Persecuzioni: le istituzioni europee all’opera

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Dando nota dei lavori dell’assemblea di primavera della Conferenza episcopale tedesca (Lingen, 14 marzo) si parla, al n. 5, di una preoccupazione ormai consueta, cioè quella delle persecuzioni. Meno consueto è l’apprezzamento per l’azione di denuncia di istituzioni europee, accusate nei primi lustri del secolo di una imbarazzante disattenzione in merito. Si sottolinea, in particolare, il valore degli Orientamenti dell’Unione Europea (del parlamento) per la libertà di religione e di credo (con un mandato per l’Inviato speciale) e la Dichiarazione dei partiti di governo in Germania (democristiani e socialisti) per il rafforzamento dei diritti umani e della libertà di religione.

Il primo documento è del 15 gennaio, il secondo del 19 ottobre 2018. Testi che si affiancano ad altre più attive fondazioni che, dall’ultimo lustro del ’900, si impegnano per rendere pubblica l’inquietante crescita delle persecuzioni, le cui vittime sono in prevalenza cristiane: dal Rapporto delle Chiese cristiane tedesche del 2017 al documento del governo di quel paese del 2016, dalla pubblicazione annuale in merito dell’ONU a quella dell’europarlamento, dal documento del Dipartimento di stato americano ai molti rapporti di organismi non governativi come Open Doors, Aiuto alla Chiesa che soffre, l’Institute for Religious Fredom come il Center for Study of Global Christianity.

Le istituzioni e i governi europei sono stati quelli più lenti ad avvertire la riemersione delle pratiche persecutorie anticristiane. Un esempio positivo è giunto dalla Francia che, nel 2017, ha dato rilievo alla mostra sui cristiani d’Oriente organizzata dall’Istituto del mondo arabo a Parigi e poi a Turcoing. In quell’occasione Emmanuel Macron, il presidente, disse: «Ai (cristiani d’Oriente) voglio esprimere la vicinanza della Francia e dire che la nostra priorità sarà di difendere la loro storia».

La memoria dei 40 martiri cristiani che l’agenzia Fides ha documentato per il 2018 (35 preti, 4 laici e un seminarista) in occasione della memoria dei martiri del 24 marzo 2019 non è più un grido confinato negli spazi ecclesiali.

Parlamento europeo

Secondo gli Orientamenti del parlamento europeo, la libertà religiosa o di credo è «un diritto umano universale», un «pilastro fondamentale e innegabile della dignità», che comprende sia il diritto a credere come a non credere, a convinzioni teiste, non teiste e ateiste: «afferma che la libertà di religione e di credo deve essere debitamente tutelata, promossa e salvaguardata». L’istituzione «esprime la propria profonda preoccupazione per il drammatico aumento delle violazioni della libertà di religione e di credo e delle persecuzioni di credenti e non credenti osservato nel mondo negli ultimi anni; condanna la strumentalizzazione delle questioni religiose a fini politici e la violenza, le vessazioni o le pressioni sociali nei confronti di qualsiasi individuo o gruppo di persone…, condanna le persecuzioni e gli attacchi contro gruppi etnici e religiosi». Sottolinea «che le violazioni della libertà di religione o di credo sono spesso all’origine di guerre o di altre forme di conflitti armati, oppure sempre più di frequente le aggravano, traducendosi in violazioni del diritto umanitario, tra cui massacri o genocidi».

I primi gesti di attenzione sono stati del Consiglio d’Europa nel 2011 e il “piano di azione” dell’Unione nel 2012 (poi rinnovato nel 2015). È seguita, nel 2013, una Raccomandazione per la protezione della libertà religiosa, la denuncia contro lo sterminio delle minoranze condotta dal Daesh nel 2016 e a difesa della popolazione rohingya nel 2017.

Si parla espressamente di due casi: del blogger e attivista saudita, Raif Badawi, e della cristiana pakistana, Asia Bibi, chiedendone la liberazione e la sicurezza di vita. Si sottolinea che «tutti i diritti umani e le libertà fondamentali sono indivisibili, interdipendenti e interconnessi» e che la libertà di religione cessa quando il suo esercizio «viola i diritti e le libertà degli altri».

