Le stragi degli sceriffi del mare

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Il 25-26 febbraio scorso, l’annegamento di decine di persone – bambini, donne e giovani uomini – sulla costa calabrese di Cutro, causato dall’ossessione, creata ad arte, degli sbarchi, ha centrato un ulteriore record di disumanità.

La scia delle responsabilità è da individuare nell’ignavia delle istituzioni italiane ed europee, nella comoda confusione dei ruoli e delle responsabilità, oltre che nell’efferata indifferenza della politica.

Lo sceriffo del mare

Uno dei migliori sceriffi del Mediterraneo, Matteo Salvini, rivendicava e rivendica tuttora la sua volontà di bloccare gli sbarchi dei disperati, semplicemente per riconsegnarli ai porti di partenza e agli aguzzini da cui scappano a caro prezzo. Qui lo dimostrerò: un regalo doppio per i trafficanti di esseri umani che, solo a parole, il governo italiano dice di voler perseguire. In Libia ogni nuovo tentativo di liberarsi dalla schiavitù da parte dei poveri cristi colleziona soltanto nuove tariffe.

Le affermazioni correnti, già di una banalità disarmante, sono ancor più gravi quando rese da civil servant apicali dei Ministeri. Con ogni probabilità – a quel livello – non si vuol sapere come gira il mondo e non interessa se non tutti i bambini hanno la possibilità di addentare i biscotti della “Regina Antonietta”. Ai poveri, col pane, basta la vita, ma anche questa viene trattata da «carico residuale».

L’approvazione da parte delle Camere del Decreto-legge 2 gennaio 2023 n. 1 – Disposizioni urgenti per la gestione dei flussi migratori – rappresenta il capolavoro dell’attuale Governo e del Ministro dell’Interno Piantedosi nella guerra alle navi di salvataggio delle ONG in mare. Il tutto è contenuto in un solo articolo il cui tema centrale è costituito dalle sanzioni da comminare ai comandanti delle stesse organizzazioni, colpite con multe fino al sequestro della nave.

È stato inserito l’obbligo di fare un solo salvataggio per ogni missione in alto mare, quindi di recarsi subito al porto di destinazione individuato dalle autorità marittime, con a capo il Ministro-collega per le Infrastrutture Salvini.

La prova del dileggio del diritto del mare è stata l’immediata adozione di porti di attracco a centinaia di miglia dal sito di salvataggio. Le istituzioni delle Nazioni Unite e le stesse istituzioni europee avevano chiesto di non adottare disposizioni palesemente lesive del diritto alla vita dei naufraghi e dell’obbligo di salvataggio in mare, col buon senso di portare i salvati nel porto più vicino. Il governo ha tirato dritto per la sua strada, probabilmente per appagare quel consenso popolare che lo ha eletto: esercizi di disumanità.

Le ONG e la deterrenza

Lo stesso intenso pellegrinaggio dell’attuale Primo Ministro italiano presso le corti dei Signori del gas e del petrolio, alla ricerca di altre sorgenti di energia fossile, non nasconde affatto la già palese volontà di rafforzare gli accordi stretti dai predecessori governativi per fermare e respingere i disperati della rotta del Mediterraneo centrale: una rotta che ha registrato, negli ultimi 10 anni, 26.000 annegamenti, 2.406 nel solo 2022 e già 225 nel 2023: tante morti sono causate dall’ostracismo – per non dire dalla deliberata persecuzione – nei confronti delle attività di salvataggio operate dalle ONG.

Il tentativo dei governi succedutisi in questi ultimi anni è sempre stato quello di imporre un codice di comportamento illegittimo e di discreditare il lavoro di tali organizzazioni. Questa storia affonda le sue radici nella vigente legislazione, rimasta invariata nei suoi assi portanti sin dal 1998.

I centri deputati all’espulsione dei migranti hanno una lunga storia, così come tutte le strategie per individuare gli irregolari da espellere.  Nel 1998, con la legge 40/98, detta Turco-Napolitano, furono strutturati i Centri di Permanenza Temporanea, denominati in seguito CIE – Centri di Identificazione per l’Espulsione – voluti dalla legge 189 del 2002, detta legge Bossi-Fini, e infine rinominati CPR, Centri di Permanenza per i Rimpatri, istituti dalla legge 46/2017, a firma dei Ministri Minniti e Orlando.

