Rendere efficace l’annuncio del Vangelo

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Dalla penna di Luca, che propone At 17,22-32, possiamo trarre una miniera di criteri. Luca ha la dote di raccontare la storia dell’invenzione della Chiesa, della creazione di forme senza le quali un evento non sopravvive. Racconta una storia di fallimenti e di tensioni, ammorbidendo i toni e presentandola nel modo più conciliante, senza perdere le tracce della realtà.

Paolo sfida i greci. Va all’areopago. Ha l’ambizione di annunciare senza peli sulla lingua la risurrezione e farlo ad una platea eletta. Ma incappa in un clamoroso insuccesso. Dopo aver preparato il discorsino teologico, usando il linguaggio degli interlocutori, quando arriva al dunque, si sente rispondere con un sorriso compiacente: «Ti sentiremo su questo un’altra volta».

È un momento di svolta nella strategia e nella teologia di Paolo. Il fallimento prepara la paziente tessitura di una rete di Chiesa. È la prima ragnatela attraverso la quale il piccolo movimento della via diventa il cristianesimo destinato alle genti. Antiochia è il primo luogo in cui i credenti vengono chiamati cristiani.

Così don Giuliano Zanchi ha introdotto il suo contributo nell’incontro della Bottega delle idee promosso dall’Ufficio catechistico nazionale.

L’esigenza di essere significativi e autorevoli

La Chiesa oggi ha l’ambizione di rendere l’annuncio significativo e autorevole. È chiesto agli annunciatori di essere significativi, non insignificanti, attraverso una proposta che sia recepita come significante in ordine all’esistenza degli uomini e donne di oggi.

Allo stesso tempo, è chiesto, sempre agli annunciatori, di essere autorevoli, cioè non retorici, riconosciuti come riferimento in ordine alle questioni del senso. Autorevole è quella persona di cui si dice: su questo punto ascolto te, riconosco la tua competenza.

Il relatore ha affermato senza mezzi termini che noi non siamo più né significativi né autorevoli, o meglio non lo siamo più come una volta. Sembriamo rinnovare la scena di Mt 7,28, dove qualcuno ascolta Gesù e capisce che i loro scribi non hanno la stessa autorità e la stessa presa.

Certo, non avremo mai la significatività di Gesù. Ci troviamo però dentro una umanità che continua a farsi domande. Nel contesto della post-secolarità, la società sembra rianimata da un crescente bisogno di spiritualità. Però, più che riabilitare le Chiese storiche, le sta mettendo un po’ da parte e alla prova, soprattutto sugli aggettivi: autorevole e significativo.

I nuovi bisogni spirituali hanno caratteristiche molto specifiche. La ricerca spirituale è più una ricerca dell’individuo e non della comunità, è rigorosamente antidogmatica, più esistenziale che morale, pronta a togliere le croste precettistiche e giuridiche.

Gli uomini di oggi cercano qualcuno che sia in grado di aiutarli con una sapienza che illumini l’esperienza della vita. Occorre fare i conti con una spiritualità patteggiante, nomadica, sperimentale, contaminante. Queste sono le caratteristiche con cui i credenti di oggi scrivono la loro appartenenza alla fede cristiana.

Le nostre comunità sono fatte di gente che ha imparato a costruirsi un proprio mondo religioso. È uno scenario che ci costringe a cambiare molte delle forme che abbiamo ereditato.

La messa non è più il rito sociale di tutta la gente, come era prima; non è più nemmeno il rito di tutti i cristiani, e ci sono molti più credenti che sono praticanti della Parola e della carità piuttosto che della messa.

Il rinnovamento teologico di questi ultimi 60 anni ha già fatto i passi essenziali per estrarre la teologia dai manuali, da concetti astratti. L’impressione è che la ricchezza di questo passaggio non sia scesa a nutrire il senso comune del cristianesimo di base e le sue pratiche.

Senza la pretesa di dare soluzioni, ma nella libertà di pensiero e con chiarezza, don Zanchi ha messo in luce alcuni criteri per rendere l’azione testimoniale non solo efficace, ma anche sincera.

L’annuncio del Dio cristiano non è una cosmetica della dottrina

Annunciare, proporsi, testimoniare non significa prendere un sistema predefinito di convinzioni religiose e di formulazioni dottrinali e rivestirle di una patina di intellettualismo, o di veicolarle nella suggestione del nuovo appeal mediatico.

