Per una liturgia più viva e autentica

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Papa Francesco ci ha donato con la lettera apostolica Desiderio desideravi quello che tutti desideravamo: una sua parola autorevole per dare conferma a tutte le istanze della riforma liturgica che, frutto maturo del movimento liturgico, ha segnato un punto di non ritorno perché «ha restituito alla vita della Chiesa i gesti e la pratica di una partecipazione attiva della comunità dei fedeli all’azione liturgica» (Y. Congar).

Le indicazioni puntuali e concrete del papa confermano le acquisizioni e le aspirazioni dei liturgisti per una liturgia sempre più viva, autentica e interiormente partecipata per ottenere la quale è necessaria una formazione adeguata e l’acquisizione progressiva dell’arte di celebrare.

Proprio di essa Francesco tratta diffusamente premettendo una decisiva puntualizzazione: «Parlando di questo tema siamo portati a pensare che riguardi solo i ministri ordinati che svolgono il servizio della presidenza. In realtà, è un atteggiamento che tutti i battezzati sono chiamati a vivere… Ricordiamoci sempre che è la Chiesa, Corpo di Cristo, il soggetto celebrante, non solo il sacerdote» (Dd 36).

Formare attraverso i riti

In concreto, come si può realizzare la formazione liturgica dell’assemblea? Essa avviene per ritus et per preces, attraverso cioè i riti, le preghiere, i segni, cose tutte che plasmano gli atteggiamenti interiori nei confronti del vissuto nel rito e nel quotidiano: «attraverso i riti e i segni passa la formazione, come avviene fin dalla prima infanzia, grazie ai genitori, ai nonni, ai nostri parroci e catechisti» (47).

Sono i riti che educano (A. Grillo), ma, volendo usare un certo linguaggio, non solo ex opere operato, bensì anche ex opere operantis dei due soggetti celebranti, la cui interazione deve vedere entrambi esprimere la verità dei segni e del linguaggio verbale e di quello non verbale. «Nell’ordine del simbolico il segno non produce efficacia per quello che significa, ma per quello che realizza, nella differenza qualitativa del gesto che lo incarna» (Giuliano Zanchi, Rimessi in Cammino, pag. 58).

Ecco quindi come i riti e le preghiere plasmano il popolo di Dio: «Penso a tutti i gesti e le parole che appartengono all’assemblea: il radunarsi, l’incedere in processione, lo stare seduti, in piedi, in ginocchio, il cantare, lo stare in silenzio, l’acclamare, il guardare, l’ascoltare. Sono molti modi con i quali l’assemblea, come un solo uomo (Ne 8,1), partecipa alla celebrazione. Compiere tutti insieme lo stesso gesto, parlare tutti insieme ad una sola voce, trasmette ai singoli la forza dell’intera assemblea» (51) e crea, senza bisogno di spiegazioni, la consapevolezza di essere un solo corpo. Il valore dell’interiorità nel rapporto con Cristo e con la Chiesa passa per questa esteriorità corporea, agita e patita nel rito» (A. Grillo).

La funzione del canto

Il papa accenna al canto, che non è semplice ornamento o occasione per rendere più solenne la liturgia: ne è parte integrante, concorre a renderla bella e, soprattutto – come è auspicabile – coinvolgendo tutta l’assemblea, «trasmette ai singoli la forza dell’intera assemblea» (ivi). Pensiamo alla forza coinvolgente dei canti all’unisono allo stadio, alla forza trainante e suggestiva che essi trasmettono nel loro stesso dispiegarsi.

È importante che il canto non sia sempre monopolio del piccolo drappello di animatori o della schola, che, di fatto, tagliano fuori l’assemblea da quel momento performante che è appunto il canto.

Esso dev’essere tale da sposare e armonizzare testi ispirati alla Parola con una melodia che, nel suo dispiegarsi lineare, fluido e positivo apra il cuore al giubilo che coinvolge tutta l’assemblea. Essa viene così aiutata a vivere l’intima comunione con Cristo che avviene non in maniera diretta, ma in modo sacramentale, attraverso i segni, tra i quali il canto, che ha un immediato impatto sensoriale ed emotivo.

