Carcere e pastorale

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Dialogo con don Dario Crotti, direttore della Caritas diocesana e cappellano del carcere di Pavia, per cercare di comprendere a fondo le ragioni delle violente rivolte della settimana scorsa nelle carceri italiane.

Caro don Dario, la vicenda coronavirus sta assorbendo ogni attenzione. L’informazione dedicata alla rivolta nelle carceri è risultata piuttosto sommaria e condizionata dalla temperie. Vuoi spiegare, prima di tutto ciò di cui sei stato diretto testimone quale cappellano a Pavia?

Sabato 7 marzo scorso ho lasciato il carcere di Pavia alle 14. Con un ispettore avevo appena ascoltato la situazione disperata di un uomo detenuto che da giorni aveva iniziato lo sciopero della fame. Probabilmente aveva con sé una lametta nascosta da qualche parte. Pazientemente è stato distolto dai suoi propositi e, almeno apparentemente, convinto a riallacciare le relazioni con i familiari. Sono uscito dal carcere – come spesso mi capita e come capita a molti volontari, operatori ed agenti – con un certo senso di inadeguatezza: i nostri gesti sono piccoli cerotti posti su gravi emorragie.

Carcere pastorale

don Dario Crotti

Domenica in serata sono venuto a conoscenza, dai media, della situazione di alcune carceri: Modena, Frosinone, Alessandria e Vercelli, Poggioreale.

Ignoravo ancora quanto era in atto nella stessa Pavia, nel carcere dal quale ero uscito da poco e in cui entro ogni giorno.

Solo in tarda serata ho saputo – tramite messaggi – che la situazione stava precipitando. Lunedì mattina sono accorso. Già dall’esterno percepivo una situazione di estrema gravità. Solo nel primo pomeriggio mi è stata data facoltà di entrare.

Al piano terra erano evidenti i segni di una devastazione violenta e cieca. Gli spazi che erano stati imbiancati e curati dagli stessi detenuti risaltavano completamente anneriti dal fumo degli incendi. Ovunque ho visto vetri rotti, sedie fracassate, polvere di estintori e pozze d’acqua: uno spettacolo desolante. Nel mentre vedevo ancora agenti correre a destra e a manca per domare altri focolai di rivolta.

La fatica e l’assurdo

Ho sentito addosso, di colpo, il peso dell’assurdità, della distruzione per la distruzione fine a sé stessa, senza scopo e senza futuro. Dopo tanta fatica. Conosco infatti il lavoro della polizia penitenziaria e del personale del carcere di Pavia. Ha sempre fatto il possibile per ascoltare i detenuti, accompagnarli, mediare i conflitti. Mi ci metto in mezzo anch’io.

Tutti abbiamo i nostri limiti. Ma tutti in carcere lavoriamo in condizioni limite. Non posso negare a me stesso il moto di frustrazione che ho provato. Ciò che con fatica e in diversi anni è stato costruito, anche col contributo mio e dei nostri volontari, in un batter d’occhio, è andato distrutto. Mi è difficile accettare.

Ma so bene che il carcere – per come è, di fatto, concepito dalla giustizia penale – è un gran accumulatore di frustrazioni, di rabbia e di tensioni: in questa occasione sono esplose con tutta la virulenza possibile. È solo un miracolo se nessuno tra i detenuti e gli agenti è stato gravemente ferito. Poteva finire molto peggio.

Non cercare scorciatoie

Nei giorni successivi sino ad oggi mi sono dedicato a raccogliere le grandi fatiche degli agenti, degli educatori e del personale amministrativo e sanitario. Il carcere è comunque una comunità fatta di persone che non si sono scelte, ma che vivono e che provano insieme gli stessi sentimenti. Questa è la risorsa dei cuori da cui ripartire.

Quanto dunque è accaduto è dipeso dai provvedimenti presi a seguito dell’emergenza virus?

Credo che sarebbe una scorciatoia pensare al coronavirus e ad alcuni provvedimenti relativi quale unica causa di quanto è accaduto. Sinceramente devo dire che la direzione del carcere di Pavia aveva coinvolto le persone recluse nello spiegare loro verso cosa si stava andando incontro a motivo dell’emergenza virus.

Per ciò erano state concesse telefonate “doppie”, anche via Skype, per tenere più vivo il contatto con i familiari. Francamente a me pochi detenuti avevano parlato del problema virus. Mi avevano chiesto quale fosse fuori la situazione e mi avevano chiesto rassicurazioni circa i loro familiari. Avevo spiegato loro che anch’io potevo essere, pur con tutte le cautele, potenzialmente contagioso, arrivando a loro dall’esterno.

Carcere pastorale

Certamente le restrizioni aumentate, l’impossibilità di vedere i familiari e di verificare il proprio stato di salute, con tutto il senso di impotenza che la carcerazione determina, insieme al procrastinarsi delle udienze e alla impossibilità di uscire in permesso… hanno caricato ulteriormente la tensione già esistente. La devastazione di cui sono stato testimone vuol dire evidentemente ben altro rispetto ai soli provvedimenti collegati al virus.

La tua assistenza di cappellano, insieme a qualche altro prete, così come quella dei volontari normalmente impegnati nelle varie attività, quanto è importante e quanto può essersi rivelata determinante la limitazione o la sospensione?

