Sovranismi e idolatria

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rapporti stato-chiesa

Il modello sociale “organicista”, che descrive la società come se fosse un corpo in cui ogni organo deve stare al suo posto, è antico e molto diffuso. Quando si ebbe la svolta costantiniana, anche i cristiani lo accolsero, convinti che, da quel momento, vi sarebbe stato un unico popolo di Dio, un unico organismo politico e religioso con a capo Cristo, il quale avrebbe manifestato la sua signoria attraverso i poteri esistenti.

Le “due spade”

I poteri erano due (le “due spade”): entrambi aventi origine divina, si occupavano rispettivamente dell’anima e del corpo, della Chiesa e del mondo. In questo modo veniva affermata sia l’origine divina del potere civile, cui spettava il governo delle cose materiali, avendo come fine il bene comune; sia la distinzione da esso dell’ordine sacerdotale, il quale aveva però una superiore dignità a motivo del suo fine più elevato (come l’anima è superiore al corpo, così il potere sacerdotale è superiore a quello regale).

rapporto stato-chiesaLe due autorità erano chiamate a collaborare per il bene supremo degli appartenenti alla res publica christiana.

La discussione teorica e le realizzazioni pratiche tennero conto a lungo di questo quadro di riferimento; all’inizio del secondo millennio, ci fu anzi il tentativo – per un certo tempo coronato da successo – di collocare la sfera religiosa al di fuori e al di sopra di quella temporale.

Bernardo da Chiaravalle, nel XII secolo, non aveva dubbi: «L’una e l’altra spada appartengono alla Chiesa, cioè sia la spada spirituale che quella materiale. Questa deve essere usata per la Chiesa, quella dalla Chiesa; la prima dal presbitero, la seconda dal cavaliere, ma sicuramente su ordine del presbitero».

Per tutto il XIII secolo e fino all’inizio del XIV queste pretese sembrarono avere una loro concretezza, ma poi si rivelarono sempre più velleitarie, e il papato fu costretto a contrattare di volta in volta la propria posizione e perfino la propria libertà.

Emerge il ruolo dello Stato

L’inizio della fine di questa «età dell’integrazione» tra dimensione religiosa (cristiana) e dimensione civile si colloca tra XVI e XVII secolo. La storiografia cattolica lesse tale cambiamento in chiave negativa, con nostalgia verso un’età medievale nella quale vi sarebbe stata la concordia tra potere temporale e spirituale.

Ma non fu l’esito di una speculazione astratta. Il cambiamento venne nel crogiuolo delle guerre di religione che dilaniarono l’Europa, quando apparve dolorosamente evidente che i princìpi religiosi, da soli, non solo non davano un contributo alla convivenza ma potevano anche essere anche all’origine della devastazione.

Era drammaticamente necessario trovare un nuovo fondamento per una comunità che altrimenti era sempre sul punto di frantumarsi e tramutarsi – in nome di una qualche ortodossia – in guerra di tutti contro tutti.

rapporto stato-chiesaSi pensò che la convivenza civile potesse essere rifondata considerando lo Stato non solo al di sopra di ogni altro potere, ma come l’unico ambito degno di gestire l’azione collettiva. La soluzione fu dunque individuata nel consegnare ad esso (al Defensor Pacis, alla République, al Leviatan) tutti i diritti pubblici, attribuendogli il monopolio della violenza e della giurisdizione, al fine di garantire l’ordine. La fedeltà ad una confessione religiosa non era in grado di portare stabilità e ordine pubblico: la fedeltà a un re sì.

Lo Stato – questo Stato – a partire dal XVII secolo estese, nella teoria e nella pratica, il proprio controllo su molte (potenzialmente su tutte) le sfere del vivere civile, rifiutando l’esistenza di contropoteri, sia sopra di sé (papato, impero), sia sotto di sé (parlamenti, corporazioni).