Eseguire i canti giusti nei momenti giusti e determinati movimenti nel modo giusto, non è qualcosa di puramente esteriore, ma luogo anche di prima esperienza di iniziazione e scuola di preghiera. «Ogni gesto e ogni parola della celebrazione espresso con arte forma la personalità cristiana del singolo e della comunità» (53).

Altri gesti liturgici

Il papa mostra la pregnanza interiore dei “santi segni” che non si possono ridurre solo ad un’esecuzione disciplinata di ciò che prescrivono le rubriche «Ogni gesto e ogni parola contiene un’azione precisa che è sempre nuova perché incontra un istante sempre nuovo della nostra vita… Ci inginocchiamo per chiedere perdono, per piegare il nostro orgoglio, per consegnare a Dio il nostro pianto, per supplicare un suo intervento, per ringraziarlo di un dono ricevuto» (ivi).

Da notare, nello stesso numero, un inciso importante riguardante il modo di proclamare la Parola, spesso non rispondente nemmeno ai canoni di una comunicazione intelligente e intelligibile: «Quale arte siamo chiamati ad apprendere nel proclamare la Parola, nell’ascoltarla, nel farla ispirazione della nostra preghiera, nel farla diventare vita? Tutto questo merita la massima cura, non formale, esteriore, ma vitale, interiore» (53).

Il card. Martini, pur così pacato, diceva che, visitando le parrocchie, spesso doveva subire certi modi di leggere la Parola che gli davano ai nervi. Manca quella laica, signorile e intelligente dizione che è già proclamazione giusta e non affettata.

Lo stesso solenne incedere in processione a cui accenna il papa trasmette un messaggio che, oltre la sua ovvietà, può insinuare l’idea di separatezza. Talvolta, ministri e ministranti appaiono molto distinti dall’assemblea, avanzando compassati, in abiti sontuosi e anacronistici. E anche il loro attivismo affaccendato e distraente in presbiterio, per fare cose in realtà molto semplici, non aiuta il raccoglimento. Nella liturgia è importante una certa naturalezza, diversa dalla sciatta disinvoltura.

Ecco come Romano Guardini spiega quel movimento che coinvolge direttamente l’assemblea al momento della comunione: «L’incedere non è un’espressione della nobiltà della natura umana? La figura dritta, signora di sé stessa, che si porta da sola, calma e sicura, codesta figura rimane un privilegio riservato all’uomo. Camminare eretti significa essere uomini… Ma non siamo più soltanto uomini, siamo più che uomini. “Stirpe divina siete” dice la Scrittura»… Nel giusto incedere potrebbe essere l’attuazione raffigurata in profonda similitudine del comandamento: cammina dinanzi a me. E sii perfetto. Ma in semplicità e veracità» (I santi segni,  pagg. 145-146).

Il ministro celebrante

La formazione liturgica del popolo di Dio è speculare a quella del ministro. Egli è chiamato a perfezionarsi nell’arte di celebrare che è frutto di un cammino di spiritualità, di un approfondimento della liturgia e del senso teologico di essa. «I ministri che presiedono l’assemblea devono conoscere la strada sia per averla studiata sulla mappa della scienza teologica sia per averla frequentata nella pratica di un’esperienza di fede viva, nutrita dalla preghiera» (36).

Nella logica divina dell’Incarnazione l’elemento umano è chiamato in causa e con esso il creato: «La Liturgia è fatta di cose che sono esattamente l’opposto di astrazioni spirituali: pane, vino, olio, acqua, profumo, fuoco, cenere, pietra, stoffa, colori, corpo, parole, suoni, silenzi, gesti, spazio, movimento, azione, ordine, tempo, luce. È tutto il creato che viene assunto per essere messo a servizio dell’incontro con il Verbo incarnato, crocifisso, morto, risorto, asceso al Padre» (42).

Perché avvenga il transfert tra chi presiede e l’Assemblea, dovrà pur essere necessaria una certa conoscenza del significato profondo della vasta gamma dei segni indicati dal papa.

