Diaconato femminile: il metodo di s. Tommaso

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Sabato 29 ottobre, a Vicenza, per iniziativa di Presenza donna, Pia società San Gaetano, Comunità del diaconato e Coordinamento teologhe italiane si è svolta una Giornata di studio su invito, con il titolo Donne diacono: un ministero im-possibile? Si è trattato di una giornata intensa, aperta, con confronti sereni e con una forte armonia tra memoria e profezia. Riporto qui sotto il mio intervento, seguito da alcune conclusioni complessive.

Cum ergo in sexu femineo
non possit significari aliqua eminentia gradus,
quia mulier statum subjectionis habet;
ideo non potest ordinis sacramentum suscipere.

(S. Thomae, Super Sent., lib. 4 d. 25 q. 2 a. 1 qc. 1 co. )

Nel mio breve intervento vorrei proporre una dimostrazione teologica paradossale. Siccome alcuni autori di rilievo (come Muüller, Menke e Hauke) hanno utilizzato come “argomento decisivo” la definizione dell’esclusione dell’ordinazione della donna “de necessitate sacramenti”, traendo tale argomentazione direttamente da s. Tommaso (dal Commento alle Sentenze e dal Supplemento alla Summa theologiæ), vorrei mostrare che questa procedura di argomentazione risulta per loro stessi controproducente, perché, se seguita secondo la coerenza interna al testo stesso, così come concepito e proposto da Tommaso, conduce oggi alla soluzione opposta rispetto a quella proposta da Tommaso e sposata, acriticamente, dagli autori contemporanei.

Dunque la fedeltà al buon senso di Tommaso conduce a conclusioni opposte rispetto alle sue. Perché Tommaso non è un martello, ma un faro. E non è un maestro che impedisca ai suoi allievi di arrivare a conseguenze diverse dalle sue!

Al centro della questione sugli “impedimenti” alla ordinazione

Coloro che ritengono “impossibile” l’ordinazione delle donne procedono con una somma di argomenti quasi solo di autorità:

Ordinatio sacerdotalis sarebbe applicabile anche al diaconato

– La storia di una “assenza” di legittimazione del diaconato femminile

– Il ridimensionamento di “ogni presenza” attestata

– l’assunzione di un “principio di impedimento”, maturato dal pensiero di Tommaso d’Aquino

Qui un primo punto da acquisire è: non si può far dire alla “tradizione premoderna” ciò che è stato acquisito soltanto con la tradizione tardo-moderna. Se dalla fine del XVIII secolo inizia un mutamento culturale e sociale, questo cambiamento condiziona anche la lettura delle fonti storiche.

La citazione decisiva di Tommaso

Ritengo che la citazione decisiva, per comprendere la posizione “negativa” sulle donne diacono, sia quella che fa discendere la negazione “de necessitate sacramenti”. Come a dire che l’impossibilità di inserire il “sesso femminile” nell’ordine sacro non è contingente, ma discende da una esigenza “di diritto divino”, che la Chiesa non potrebbe modificare. Ecco il testo di Tommaso nella duplice versione del Commentario alle Sentenze e del Supplementum alla Summa theologiae:

Cum ergo in sexu femineo non possit significari aliqua eminentia gradus, quia mulier statum subjectionis habet; ideo non potest ordinis sacramentum suscipere (Super Sent., lib. 4 d. 25 q. 2 a. 1 qc. 1 co.).

«Nel sesso femminile non può essere significata una eminenza di grado, poiché la donna ha una condizione di soggezione e perciò non può ricevere il sacramento dell’ordine».

(Thomas Aquinas, S.Th., Suppl, 39, 1, c).