C’è un modo di intendere l’annuncio che è semplicemente cosmetico, perché è forte l’implicita convinzione che noi abbiamo già i contenuti da trasmettere. Per cui, annunciare diventa semplicemente trovare il modo più suggestivo e avvincente, emotivamente più penetrante, per far arrivare la proposta.

Questa è un’idea cosmetica dell’annuncio. Significa, il più delle volte, dire meglio cose vecchie. Si tratta di otri nuovi con dentro vino vecchio. Qui bisogna capire che cosa è fondamentale e cosa è limitante.

La questione dei linguaggi ha certamente il suo rilievo, non è una questione da evitare, ma può essere fuorviante quando diventa l’unico nucleo di riflessione sulla questione dell’annuncio. Questa accentuazione rischia di farci diventare qualche volta patetici o ridicoli. Basta guardare lo sfogo di modalità che si incontrano in You Tube.

Una nuova comprensione della forma cristiana della religione

Il nostro problema è proprio una nuova comprensione della forma cristiana della religione. La questione non è tanto dei linguaggi, è rifare i conti con il contenuto, con quello che abbiamo da dire. Mt 13,52 lascia intuire che, parlare di Dio, dell’uomo e della vita non è solo difficile ma anche rischioso. Perché è sempre sul punto di diventare ideologia, dogmatismo, retorica, che sono cose diverse dalla tradizione. In tal senso occorrono pulizia linguistica e chiarezza ideologica.

Sequeri in un libro importante (Iscrizione e Rivelazione, Queriniana 2022) afferma che «la parola di Dio si dà sempre in parole nostre, e poi nell’autocritica delle parole nostre». Questo è quello che dobbiamo fare per offrire una corretta comprensione del messaggio cristiano. Senza questo circolo, le parole restano “nostre” e non più di Dio.

Dobbiamo riattivare il lavoro di autocritica delle parole nostre perché, attraverso questa autocritica, possa risuonare di nuovo la parola di Dio. Quindi, c’è bisogno di rimettere in sesto il discorso cristiano dal punto di vista dei contenuti.

La catechesi, dentro questo processo, deve mettere a fuoco i suoi limiti e il suo ruolo specifico. La crisi dell’Iniziazione Cristiana è lo svelamento del fatto che la catechesi ha portato la croce per troppo tempo e ora non ce la fa più. Il concilio di Trento gli ha dato una struttura, in un momento in cui la Chiesa esprimeva linguisticamente le cose in cui credeva, e le esprimeva in un modo comprensibile per tutti. Oggi non è più così, e deve fare i conti su come si attuino i processi iniziatici, e come poter dire le parole di Dio.

I primi destinatari dell’evangelizzazione sono i cristiani

La Chiesa è chiamata a tornare alla forma cristiana di Dio e della religione e al primato che in essa occupa la grazia. Ciò che fa la differenza è l’aggettivo “cristiana”. La forma cristiana di Dio e della religione è la grande sfida del pontificato di Francesco, che lui sintetizza nel tema della misericordia, e che un teologo direbbe: l’assoluto è affidabile. Non ci sono ombre su Dio.

Proprio questo è il primo tema da riscoprire su Dio, sulla vita, sul mondo, sulle cose.

Noi abbiamo un grande bisogno di rianimare la dialettica Rivelazione/Scrittura in rapporto al binomio dottrina/morale. Queste parole non sono la stessa cosa, la Rivelazione è più della Scrittura, la Scrittura non adegua totalmente la Rivelazione. La dottrina si fonda sulla Rivelazione e sulla Scrittura, ma è subordinata all’una e all’altra. La morale lo stesso.

Queste quattro categorie le abbiamo sovrapposte e messe sullo stesso piano, mentre non hanno la stessa grandezza. Qui la teologia deve fare chiarezza. È indispensabile precisare le differenze e capire quali sono le relazioni. Perché? Perché rischiamo di elevare a dignità divina la dottrina e la legge e, in questo modo, ci giochiamo il rapporto essenziale con la realtà della vita e quindi non siamo più significativi e autorevoli.

Ci sono luoghi della Scrittura che sono emblematici in merito. Ad esempio, i quattro vangeli sono concordi nell’indicare come la questione del sabato sia al centro di ogni polemica di Gesù con i suoi contemporanei.