Proprio per evitare che la liturgia e i segni decadano nel mimo o perdano la loro significanza simbolica, occorre che chi presiede si lasci istruire da testi che, con semplicità di linguaggio, introducano al loro significato antropologico e spirituale.

Penso a I santi segni (R. Guardini), Il linguaggio simbolico della Liturgia (S. Sirboni), Gesti e simboli: significato antropologico biblico e liturgico (J. Aldazàbal), tenendo tuttavia presente che la formazione liturgica e la lettura simbolica del reale non è un fatto di conoscenza mentale, di acquisizione di concetti, ma è esperienza vitale: «La conoscenza che viene dallo studio è solo il primo passo» (45). Importante «è la frequentazione assidua del fuoco di amore che il Signore è venuto a portare sulla terra» (57).

I segni devono essere autentici, tali che parlino da soli, posti in maniera plausibile dal celebrante e dall’Assemblea che, in tema di formazione liturgica, sono correlati.

Fare bene quel che si deve fare, il che significa dare verità corporea e persuasione spirituale alla consistenza a segni e gesti che parlano da soli. Una buona liturgia dovrebbe fare quel che dice e “fare” quel che fa in maniera significativa.

La verità dei segni

Un esempio di autenticità a cui tendere: se nel battesimo ci si limita a versare un esile rivoletto d’acqua, non si pone un gesto significativo. «L’amore di Dio è stato sparso nei nostri cuori mediante lo Spirito che ci è dato» (Rm 5,5) deve essere intuito dall’autenticità dei gesti di versare acqua e ungere con l’olio fatti però in maniera tale da far trasparire il significato di ciò che si fa.

«La logica delle azioni rituali è quella del massimo gratuito, non quella del minimo necessario che taglia fuori la semplicità del gesto, l’immediatezza del tatto e del gusto» (A. Grillo). L’essenzialità non deve significare ridurre all’osso la pregnanza del rito e dei gesti.

Le stesse particole non rendono l’idea di ciò che dovrebbero significare: un frammento del pane spezzato che però abbia la consistenza del pane. «Abbiamo particole già pronte che, per di più, tutto sembrano meno che particole; perché particola vuol dire parte, mentre la nostra è perfettamente tonda: in che senso la particola è parte se è un intero a tutto tondo?» (A. Grillo: Riti che educano, p. 85).

Nella celebrazione del matrimonio, per esempio, pare che tutto si riduca al consenso. In realtà, dopo il significativo gesto dello scambio degli anelli e l’acclamazione possibilmente cantata, bisognerebbe far seguire subito la solenne benedizione e invocazione dello Spirito Santo con gesto epicletico. Sollecitare invece l’applauso significa anche rompere l’atmosfera e dare la stura alla superficialità in un’assemblea che andrebbe invece educata, seppure al momento, ad atteggiamenti che facilitino l’attenzione alla significatività del rito.

Come educare l’assemblea abituale?

Come a pregare s’impara pregando, così la formazione liturgica avviene celebrando. La pretesa di spiegare a ogni piè sospinto i riti che man mano si svolgono o le letture che si proclamano, diventa vuoto, frastornante e alienante didascalismo.

Si tratta piuttosto di educare ad uno sguardo rinnovato attraverso l’ascolto. Un ascolto e un’attenzione quali si prestano per ogni situazione ritenuta di un certo rilievo, conducono a rendere lo sguardo rinnovato e consapevole che sa andare anche al di là del puro dato sensoriale.

Quindi «chi partecipa con vera dedizione alla liturgia può sperimentare che in genere il materiale, movimento e azione corporea, possiede effettivamente un grande significato. Esso ha grandi possibilità di suscitar impressione, suggerir conoscenze, intensificare l’esperienza religiosa, rendere una verità più efficace e convincente della semplice parola (R. Guardini, Lo spirito della liturgia, pag. 73).