Questi Stati non erano antireligiosi o anticristiani: semmai erano anticattolici, perché rifiutavano (di diritto o di fatto) l’esistenza di una Chiesa «universale», mentre patrocinavano, proteggevano, favorivano la loro Chiesa.

L’evoluzione in tal senso era stata favorita dallo stesso Martin Lutero, il cui appello ai principi aveva consegnato la Chiesa allo Stato: furono i poteri temporali a imporre o guidare la Riforma. La Chiesa era divenuta sostanzialmente il braccio religioso del principe il quale, summus episcopus, esercitava la suprema potestà ecclesiastica, assegnava i parroci, nominava i visitatori, riordinava il culto, amministrava i beni.

Le vicende della Chiesa di Francia non sono però molto diverse; solo alcune varianti storiche secondarie la tennero nella cattolicità.

Il modello di società secondo cui, in tutto il mondo cristiano, la «spada spirituale» affiancava (e governava) la «spada temporale» era fallito; si era affermato un modello diverso che, per quanto ancora convintamente e compattamente organicista, chiedeva una fedeltà unica, Stato per Stato.

Scendere a patti

Chi governava lo Stato ambiva a controllare il proprio clero, voleva che la religione fosse uno strumento di legittimazione, tendeva alla cancellazione di quegli spazi di esenzione (in ambito giuridico e fiscale) che la Chiesa «cattolica» aveva goduto in precedenza al pari di altri soggetti (nobili, città, corporazioni) e rifiutava ogni «ingerenza» romana. Il cattolicesimo impiegò enormi energie a difendere tutto questo, quasi che la missione data da Cristo coincidesse con la difesa dei diritti temporali – politici, giurisdizionali, fiscali – del clero o del papa.

Questo dispendio di energie ebbe qualche risultato e i governanti – da Napoleone a Francesco Giuseppe, da Mussolini a Hitler – trovarono opportuno stipulare accordi per la gestione delle materie nelle quali Stato e Chiesa (cattolica) incrociavano i loro interessi: è l’età dei “concordati”.

In linea di principio, il concordato è privo di senso: come può uno Stato trattare alla pari con quello che considera un proprio «settore», o al massimo una parte per quanto speciale della società civile, accettando di esserne limitato? E come può la comunità dei credenti accettare di essere trattata come qualcosa di diverso e distinto dalla comunità stessa, nel momento in cui si considera “Chiesa”, vale a dire strumento di salvezza per tutti, e non “setta”?

Per dirlo con un paragone, un concordato è il documento con il quale si regolamentano le questioni ancora pendenti dopo un divorzio. Quest’ultimo ha scisso la vita comune: dopo un divorzio non dovrebbe più esserci alcun rapporto tra gli ex coniugi. Ma, dato che l’esistenza stessa dell’unione ha generato tutta una serie di conseguenze, tale accordo può essere necessario, per quanto esso possa essere contratto con molte riserve mentali.

Uno dei due contraenti accorderà infatti, più o meno tatticamente, qualche privilegio all’altro, per potergli poi imporre il silenzio; l’altro penserà all’accordo come il recupero di un legame – sia pure parziale e provvisorio – nella speranza che si tratti del punto di partenza per nuovi sviluppi (fuori dalla metafora: che inverta la tendenza nella separazione tra Chiesa e Stato e permetta la restaurazione cristiana della società).

Che questo intreccio di riserve mentali sia connaturato ai concordati, può essere facilmente dimostrato. Per Pio XI (1922-1939), tutti mali della società derivavano dal fatto che Dio era stato escluso dalla legislazione, dalla società e dalla famiglia; il pensiero cattolico allora tendeva ad accomunare tutti coloro che non accettavano questa prospettiva (liberali e modernisti, protestanti e anticlericali di vario genere, socialisti e comunisti).