L’Inviato speciale

Qualche attenzione merita la figura dell’Inviato speciale per la promozione della libertà di pensiero, di coscienza e di religione al di fuori dell’Unione Europea. Lo slovacco Jan Figel è stato nominato dalla Commissione nel maggio del 2016 come segno di un «importante passo avanti e un chiaro riconoscimento della libertà di religione o di credo quale parte degli obiettivi in materia di diritti umani». «Incoraggia l’inviato speciale a portare avanti il suo impegno e la cooperazione e la complementarietà delle azioni intraprese con il rappresentante speciale dell’Unione Europea per i diritti umani».

In un’intervista ad ACIstampa (6 novembre 2017) egli dichiarava: «L’Europa dovrebbe avere più consapevolezza del tema della libertà religiosa e promuovere l’agenda della libertà religiosa in modo ancora più coerente. Eppure, oggi vediamo una situazione globale molto negativa e, allo stesso tempo, ci sono tendenze di peggioramento in molte nazioni e regioni del mondo. In realtà, questo significa l’invito a fermare le persecuzioni, la discriminazione e i conflitti violenti, e a lavorare per creare più giustizia e un trattamento chiaro delle differenti fedi minoritarie e comunità. Questo è sia nostra responsabilità sia comune interesse. Le politiche interne ed esterne dell’Unione Europea sono in realtà due parti della stessa agenda comunitaria».

Negli Orientamenti si sottolinea che la tutela e la promozione della libertà di religione è parte integrante della politica estera dell’Unione, elemento di prevenzione dell’estremismo violento, necessaria integrazione per guidare al meglio la politica estera e la cooperazione internazionale. Per questo è necessario «mantenere un dialogo aperto, trasparente e regolare con le Chiese e le organizzazioni religiose, filosofiche e non confessionali» e dare ai funzionari e ai diplomatici conoscenze di storia delle religioni e delle minoranze. Ai media e agli strumenti di informazione si consiglia di operare per uscire dai pregiudizi e dagli stereotipi e per affinare la conoscenza delle fedi. Contestualmente, si deplora che «taluni paesi abbiano approvato, applichino o intendendo introdurre norme penali volte a punire la blasfemia, la conversione o l’apostasia, anche con la pena di morte». Nella gestione dei fondi di aiuto deve entrare il tema della difesa della libertà di religione.

Il governo tedesco

La Dichiarazione dei partiti di governo della Germania porta il titolo “Rafforzare il diritto umano per la libertà di religione”. Si ricordano tutti i trattati e i documenti internazionali che parlano dei diritti e che hanno ricevuto il quasi totale assenso degli stati, l’impegnativo articolo 4 della Grundgesetz (Costituzione tedesca) e l’amplissimo riconoscimento dell’unità, indissolubilità e universalità dei diritti fondamentali. Ogni limitazione della libertà di fede sia degli stati sia di attori non statali confligge con la coscienza comune.

Con il 31,4% della popolazione mondiale il cristianesimo è la religione più diffusa e più perseguitata, in particolare dove è minoranza.

Il diritto della libertà di fede, di cambiarla e di renderla pubblica, non è riconosciuto in molti stati islamici, in particolare nel Medio Oriente e nel Nord Africa.

In Iran, Afghanistan e Sudan si prevede la pena di morte per chi abiura.

Problemi significativi si registrano anche in Cina, Corea del Nord, Myanmar e India. Si conosce il dramma dei cristiani e degli yazidi nella guerra del Califfato Daesh.

Dopo aver ricordato i fondi destinati a iniziative a favore della libertà di religione sia bilaterali sia multilaterali, il testo sintetizza in 16 raccomandazioni i compiti del governo in merito. Fra queste: la lotta all’estremismo, la difesa della libertà di religione in tutta la sua ampiezza, le garanzie per le minoranze e i profughi, il lavoro comune sia bilaterale, sia nell’ambito dell’Unione e dell’ONU, la pubblicazione di un rapporto, gli interventi delle ambasciate e la connessione tra rispetto delle fedi e sviluppo.

Nella citata intervista l’Inviato speciale dell’Unione per la libertà religiosa richiama la necessità della tenuta dell’Europa perché il cammino prosegua, per superare «l’onda di frustrazione, populismo ed estremismo. È tempo di passare da una politica di identità all’etica della responsabilità».

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