Il procedimento di Tommaso, non solo la conclusione

È  molto interessante il destino di questo, come di moltissimi altri testi di Tommaso. Essi vengono citati fuori contesto, spesso contro la sua stessa argomentazione. In questo caso è utile tener presente che:

a) la “necessitas sacramenti” viene distinta dalla “necessitas praecepti”;

b) la soluzione negativa riservata alla “donna” sta in un contesto in cui vengono affrontati, in successione, i seguenti “impedimenti alla ordinazione”:

  • sesso femminile
  • minore età o incapacità nell’uso della ragione
  • condizione di schiavitù
  • essere stati condannati per assassinio
  • essere figli illegittimi
  • essere disabili fisicamente

Ognuno di questi “impedimenti” viene giudicato in rapporto alle due “necessità”.

1) La “condizione femminile” viene letta, tuttavia, esclusivamente sul piano della recezione culturale e sociale della “donna come segno di autorità”: «quod mulier statum subjectionis habet».

2) Sulla base di questa costatazione culturale e sociale – che pochissimi oggi si azzarderebbero a definire “di diritto divino” – Tommaso esclude “de necessitate sacramenti” che possa essere soggetto di ordinazione una donna.

La conclusione opposta, in un altro tempo

Seguendo oggi lo stesso procedimento di Tommaso, ossia considerando l’orizzonte culturale e sociale in cui si inserisce la “questione”, molte altre sarebbero le letture di tutti questi diversi impedimenti. Partendo dal fondo: il disabile, il figlio illegittimo, il criminale e lo schiavo, possiamo valutare con grande semplicità quanto diverso sia il mondo che oggi viviamo!

Se oggi si considera la stessa questione, con la medesima lucidità di Tommaso, ma senza avere più attorno a noi la stessa società di Tommaso, si deve giungere alla conclusione opposta. Potremmo allora dire così, mettendo in parallelo il 1274 con il 2016

– nel 1274: L’ordinazione delle donne è impossibile “de necessitate sacramenti”, sulla base della costatazione di “convenienza” secondo cui nella società il sesso femminile non può significare alcuna “eminenza di grado”, data la condizione di soggezione della donna. È la condizione di soggezione ad imporre una soluzione univoca e per certi versi perfettamente coerente.

– nel 2016: La ordinazione di donne è possibile “de necessitate sacramenti” sulla base della costatazione di convenienza secondo cui nella società il sesso femminile può significare una “eminenza di grado”, dato che la condizione di soggezione è stata “culturalmente e civilmente giudicata inadeguata, ingiusta e quindi superata”. È la conquistata “eguaglianza” a consigliare, con prudenza e lungimiranza, di inserire gradualmente il “sesso femminile” nell’articolazione ministeriale e sacramentale della Chiesa.

Ciò che veramente non è tradizionale è attribuire “potere” alla donna al di fuori della struttura sacramentale. Se ha autorità deve averla nel sacramento. Se non l’ha nel sacramento, non le viene davvero riconosciuta, fosse anche elevata al titolo di cardinale. Senza nulla togliere alla libertà dello Spirito, e alle altre forme di autorità che la Chiesa conosce, al di qua e al di là dell’ordine sacro, io credo che un vero riconoscimento della soggettività femminile nella Chiesa debba passare “de necessitate sacramenti” attraverso un’ordinazione “uguale”. La Chiesa non è più “societas inaequalis”. Il ministero di Cristo non è più controllabile né “ratione repraesentationis”, né “ratione significationis”: l’eguaglianza civile e sociale non cambia il Vangelo, ma permette di comprenderlo meglio.

