Turchia: sull’orlo del baratro

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crisi lira turca

Non bisogna essere degli economisti per intuire la catastrofe dei dati economici turchi dell’ultimo anno, ulteriormente accentuata da politiche direttamente imposte dalla presidenza, che dal 2018 rivendica un controllo totale sulla Banca Centrale Turca (significato con tre licenziamenti di governatori e due di vice-governatori, in meno di 4 anni), contro corrente rispetto a tutte le regole classiche per il contenimento di una crisi apparentemente irreversibile e non solo congiunturale.

Da inizio anno la lira turca ha perso quasi il 20% del suo valore. Sono perdite fortemente accentuate dalla continua riduzione dei tassi d’interesse, manovra volta, secondo le convinzioni del Presidente, a giugulare l’inflazione, che in Turchia è una delle più alte al mondo, 19,6% a settembre, quasi quattro volte l’obiettivo di medio termine fissato dalla Banca Centrale.

Come se non bastasse, a fine ottobre, la Financial Action Task Force (FATF) ha inserito il Paese nella lista delle nazioni in ritardo nella lotta al riciclaggio di denaro sporco e al finanziamento del terrorismo. Questa decisione potrebbe avere gravi conseguenze per un’economia che già stenta ad attrarre investimenti stranieri.

Essere nella lista “grigia” significa che il settore bancario nel Paese in questione è inaffidabile, mettendo gli investitori a rischio di finanziamenti illeciti. Del resto, i macro dati parlano chiaro, gli investimenti diretti esteri sono scesi al livello più basso, 5,7 miliardi di dollari (circa 4,8 miliardi di euro) nel 2020, contro i 19 miliardi di dollari del 2007, quando l’economia turca era all’apice.

Con questo quadro economico a far da sfondo la città simbolo del Paese, Istanbul, continua l’urbanizzazione sfrenata preparandosi a inghiottire gli ultimi spazi vergini. I dintorni del lago di Küçükçekmece, delimitati da aree picnic, orti e borghi bucolici, sono l’istantanea di una città che scompare.

L’ultimo dei progetti faraonici del presidente Tayyip Erdoğan, il Canale di Istanbul, il più irragionevole, ne ha già decretato la fine. Questo canale di 45 chilometri a nord-ovest della città aprirebbe una nuova rotta marittima tra il Mar di Marmara e il Mar Nero. L’obiettivo è deviare il traffico navale dallo stretto del Bosforo ma anche creare un nuovo asse urbanizzato collegato al gigantesco aeroporto inaugurato nel 2018, con una nuova città di 1,5 milioni di abitanti. Il canale e il suo letto di cemento largo 300 metri e profondo 20 metri richiederanno lo sgombero di un miliardo di metri cubi di terra, ovvero 10.000 camion all’anno per 4 anni! Una manna per gli imprenditori del settore edile che gravitano intorno all’entourage del palazzo presidenziale che, grazie alle oltre 200 modifiche alla legge sull’aggiudicazione degli appalti pubblici dal 2008, hanno avuto l’esclusiva dei contratti senza dover passare dai bandi di concorso.

canale di istanbul

Ma il rapido indebitamento dello Stato nei confronti del settore privato, derivante da questi grandi progetti, completerà la decapitazione economica del Paese. Come vive la gente in questa situazione? Al limite della disperazione che, malgrado la paura, inizia a trapelare sempre di più nello spazio pubblico.

I più costanti negli ultimi mesi sono gli studenti che da settimane tengono un presidio nella piccola piazza della Moschea di Şişli, quartiere centrale della Istanbul europea. Non rivendicano nessuna appartenenza politica e espongono un solo messaggio: «Non riusciamo a trovare un alloggio», sottinteso, proporzionato alle disponibilità finanziarie o alle magre borse di studio per chi le ha. Alcuni hanno lanciato l’allarme via social network e il tamtam si è propagato in poche ore anche ad Ankara, Smirne, Diyarbakir e ad altre città di provincia.

Il problema non è solo l’aumento fuori controllo degli affitti, ma sono i rincari generali di ogni genere: bollette del gas quadruplicate, costi di elettricità e acqua duplicati, fino ai generi di prima necessità diventati merci di lusso. Le timide proteste di piazza a macchia di leopardo (per evitare una repressione brutale), per il momento non hanno sortito effetti tangibili, a parte un reiterato negazionismo governativo, condito da surreali denunce di complotti non meglio precisati. Si prospetta un «lungo inverno turco».

  • Pubblicato sulla rivista Nuovo Progetto, n. 10, dicembre 2021, pp. 10-11.
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