rapporti stato-chiesaI dittatori si riconoscevano in tale semplificazione del quadro politico, sembravano sostenere quella «terza via» corporativa e organicista – alternativa al collettivismo comunista e all’individualismo liberale – che era stata descritta nella dottrina sociale della Chiesa ed erano disposti a rispondere positivamente alle richieste che venivano dalle gerarchie ecclesiastiche, introducendo così (sia pure tatticamente) nelle legislazioni norme che ridavano alla Chiesa valenza pubblica. Dai Patti Lateranensi del 1929 il papa si attendeva, oltre alla soluzione della “questione romana” (l’istituzione dello Stato della Città del Vaticano), il recupero del carattere ufficialmente cattolico della nazione italiana; fu allora riconosciuto l’insegnamento della religione nella scuola, il diritto matrimoniale secondo il diritto canonico e l’esenzione del clero dal servizio militare.

Il regime, però, voleva soprattutto il consenso dei cattolici italiani e la fiducia della comunità internazionale; Mussolini, parlando alla Camera dopo l’accordo, sminuì il carattere divino della Chiesa e la considerò una semplice appendice dell’Impero Romano; affermò inoltre che «nello Stato, la Chiesa non è sovrana e nemmeno libera».

I regimi autoritari

La domanda di partecipazione politica generalmente non smentì ma fece proprio il modello statale, cambiandone solo il fondamento (la volontà popolare invece che il diritto dinastico). Lo Stato nazionale fu indicato come il noi-più-grande, l’orizzonte vitale da difendere o da costituire a qualunque costo; non il male minore per evitare la guerra civile ma il bene supremo in nome del quale sacrificare qualunque altra cosa, perché prometteva al singolo l’eternità nella permanenza del corpo collettivo.

La religione (rivelata) poteva essere un elemento di quella tradizione spirituale e culturale che si voleva stesse alla base dell’appartenenza a una determinata nazione, ma in molti casi prevalse l’opinione che qualunque religione potesse essere professata, purché non mettesse in dubbio il dogma nazionale.

Nel XVI secolo, il motore dei conflitti era stata l’assolutizzazione della confessione religiosa. Tra la fine del XVIII secolo e il XX fu la divinizzazione dello Stato a non lasciare spazio ad altre fedeltà; anzi le vietò espressamente, accusando chi non celebrava quella «religione» di un’infedeltà che collocava il singolo al di fuori della collettività e lo esponeva alle peggiori conseguenze.

Lo si vide nel 1792-1794, nella Francia rivoluzionaria minacciata dalla guerra, quando prima il clero «refrattario» e poi la religione cristiana in quanto tale furono visti come nemici della rivoluzione e della nazione.

Lo si vide nella stagione dell’imperialismo (right or wrong, my country) e poi nella trentennale guerra civile europea di cui primo e secondo conflitto mondiale furono solo i due momenti principali. In quei trent’anni le posizioni cattoliche (internazionaliste), che condannavano la guerra e chiedevano la rinuncia agli egoismi nazionali, il confronto e la trattativa, furono sconfitte da politiche esasperatamente nazionaliste, mentre gli episcopati nazionali benedivano i rispettivi eserciti.

L’esito pratico dei concordati dimostrò come l’apertura di credito nei confronti dei regimi autoritari fosse stata un’operazione a dir poco inefficace; tali regimi non intendevano porre alcun limite alla propria espansione totalitaria nei confronti di ogni attività sociale e di ogni diritto umano. Il papato aveva pensato di poter «usare» quei regimi autoritari, ma essi stessi dimostravano invece di voler essere oggetto di adorazione, cancellando o asservendo ogni possibile controparte.

Chiesa e Stato collaborino per il bene comune

La Seconda guerra mondiale fu uno spartiacque anche per la Chiesa. Di fronte a 50 milioni di morti (di cui due terzi civili) si rese evidente la necessità di essere solidali con l’umanità oppressa (l’impegno politico dei cristiani non poteva più limitarsi alla difesa e alla promozione degli interessi ecclesiali); di fronte alle responsabilità dei totalitarismi nacque maggiore comprensione per i regimi liberali che, se continuavano a essere indifferenti tra «verità» ed «errore» in campo religioso e sociale, garantivano almeno il pluralismo e permettevano di operare in condizioni di libertà.