Perché ci sia ascolto responsabile, è necessario che ciò che deve essere ascoltato, sia pronunciato in modo tale da favorire la comprensione e l’intima partecipazione. Trovo molto pertinenti e puntuali al riguardo le notazioni di Giuliano Zanchi riguardanti il modo di proclamare i testi liturgici tale che se ne possa cogliere il loro senso più profondo: «Non si tratta ovviamente di recitare. Significa che se non sgorgano con naturalezza dell’aver realmente attraversato la coscienza di chi la pronuncia, quelle parole escono con un suono di circostanza, vuoto, meccanico, stropicciato dalle inflessioni che la fretta imprime alla parlata. Non sono propriamente false. Piuttosto insignificanti. Involucri sonori che, privi di una vera sostanza, lambiscono l’udito ma non attivano l’ascolto.

Rilasciano nel sottofondo delle coscienze e in maniera subliminale un deposito di malinconia che accumula, in modo non percepibile perciò ancora più incisivo, un senso inesorabile di irrilevanza e di inconsistenza circa la “cosa” stessa di cui quelle parole vorrebbero essere il veicolo. Questo vale per chi presiede e prega il canone, per il lettore che proclama la Scrittura, per il fedele che annuncia le intenzioni della preghiera.

L’assuefazione generale alla perdita di peso specifico di quelle modulazioni del suono che decidono delle sfumature del senso, oltre che tradursi in quel birignao con cui nei film si fa la caricatura idealtipica dell’intonazione di chiesa, toglie alle parole prescritte dal rito quella perenne intensità e quella intrinseca bellezza che esse conservano nonostante la distanza della loro “antichità”. Parole vecchie ma da suscitare come nuove» (G. Zanchi, op.cit., p. 71).

L’assemblea va educata al silenzio, all’ascolto, a non creare motivi di distrazione (c’è ora il tipo di fedeli che di colpo, a prescindere dal momento, fosse anche il più intenso, si alza e si affretta verso l’uscita… per rispondere al cellulare!). Questo, e altri comportamenti, che nessuno adotterebbe in circostanze solenni laiche, vanno corretti con carità e suggerendo soluzioni elementari e sensate.

La stessa omelia, quando se ne presenta l’occasione, può aiutare a percepire il senso della liturgia, con lievi tocchi direi “mistagogici”. Non si può certo tenere un’omelia che si discosti dalla Parola; ma essa, quando si fa narrazione, ci presenta personaggi che assumono atteggiamenti che sono parte integrante dell’azione liturgica: l’umile supplica, la prostrazione, l’inginocchiarsi, il tornare per ringraziare e lodare…). Non ci sarà bisogno di divagare, ma di evidenziare con brevi tratti efficaci certe consonanze.

Assemblee eterogenee

Come si può concretamente favorire la partecipazione e una pur minima educazione, benché momentanea, alla celebrazione che vede assemblate persone la cui presenza è dettata dalla circostanza come avviene per i funerali e i matrimoni, battesimi e cresime?

Non è certo facile, ma celebrare con la consapevolezza di non fare routine, metterci l’anima, entrare in empatia e saper cogliere da subito le caratteristiche e la disponibilità o meno di chi si ha davanti, usare un linguaggio omiletico agganciato alla Parola, alla realtà e a quell’assemblea che si è venuta a formare, celebrare senza tenere sempre lo sguardo di traverso sul messale, abbracciare piuttosto la gente con uno sguardo che sia significativo agli occhi dei presenti: tutto ciò può contribuire a creare un clima che dispone alla partecipazione e all’ascolto non più rassegnati, come poteva sembrare all’inizio della celebrazione.

Lo stesso rito, se eseguito con partecipazione e dignità, suscita attenzione e consapevolezza: «L’atto con cui un celebrante incensa l’altare, il libro, un defunto, il cero pasquale, ha qualcosa di magnifico e solenne, esprime tutta la dignitosa grazia della preghiera umana, la commovente fragranza della cura che si riserva anche al fratello senza vita, ma si può trasformare all’istante in qualcosa di ridicolo, sgraziato, insulso» (G. Zanchi, op.cit., p. 77).

Lo stupore

Papa Francesco afferma che parte essenziale dell’atto liturgico è lo stupore per il mistero pasquale. «Lo stupore di cui parlo non è una sorta di smarrimento di fronte ad una realtà oscura o ad un rito enigmatico, ma è, al contrario, la meraviglia per il fatto che il piano salvifico di Dio ci è stato rivelato nella Pasqua di Gesù (cf. Ef 1,3-14) la cui efficacia continua a raggiungerci nella celebrazione dei “misteri”, ovvero dei sacramenti» (25).