Questa domanda mi “brucia”. Mi sto interrogando. Ci stiamo interrogando. Dobbiamo metterci di nuovo in discussione. Le nostre risposte sono sufficientemente educative o sono ancora nel solco dell’assistenzialismo? L’apertura alla città avvenuta in questi 10 anni, promossa dai cappellani e dalla Caritas – con l’intervento di parecchi giovani studenti pavesi che hanno animato tante occasioni di incontro con i detenuti per leggere la comune umanità – dove è andata a finire?

Una presenza pastorale

Ma resto convinto che la carcerazione sia la condizione limite a cui continuare a rendere visita e ad abitare con tutte le forze buone, sane ed intelligenti che possono portare pensiero, cura, riflessione… umanità. Le parole – ferme e buone – sono ancora la sola forza che si possa mettere in campo con chi ha sbagliato e ha usato la violenza. Questa brusca frenata è a bilancio come una grave perdita, come un segno pesantemente negativo. Ma dovremo ripartire. Non possiamo permettere che l’ultima parola sia il male.

In quanto sta accadendo a proposito del coronavirus, non solo nelle carceri, ciò che più mi ha colpito e mi amareggia – consapevole della delicatezza della situazione sanitaria – è che le attività di promozione della relazione proprie del mondo ecclesiale possano e debbano essere sospese perché ritenute non indispensabili. Un passaggio di un decreto che ho letto le classifica persino come “superflue”. Sono davvero superflue in carcere?

La detenzione come la malattia costituisce l’occasione per fare un bilancio della propria vita e per interrogarsi su questioni di fondo dell’esistenza. Vedo frequentemente che per qualche persona è anche occasione di ritorno alla fede, al rapporto con Dio. Per questo non posso accettare che le attività proprie della Chiesa e del volontariato possano essere ritenute superflue.

Di certo abbiamo la responsabilità di non presentarci come una sovrastruttura religiosa che anestetizza le coscienze: il cammino di fede e di umanizzazione, al contrario, responsabilizza, apre gli occhi verso il male commesso e subìto. Il nostro compito come Chiesa non è certamente quello di giustificare col buonismo i comportamenti devianti, bensì di promuove itinerari che portino ciascuno di fronte a sé stesso, alla propria coscienza, di fronte alle vittime dei reati e persino di fronte a Dio, per chi voglia aprirsi a tale dimensione. In ogni caso devono cercare di portare di fronte a un senso della vita e ad un suo mistero in accezione ampia.

Questa cosa riguarda evidentemente anche me e ciascuno di noi. Proprio a Pavia, come in altre carceri, era in atto un progetto di studio sul pluralismo religioso in carcere, precisamente per analizzare l’apporto delle religioni nel percorso riabilitativo dell’autore di reato. Spesso, anche con persone non credenti e delle diverse appartenenze, si riusciva ad intavolare un interessante e utile confronto.

Presenti nel tessuto della vita

Dal punto di vista ecclesiale dobbiamo continuare a riflettere bene sul senso della nostra presenza in carcere e prepararci. Specie dopo le forti emozioni vissute in questi giorni. Nelle diocesi qual è ora il criterio per scegliere il cappellano del carcere? Con quale preparazione? Quale formazione il seminario, la vita consacrata e le comunità cristiane offrono per tale mandato? Cosa si sta facendo perché le parrocchie si prendano cura delle vittime innocenti dei reati o perché diventino luoghi di accoglienza e di reinserimento di chi ha sbagliato?

Quanti giovani – che abbiano fatto l’esperienza del servizio in carcere – abbiamo ascoltato in occasione del Sinodo? Come ci siamo preparati al fenomeno delle migrazioni che tanto ha a che fare con questa realtà? Forse avremo bisogno di un Sinodo o di qualcosa del genere anche sulle carceri. Se non lo faremo temo che offriremo ragioni a chi descrive le nostre attività come “superflue”.

Questa tristissima storia non darà ancora modo di dire “buttiamo la chiave”? Chi può veramente levare ora una voce di umanizzazione della realtà carceraria? La Chiesa?  

Credo che sia inevitabile che, per quanto accaduto, molti ritornino a dire: “buttiamo la chiave”. Politicamente è sempre scomodo parlare di carcere se non in questa sola direzione, perché se si parla in un altro modo, si perdono voti e consensi.

Carcere pastorale

Mentre io ritengo che ogni momento buio della storia dovrebbe dare occasione per ricercare una nuova o rinnovata conoscenza e sapienza del cuore umano per la politica.

La Chiesa può tanto, ma non può da sola. Ci sono tante altre risorse di saggezza “laica” dentro le persone delle istituzioni. In tanti credono in una giustizia diversa e lo testimoniano. L’immagine che mi ritorna in mente oggi è quella del crollo del ponte Morandi di Genova: per ricostruire c’è da molto fare e molto in fretta, ma non si può fare a caso.  È necessario un serio e valido progetto politico, nel senso più alto. Prego perché venga ascoltata la sapienza che sicuramente c’è nella comunità carceraria e prego perché la politica voglia dare a questa adeguato corso.

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