Il virus diversamente uguale

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La pandemia da coronavirus è un’esperienza condivisa dagli abitanti del mondo, ma non è la stessa esperienza per tutti.

Il governatore dello stato di New York, Andrew Cuomo, in un tweet del 31 marzo ha definito il Covid-19 «la grande livella». Ed ha ragione se pensiamo che malattia e morte, alla fin fine, non hanno alcun rispetto per il potere e i privilegi. Questo non significa però che le disuguaglianze sociali non contino più nulla. Durante l’epidemia della Spagnola nel 1918 la percentuale dei morti fu molto più alta tra coloro che vivevano in quartieri poveri e affollati. E vi sono già indicazioni che il coronavirus si diffonde più rapidamente, in particolare, tra i gruppi famigliari a basso reddito e tra gli afro-americani.

Per alcuni americani gli aspetti più difficili della pandemia sono la noia di dover stare a casa e abituarsi al distanziamento sociale – un termine, questo, che ha una connotazione decisamente anti-cristiana.

In prima linea

I lavoratori del sistema sanitario devono rimanere in prima linea a combattere il virus, e gli agenti di pubblica sicurezza devono essere vigilanti come sempre. Tutti coloro che sono impiegati nei negozi di alimentari, nelle farmacie, che fanno servizi di consegna (con camion o in bicicletta), sono tutte persone che stanno ancora lavorando – spendendo gran parte del loro tempo facendo pulizie ovunque loro o i loro clienti siano passati.

Questi e altri lavoratori essenziali sono concentrati, in larga parte, nelle zone più povere. Sebbene il New York Times abbia riportato che il numero di utenti della rete di metropolitane più grande del paese sia diminuito dell’87%, faceva allo stesso tempo notare che, quando si tratta di fermate in quartieri a basso reddito, la diminuzione dei passeggeri è solo del 50%. Lavorare da casa è semplicemente non un’opzione per la maggior parte delle persone che sono abbastanza fortunate da non aver perso il lavoro.

Molti dei lavoratori essenziali hanno figli piccoli e non possono dedicare loro le ore dovute per portare avanti a casa il programma scolastico o controllare che stiano dietro alle lezioni come i loro compagni. Bambini che non possono essere lasciati soli vengono mandati da «amici» o «parenti» nel corso della settimana, cosa che aumenta il rischio della diffusione del virus.

Gli esposti per “natura”

Milioni di americani vivono in contesti nei quali hanno ben poco o nessun controllo sui rapporti con loro di molte persone che li vivono vicino. Primo: 1,5 milioni di persone vivono in case di cura, come quella nello stato di Washington dove dozzine di persone sono morte a causa del coronavirus durante uno dei primi focolai dell’epidemia negli Stati Uniti.

Più di due milioni di persone vivono all’interno del sistema carcerario, e ogni settimana entrano o escono dalle prigioni 200.000 persone. A questo si deve aggiungere mezzo milione di addetti carcerari e ufficiali giudiziari: non ci si deve dunque sorprendere se le prigioni sono divenute snodi incandescenti per la diffusione del virus. Cosa che ha portato papa Francesco a rivolgersi alle autorità competenti per chiedere «di fare attenzione a questo grave problema».

Inoltre, circa 1,3 milioni di persone si trovano in servizio militare attivo, molti di loro in condizioni di affollamento come è avvenuto sulla portaerei Theodore Roosevelt, il cui capitano è stato allontanato dal comando dopo aver scritto contemporaneamente a più superiori avvertendoli che il virus si stava diffondendo attraverso tutto il suo equipaggio.

Da non dimenticare è il mezzo milione di senza tetto e fissa dimora che vivono negli Stati Uniti, che devono correre i loro rischi ricorrendo ai servizi di mense e dormitori sovraffollati.

Il coronavirus è poi un pericolo onnipresente per tutte quelle persone che stanno cercando asilo negli USA e per altri migranti chiusi nei centri di detenzione nel paese e nei campi improvvisati dall’altra parte del confine tra USA e Messico. Negli Stati Uniti gli immigrati illegali hanno le loro buone ragioni di temere di ricorrere ai servizi sanitari rischiando così di essere poi deportati. Coloro che sono nel paese a motivo del programma di «Deferred Action for Childhood Arrivals», molti dei quali lavorano in settori del servizio sanitario, devono preoccuparsi sia della pandemia sia della possibilità che la Corte Suprema confermi la decisione dell’amministrazione Trump di chiudere il programma e di cambiare il loro status legale.

Servizi sanitari selettivi

Altri gruppi di abitanti del paese hanno grosse difficolta ad accedere ai servizi sanitari e anche ad avere solo una qualche informazione affidabile sulla pandemia, tra questi vi sono anche coloro che non hanno accesso a Internet e quelli che non parlano inglese. Persone con disabilità temono discriminazioni nel caso debbano avere bisogno di assistenza medica e sanitaria, soprattutto ora che si fa avanti lo spettro di «razionamento» dei servizi sanitari. Gli americani che stanno perdendo la copertura assicurativa sanitaria a carico del datore di lavoro perché sono diventati disoccupati, si tratta di un gruppo che ha raggiunto il livello di 3,5 milioni di persone in sole due settimane, hanno il timore di non avere alcuna possibilità nel caso si ammalassero e avessero bisogno di immediata assistenza medica.

Non è nostra intenzione di deridere coloro che stanno cercando di utilizzare al meglio il tempo di quarantena e distanziamento sociale – passando più tempo con la famiglia, imparando a fare il pane, o cercando di imitare Shakespeare (che, si dice, abbia passato il tempo della quarantena durante la peste scrivendo il Re Lear).

Siamo tutti una sola umanità

Il nostro punto è che la maggior parte della popolazione non può vivere questo tempo di pandemia da coronavirus come un’occasione per riflettere o imparare qualcosa di nuovo.

Ringraziate Dio se la vostra famiglia ha questa opportunità, ma non pensiate che tutti siano così fortunati, oppure che la pandemia sia passata non appena qualcuno di noi potrà fare dei passi tentando di tornare a una qualche vita normale. Vogliamo ricordare le parole del superiore generale dei gesuiti, p. Arturo Sosa, che poco tempo addietro ha detto che «siamo un’unica umanità (…). Ognuno e ciascuno di noi è parte di essa; nessuno ne è fuori; nessuno può qualcosa senza gli altri».

  • Nostra traduzione dell’editoriale della rivista dei gesuiti statunitensi America.
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