Non si tratta quindi, in riferimento al mistero pasquale, di «ciò che a volte mi pare si voglia esprimere con la fumosa espressione “senso del mistero”: a volte tra i presunti capi di imputazione contro la riforma liturgica vi è anche quello di averlo – si dice – eliminato dalla celebrazione».

Utilizzare effetti particolari e varianti eccentriche significa creare stupore non autentico.

Lo stupore è parte essenziale dell’atto liturgico perché è l’atteggiamento di chi sa di trovarsi di fronte alla peculiarità dei gesti simbolici; è la meraviglia di chi sperimenta la forza del simbolo, «che non consiste nel rimandare ad un concetto astratto ma nel contenere ed esprimere nella sua concretezza ciò che significa» (26).

«Se venisse a mancare lo stupore per il mistero pasquale che si rende presente nella concretezza dei segni sacramentali, potremmo davvero rischiare di essere impermeabili all’oceano di grazia che inonda ogni celebrazione» (24).

Il silenzio

Papa Francesco poi mette in evidenza un particolare fondamentale che riguarda tutta l’assemblea ed è condizione perché lo svolgimento delle celebrazioni non sia solo disciplina esteriore: mi riferisco al silenzio inteso come precondizione perché ci sia un processo di interiorizzazione e di “stupore” di cui sopra.

«Tra i gesti rituali che appartengono a tutta l’assemblea occupa un posto di assoluta importanza il silenzio. Più volte è espressamente prescritto nelle rubriche: tutta la celebrazione eucaristica è immersa nel silenzio che precede il suo inizio e segna ogni istante del suo svolgersi rituale. Infatti, è presente nell’atto penitenziale; dopo l’invito alla preghiera; nella liturgia della Parola (prima delle letture, tra le letture e dopo l’omelia); nella preghiera eucaristica; dopo la comunione» (52).

Si potrebbe aggiungere il silenzio prima del Prefazio, dopo il Santo e prima di iniziare la Preghiera Eucaristica. Il silenzio però non è «un rifugio nel quale nascondersi per un isolamento intimistico, quasi patendo la ritualità come se fosse una distrazione: un tale silenzio sarebbe in contraddizione con l’essenza stessa della celebrazione. Il silenzio liturgico è molto di più: è il simbolo della presenza e dell’azione dello Spirito Santo che anima tutta l’azione celebrativa, per questo motivo spesso costituisce il culmine di una sequenza rituale» (52).

Il papa suggerisce i contenuti spirituali che devono sostanziare quei momenti di silenzio: «Il silenzio muove al pentimento e al desiderio di conversione; suscita l’ascolto della Parola e la preghiera; dispone all’adorazione del Corpo e del Sangue di Cristo; suggerisce a ciascuno, nell’intimità della comunione, ciò che lo Spirito vuole operare nella vita per conformarci al Pane spezzato. Per questo siamo chiamati a compiere con estrema cura il gesto simbolico del silenzio: in esso lo Spirito ci dà forma» (ivi).

La cura dei momenti di silenzio ad alcuni potrà sembrare una cosa alienante al confronto con i tempi frenetici imposti dai ritmi di vita. Ma di esso si ha proprio bisogno come medicina per uscire dall’alienazione, momento di cui si ha più bisogno per ritrovare sé stessi, avvertire il tocco lieve dello Spirito ed essere ricondotti alla presenza di Dio. Diventa così scuola di preghiera nella vita quotidiana in cui ci si deve abituare ad entrare nella propria camera, chiudere la porta e pregare il Padre che vede nel segreto.

Certo, chi è alla ricerca di messe comode e di comodo si troverà a disagio. Ma «non esiste liturgia bella senza dispendio di tempo. Se la liturgia è dominata dalla mania tipicamente moderna del fare molto in poco tempo, è una liturgia che rischia di suicidarsi» (A. Carrara).

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