Tutti questi strumenti di detenzione di fatto, per via amministrativa, sono stati adottati nell’ottica di allontanare dai confini dello Stato i cittadini stranieri cosiddetti clandestini o irregolari. L’istituzione di queste strutture è stata accompagnata anche da diversi Decreti-Sicurezza, inaugurati dall’allora Ministro dell’Interno Roberto Maroni, poi ripresi, con maggiore protervia, da Salvini nel governo Lega-5 Stelle: il cosiddetto Conte primo.

Tali iniziative – presentate all’opinione pubblica quali strumenti di necessaria deterrenza delle immigrazioni irregolari – hanno peraltro mostrato tutta la loro inefficacia, nonostante lo sviluppo abnorme della dimensione persecutoria dello Stato italiano nei confronti di persone immuni da reati sul territorio nazionale e imputate del delitto di ingresso irregolare nel nostro Paese.

È matematicamente calcolato che l’irrigidimento delle misure di trattenimento e di privazione della libertà individuale, in aggiunta a quelle pecuniarie, non ha prodotto alcun regresso delle presenze irregolari. A dimostrazione, sta il fatto che la più grande sanatoria mai realizzata in Italia è stata quella condotta ai sensi della punitiva legge Bossi-Fini, che ha visto emergere dal lavoro nero oltre 700.000 persone già presenti in Italia.

E, mentre all’interno venivano prese queste misure, all’esterno è iniziato il mercimonio: denari in cambio di migranti bloccati, respinti o “riaccolti”, in ragione degli accordi con i Paesi della sponda sud del Mediterraneo.

Il Trattato con la Libia

Il Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra la Repubblica Italiana e la Grande Giamahiria araba libica popolare socialista, è stato sottoscritto nel 2008 tra Gheddafi e il Governo Berlusconi IV con Ministro dell’Interno Maroni. Allora l’Italia promise 5 miliardi di euro alla Libia per la costruzione di infrastrutture in cambio del pattugliamento costante della costa per impedire la partenza dei migranti.

In particolare, all’art. 19 dal titolo Collaborazione nella lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, al traffico di stupefacenti, all’immigrazione clandestina, al comma 2 si affermava che «sempre in tema di lotta all’immigrazione clandestina le due parti promuovono la realizzazione di un sistema di controllo delle frontiere terrestri libiche». Il Trattato  venne aspramente criticato dalle organizzazioni umanitarie perché già si sapeva che i migranti in Libia venivano  arbitrariamente detenuti, sfruttati e, se riottosi, torturati.

Nel 2012, a seguito della caduta di Gheddafi nel 2011, in una Libia in preda a conflitti tra fazioni claniche e milizie territoriali autorganizzate, l’Italia ha rinnovato col famoso memorandum quanto precedentemente sottoscritto nel Trattato di amicizia: capo del governo, allora, era Mario Monti e Ministra dell’Interno Annamaria Cancellieri. Venne ribadita la necessità di controllare le frontiere meridionali della Libia e introdotta la disponibilità italiana ad addestrare la polizia di frontiera libica.

Il 2 febbraio 2017 venne firmato a Roma il Memorandum d’intesa sulla cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani, al contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere tra lo Stato della Libia e la Repubblica Italiana. Tale Memorandum con validità triennale, tacitamente rinnovabile, venne firmato da Paolo Gentiloni, Capo del Governo italiano e da Fayez Mustafa Serraj, Capo del Governo di Riconciliazione Nazionale dello Stato della Libia, riconosciuto dall’Unione Europea e dall’Italia. Ministro dell’Interno era Marco Minniti.

All’articolo 1, comma c) sanciva – e tuttora sancisce – che «la parte italiana si impegna a fornire supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della lotta contro l’immigrazione clandestina e che sono rappresentati dalla guardia di frontiera e dalla guardia costiera del Ministero della Difesa e dagli organi e dipartimenti competenti presso il Ministero dell’Interno».