I segni o le rettifiche teologiche sono sempre lì, nel sabato, perché nel sabato è in atto il conflitto tra la legge religiosa e i bisogni dell’uomo. Il conflitto va chiarito. E Gesù lo chiarisce dicendo che non sempre è possibile circoscrivere la legge religiosa.

Gesù ha operato un cambiamento di modulo che dà respiro. E questo dovrebbe diventare patrimonio di base del credente comune ancora abitato da un dispotismo arcaico.

È pur vero che noi cristiani non possiamo pensare che esista un mondo senza Gesù Cristo: «Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). La parola dice che Dio non mollerà mai l’umanità. Mosè nel deserto, dopo che è successo l’innominabile delle tavole della legge e il vitello d’oro, si scontra con Dio: «Il Signore disse inoltre a Mosè: Ho osservato questo popolo e ho visto che è un popolo dalla dura cervice. Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li distrugga. Di te invece farò una grande nazione» (Es 32,9-10), cioè, da te farò nascere un popolo migliore.

Magari noi avremmo abboccato, ma Mosè no: Signore Dio, con tutto il rispetto, se li lasci morire nel deserto, io non ti seguirò. Allora Dio si pentì. E la fine del pentimento di Dio è il sacrificio di Gesù, sigillo di un’alleanza affidabile.

Come stare al mondo da cristiani

Questa evangelizzazione interna non è che la fase complementare di una rinnovata presenza cristiana nel tempo in cui viviamo. Essa non può avvenire senza l’ascolto di quello che sta intorno a noi. Nella vita credente c’è sempre la retorica del mondo di oggi come se si trattasse di una popolazione aliena, in relazione alla quale noi siamo semplicemente “di fronte” o “contro”, mentre noi siamo “con” gli altri.

Abitare la cultura significa stare nelle categorie in cui si formulano i simboli e linguaggi di un umano che è comune. Significa reinterrogare i temi cristiani alla luce delle domande e degli interrogativi che gli esseri umani si pongono adesso e che solo adesso si possono porre. Non esiste una umanità astratta. La cultura si manifesta in forme nuove. Senza di esse il vangelo non ha un vero interlocutore.

È il mondo che ospita noi, è il mondo della vita che ospita la vita cristiana. Compito del cristiano è mostrare come anche l’uomo di oggi può dare alla sua vita la forma del vangelo. Che non è la forma della parrocchia o del movimento, anche se è vero che può ricevere forma da essi.

La Chiesa esiste come spazio per quelli che provano a vivere il vangelo e mostrare che si può, che non è una cosa ideale o un’utopia. Questo è essere significativi e autorevoli. Facciamo questo come ospiti del mondo e dell’umanità.

Abbiamo la percezione di una distanza di Dio e, eliminato Dio dalla vita, scorrazzano gli idoli. Ma anche in questa società, dove Dio sembra estromesso, Gesù resta nel mezzo. Dobbiamo smettere di immaginare di annettere totalmente il mondo. Non è il mondo che è nella Chiesa, è la Chiesa che sta nel mondo. Non si deve essere animati dalla riconquista a tutti i costi: «Volete andarvene anche voi?» (Gv 6,67).

Assumere una posizione docente

Per stare al mondo da cristiani, è importante abitare la cultura del libro, della specializzazione. Dovremo fare i conti col fatto che anche il fondamento teologale della creazione non possiamo più tematizzarlo senza tener conto di realtà che si sono trasformate.

Essere significativi e autorevoli significa stare in una posizione docente. La persona significativa non è quella che sa tutto e ti plagia, tanto meno è la persona autorevole. È piuttosto l’attitudine di chi è capace di essere compagno di viaggio nel cammino della vita, senza essere prescrittivo ed esigente.

C’è bisogno di una Chiesa che, su realtà complesse, non ti dà la soluzione, ma ti offre dei principi. Questo richiede di abitare la cultura antropologica (magari anche in senso critico/profetico, che però non significa ideologico/moralistico). Esiste anche un antagonismo religioso che è solo antagonismo morale, e riduce la religione ad una patetica badante delle tradizioni sociali e immaginarie. Occorre stare nella cultura evitando le derive e rimanendo all’altezza delle sfide.

Ci sono delle possibilità promettenti per i destinatari, nella misura in cui tali possibilità trasformano anzitutto chi è responsabile dell’annuncio.

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