture che la animano e la compongono. Lo hanno fatto in una fase politica complicata da tanti fattori – i residui effetti della pandemia, la guerra in Ucraina, il lancio del Piano nazionale ripresa resilienza (Pnrr), le conflittualità interne alla coalizione di governo, la debolezza quasi afasica dell’opposizione – e con una proposta di alto valore culturale e giuridico che, almeno per un giorno, si è guadagnata l’attenzione degli esponenti delle principali forze politiche.

Nessuno di loro si è schermito dietro le frasi politichesi «i tempi non sono maturi» o «ci sono altre priorità». A costo di apparire ingenui, ci pare doveroso dare credito alle aperture che abbiamo registrato e intendiamo prenderle molto sul serio. Dal Dopoguerra in poi, il dibattito sulla libertà religiosa è stato il campo di battaglia di eserciti ideologici contrapposti. Cattolici contro laici, credenti contro non credenti, Destra contro Sinistra, occidentalisti opposti ai multiculturalisti.

È giunto il tempo di una tregua, anzi di una pacificazione su un tema che, oltre che al cuore della democrazia liberale, si pone al centro di tante vicende sia in Italia che nel mondo. Su un tema di alto profilo giuridico e costituzionale come questo, così come è successo in altri momenti della vita politica italiana, è essenziale che il Parlamento deliberi ad ampia maggioranza. La sfida è quella del superamento delle logiche di parte per assumere la tutela della libertà religiosa e di coscienza – anche chi non crede o crede in modo non convenzionale ha i suoi diritti e deve essere riconosciuto e tutelato – come questione centrale di universale rilievo democratico.

Non si può essere per la libertà religiosa e di coscienza delle ragazze iraniane che ribellano alla teocrazia dei mullah senza riconoscere, nello stesso modo e con la stessa passione civile, comunità di credenti entrate a pieno diritto nello spazio pubblico italiano ed europeo. Oggi è quanto mai doveroso rivendicare la libertà religiosa nel mondo, a Teheran come a Riad, a Shanghai come a Calcutta; ed è giusto chiedere la libertà di costruire chiese, templi e sinagoghe dove oggi è vietato. Ma proprio per rafforzare la credibilità di questa richiesta, una democrazia laica si deve mostrare diversa e “altra” rispetto alle teocrazie e agli Stati confessionali. Approvare “la legge che non c’è”, insomma, è un test della qualità della democrazia italiana.

  • Pubblicato sul sito della rivista Confronti.
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