Rosario Livatino: morire per la città

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martiio civile

La beatificazione di Rosario Livatino suggerisce una riflessione su chi “muore per la città”. Merita cioè mettere a tema la questione del cosiddetto “martirio civile”. Lo fece, da par suo, monsignor Cataldo Naro, storico, teologo, pastore, da ultimo arcivescovo di Monreale prematuramente scomparso. Egli, con il suo Centro Cammarata e con la facoltà teologica siciliana, patrocinò studi, convegni, pubblicazioni sul tema del martirio civile. Una testimonianza esemplare di riflessione teologica in situazione, dentro i drammi e i conflitti della sua amata terra.

Presso Salvatore Sciasca editore, mi auguro siano ancora reperibili gli atti di convegni quali: “Martiri per la giustizia”; “Per un discorso cristiano di resistenza alla mafia”; “Martirio e vita cristiana”. Nel lungo rosario di servitori dello Stato morti ammazzati dalla mafia, culminati nelle stragi di Falcone e Borsellino, si inscrive appunto la limpida figura di Rosario Livatino. Il “giudice ragazzino”, secondo l’efficace espressione fissata nel titolo di un libro e di un film a lui dedicati. Lo stesso monsignor Naro si ispirò a lui nell’inaugurare quelle riflessioni.

Come è noto, la definizione cristiana del martirio è più circoscritta e precisa: martire è colui cui è inflitta la morte “in odio alla fede”. Chi dà la vita per la fede, a causa della fede, come testimonianza estrema di essa. Certo, poi, anche se auspicabilmente in forme non cruente, il martirio è dimensione della vita cristiana che non è risparmiata a nessuno, tutti i cristiani la devono mettere nel conto. È il corollario della radicalità evangelica, di una scelta di vita che, posta sotto il segno della Croce, inesorabilmente conosce contrasti e opposizioni, sino al limite del sacrificio della vita.

Plausibilmente le riflessioni di mons. Naro e dei suoi amici ispirarono la celebre invettiva contro la mafia di Giovanni Paolo II nella sua celebre visita ad Agrigento nel 1993. Parole sferzanti non a caso pronunciate dopo l’incontro con i genitori del giudice Livatino, quando il papa parlò di “martiri della giustizia e indirettamente della fede”. Un tema che avrebbe trovato sensibile il servo di Dio Giuseppe Lazzati con le sue meditazioni sui cristiani per la “città dell’uomo”. Se la vocazione, la via indeclinabile alla santità per il laico cristiano si concreta nell’edificazione della polis, nell’adempimento degli ordinari e quotidiani  doveri in vista dell’umanizzazione del mondo, chi dà la vita per la città assurge a buon diritto a martire civile.

Non, in senso stretto, a causa dell’affermazione della fede, ma per la generosa dedizione, nell’esercizio della cristiana carità che dalla fede attinge luce e forza. E non è neppure necessario che ricorra l’atto eroico. Quando si pensa a Borsellino, a Livatino, a Bachelet e allo stesso don Puglisi (a testimonianza che l’osservazione si applica anche ai sacerdoti) la figura di martiri per la giustizia suona appropriata. Essi non cercavano la morte, ma l’hanno incrociata nel mentre, a diverso titolo, operavano per umanizzare la città dell’uomo. Svolgendo esemplarmente quella loro azione sono stati colpiti a morte.

Livatino lo fece con umiltà e mitezza, al riparo da ogni protagonismo (una lezione di stile preziosa per i magistrati). Senza sfidare temerariamente la morte, ma sapendo perfettamente che essa era nel conto per il solo fatto di compiere, bene e sino in fondo, il proprio dovere professionale e civile.

Dal caso del giudice ragazzino si può ricavare un’ulteriore lezione. La si rinviene nelle parole del papa: “Livatino ha lasciato a tutti noi un esempio luminoso di come la fede possa esprimersi compiutamente nel servizio alla comunità civile e alle sue leggi; e di come  l’obbedienza alla Chiesa possa coniugarsi con l’obbedienza allo Stato, in particolare con il ministero, delicato e importante, di far rispettare e applicare la legge”. Lo Stato, il diritto, la legge (e chi vi si dedica) meritano l’apprezzamento dei cristiani in quanto serventi la ordinata e pacifica convivenza. Non sempre la coscienza cristiana comune se ne mostra avvertita.

Essa più facilmente apprezza l’obiezione di coscienza alla legge ingiusta (comunque un’eccezione, che talvolta si tende a dilatare) piuttosto che la regola del dovere dell’osservanza delle leggi promulgate dalle autorità legittime.

In sintesi, dobbiamo trattenere tre lezioni: ancorché concettualmente siano distinti, è sfumato il confine che separa martirio cristiano classico e martirio civile; talvolta l’eroismo dei martiri – e le “virtù eroiche” dei santi –  non si consuma in un atto ma si esprime nella disponibilità a donare ogni giorno la vita costi quel che costi; lo Stato democratico e di diritto, che non si erge ad assoluto, ma che si definisce esattamente per i limiti che pone all’esercizio dei suoi poteri, merita l’apprezzamento e la dedizione dei cristiani.

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