Alcune conclusioni

a) Dietro la soluzione proposta da Müller, Menke e Hauke c’è non solo il mancato riconoscimento della questione femminile, ma appare chiaramente il profilo inconfondibile di quel teorema della “rinuncia alla autorità” escogitato da curia e teologi di corte per mantenere intatto e immutato il potere. Le donne oggi non chiedono potere, ma il riconoscimento dell’autorità. Non ha senso cadere nella trappola di una “attribuzione di potere senza autorità”. Essa sarebbe la conferma del teorema che Francesco dimostra di voler superare. Il diaconato attende di poter essere arricchito dall’autorità che la donna ha dimostrato di saper esercitare nella cultura, nella politica, nella’conomia, nella ricerca e nell’arte di una “società aperta”. La strategia di “negarsi autorità” per concedersi ancora un “monopolio maschile del potere” non risponde né al primato del tempo sullo spazio, né al primato della realtà sulla idea. L’ordine sacro è la forma dell’esercizio della autorità nella Chiesa. Attribuire alle donne un potere solo se “diverso dall’ordo” – sulla base di una anacronistica proiezione della società medievale sul terzo millennio – vorrebbe dire non voler uscire da una concezione della Chiesa come “societas inaequalis” e “struttura autoreferenziale”.

b) Quando Tommaso d’Aquino risolve la questione della “non ordinabilità” della donna ragiona secondo logiche sociali e culturali, antropologiche e istituzionali. Forse potrà risultare sorprendente, ma Tommaso, più di 700 anni fa, sapeva identificare con cura il livello della questione della autorità nella Chiesa. Esso non si collocava “a mezz’aria”, ma riguardava direttamente le esperienze di potere, di autorità e di esercizio istituzionale.

Le soluzioni che Bonaventura e Tommaso elaborano nel XIII secolo sono o sul piano della “rappresentanza” e della “mediazione”, o sul piano del “significato” e della “rilevanza”. Da un lato si valuta la possibilità della donna di essere mediazione di Cristo; dall’altro la possibilità per essa di significare una “eminenza di grado”; in entrambi i casi la argomentazione è “di convenienza”. Entrambi queste argomentazioni, elaborate nel XIII secolo, non possono essere ripetute oggi senza cadere in forme grossolane di ingenuità o di ingiustizia. Il ragionamento sulla “ordinabilità delle donne” non può essere sottratto alle comuni valutazioni sulla capacità di “mediazione” e di “significazione” del sesso femminile. Questo è un livello di valutazione che esiste nella Chiesa da più di 700 anni e che non è stato inventato negli ultimi decenni. Ciò che è mutato, negli ultimi due secoli, è la posizione culturale, sociale e istituzionale della donna. La teologia non può non tener conto di questi mutamenti, recependone la novità. Se non lo fa, finisce per assolutizzare giudizi contingenti, rendendo contingenti e fragili le soluzioni attuali.

c) Alla luce di queste considerazioni, noi dobbiamo riconoscere che oggi l’istituzione di una commissione per lo studio storico del diaconato femminile, che è un passaggio assai importante, non deve illudere nessuno sulla possibilità che sia la storia a risolvere il nostro imbarazzo. La storia non potrà mai dirci ciò che dovremo fare domani del ministero ecclesiale. Può dirci al massimo ciò che è stato ieri e l’altro ieri. Per questo credo che il magistero ecclesiale, se non vuole ignorare la questione, debba assumere responsabilmente il compito di riconoscersi autorizzato a decisioni importanti. Non può nascondersi dietro una “mancanza di autorità”.

Ma una cosa dovrebbe risultare chiara: oggi non è in gioco la dimostrazione della “ordinabilità” delle donne al diaconato. L’onere della prova, nel mondo tardo-moderno, risulta capovolto: nel contesto di un mondo che ha superato ogni discriminazione nei confronti dell’autorità femminile, dovremmo attenderci giustificati motivi che impediscano l’ordinazione. Se sentiremo ripetere i motivi di impedimento elaborati 700, 500 o 300 anni fa – pensati in un mondo radicalmente pre-moderno – resteremmo al di qua del compito che ci è chiesto. In assenza di convincenti ragioni di impedimento, credo che la Chiesa, dopo aver studiato tutta la storia possibile, potrà serenamente riconoscere che le donne possono esercitare l’autorità nella Chiesa anche nella forma ordinaria: ossia come ministri ordinati.

Pubblicato il 30 ottobre 2016 nel blog: Come se non

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Un commento

  1. Maria 22 novembre 2016

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