All’articolo 2 si concordano i finanziamenti per i centri di accoglienza già attivi e la fornitura di medicinali e attrezzature mediche per «soddisfare le esigenze di assistenza sanitaria dei migranti illegali» e, al comma 3 dello stesso articolo, si parla di «formazione del personale libico all’interno dei centri di accoglienza per far fronte alle condizioni dei migranti illegali». Il governo italiano garantisce di fatto aiuti in mezzi di controllo come radar e motovedette utili al pattugliamento in mare e delle frontiere con l’Africa subsahariana e quindi nel creare centri di accoglienza, ossia di detenzione.

Il governo Meloni

A fine gennaio la presidente del consiglio Giorgia Meloni, accompagnata dal Ministro degli Esteri Antonio Tajani e dal Ministro degli Interni Piantedosi, in occasione del suo viaggio a Tripoli, ha affermato che «la Libia è una priorità per l’Italia. Per la stabilità del Mediterraneo. Per la sicurezza, per alcune delle grandi sfide che l’Europa affronta in questo tempo, come la crisi energetica».

Nella stessa occasione, l’Amministratore Delegato dell’ENI, Claudio Descalzi, ha portato in dote 8 miliardi di investimenti. L’ENI è presente in Libia dal 1959 ma, in seguito alla fine dell’era Gheddafi, si è trovata a operare in un contesto difficile per ovvie ragioni di sicurezza. Per quanto riguarda i migranti, nell’incontro si è parlato di «cooperazione con l’autorità libica  in relazione alla Guardia Costiera».

Per raggiungere l’obiettivo, è stata concordata la fornitura di 5 nuove motovedette, nell’intento di arrestare i flussi partenti proprio dalla Libia. Accanto all’offerta è stata rilevata la necessità di promuovere la ricchezza dei Paesi di partenza, con un impegno generico dell’Europa.

Nella circostanza si è volutamente omesso di dire che la Libia non è un Paese sicuro – definizione dal preciso contenuto tecnico in ambito internazionale – e che non ha sottoscritto la Convenzione di Ginevra del 1951, per cui degli accordi di tutela dei richiedenti asilo transitanti sul suo territorio se ne può fare – come di fatto avviene – carta straccia.

È risaputo – e dimostrato da coraggiose inchieste giornalistiche comprovate dall’ONU (cf. Libyagate di Nello Scavo, Avvenire-Vita e Pensiero 2023) che in Libia – sia in Tripolitania che in Cirenaica – esistono lager di costrizione e tortura dei migranti, mentre i soldi e gli strumenti di controllo donati dal governo italiano finiscono nelle mani di criminali – immanicati coi poteri con parvenza di legalità – che lucrano sulla pelle dei disperati.

La Libia, inoltre, è, in buona parte, sotto tutela turca e, in buona parte, sotto copertura russa, egiziana e di qualche Paese del golfo, tra loro in contrapposizione armata: i due governi – o i tre – ora sussistenti non stanno facendo alcun passo per venire a patti, per cui la Libia resta uno dei posti più insicuri al mondo.

Le motovedette e i miliardi messi a disposizione dall’Italia non fanno altro che allettare la strategia del ricatto. L’Europa e l’Italia si consegnano ai regimi del sud Mediterraneo senza portare a casa quella sicurezza che vorrebbero garantire alle proprie imprese impegnate in quei territori, e certamente senza tenere in conto la dignità degli esseri umani che vi sono giunti da decine di altri Paesi dell’Africa e dell’Asia, oltre che della popolazione locale.

Di fronte a politiche così manifestamente disumane l’istanza profonda di umanità – avanzata e sostenuta dalle tante ONG e realtà associative e di volontariato impegnate nell’accoglienza dei migranti – a difesa dei diritti umani fondamentali può acquisire i caratteri della legittimità della disobbedienza etica. Non possiamo restare passivi davanti alle tragedie avallate da mere speculazioni elettorali: occorre ormai disobbedire, a fronte alta!

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Un commento

  1. giuseppe 8 marzo 2023

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