Per di più, le organizzazioni internazionali e le carte costituzionali postbelliche, pur non esplicitando riferimenti a Dio come fondamento del potere, costruirono uno spazio ideale che permetteva il mantenimento della pace e una prospettiva di stabilità: lo statuto dell’ONU aveva l’obiettivo di «salvare le generazioni future dal flagello della guerra» e di impiegare «strumenti internazionali per promuovere il progresso economico e sociale di tutti i popoli».

Il profondo cambiamento di prospettiva nel descrivere il rapporto tra la Chiesa e il mondo emerse nel concilio Vaticano II, nella costituzione Gaudium et spes e nella dichiarazione Dignitatis humanae (sulla libertà religiosa); in quest’ultima la Chiesa rinunciò alla richiesta della confessionalità degli Stati e ammise la parità civile di tutte le confessioni religiose.

rapporti stato-chiesaIl testo più bello è forse l’ultima enciclica di Giovanni XXIII, la Pacem in terris (9 aprile 1963): «A tutti gli uomini di buona volontà spetta un compito immenso: il compito di ricomporre i rapporti della convivenza nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà: i rapporti della convivenza tra i singoli esseri umani; fra i cittadini e le rispettive comunità politiche; fra le stesse comunità politiche; fra individui, famiglie, corpi intermedi e comunità politiche, da una parte, e, dall’altra, la comunità mondiale. Compito nobilissimo quale è quello di attuare la vera pace nell’ordine stabilito da Dio».

La vera pace non passa più dunque attraverso una semplificazione del quadro che pone al centro qualche magistero o un singolo soggetto, ma chiama in causa un complesso tessuto partecipativo in assenza del quale non si dà speranza di riuscita. Non a caso la stessa enciclica, in una visione progressiva e ottimistica, vedeva l’ascesa delle classi lavoratrici, l’emancipazione femminile, la costituzione dei popoli in comunità politiche indipendenti (erano gli anni dell’indipendenza dei popoli africani) come «segni dei tempi», vale a dire della presenza del regno di Dio nella storia.

Dal punto di vista politico si parlò spesso, in quegli anni, della «fine dell’era costantiniana», in quanto si consolidava (e non era più visto con timore) il distacco tra la Chiesa e il potere civile e si profilava la possibilità di incidere nella realtà del mondo attraverso l’annuncio evangelico, senza scorciatoie che mettessero in discussione la laicità dello Stato e senza pretendere per sé una posizione di potere e di privilegio.

Da questo punto di vista il testo papale più rilevante fu l’Octogesima adveniens di Paolo VI (1971): la dottrina sociale della Chiesa non interviene per autenticare una certa struttura o proporre un modello prefabbricato; la politica (che deve avere il primato sull’economia) è indicata come maniera esigente (per quanto non unica) di vivere l’impegno cristiano al servizio degli altri.

Ma la storia non si è fermata con il Vaticano II; anzi, questioni che sembravano, in quegli anni, superate di slancio si sono riproposte con drammaticità nei decenni seguenti, e sono ancora a noi presenti senza che sia facile trovare una soluzione.

Dalla storia dovremmo però imparare che, se comunità di fede e appartenenze nazionali sono importanti, la loro idolatria (la loro collocazione in una prospettiva assoluta) ha già portato danni incalcolabili. E dunque ogni generazione, che è chiamata a inventare il suo modo di gestire la dimensione collettiva, non dovrebbe dimenticare che Chiese e Stati sono realtà penultime cui non vanno fatti sacrifici umani, e che ogni semplificazione della realtà è una tentazione nella quale dobbiamo pregare Dio di non abbandonarci.

* Questa relazione è stata presentata in una delle lezioni della Scuola di formazione all’impegno socio-politico (SFISP) di Bolzano, 9 febbraio 2019.

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