1. “Bene possibile” e astrattezza della legge

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Vorrei dedicare una serie di interventi ad una progressiva scoperta di aspetti rilevanti della nuova esortazione apostolica postsinodale. Saranno sempre intitolati “Alla scoperta di Amoris Lætitia e un numero progressivo permetterà di distinguerli. Spero possano aiutare ad una migliore intelligenza delle intenzioni e delle conseguenze di questo testo magisteriale.

La novità di AL non deve essere cercata soltanto nel capitolo VIII, come tende a fare la maggioranza dei commentatori. Questa concentrazione sulla “irregolarità” ha le sue brave giustificazioni, ma è anche causa di un grave fraintendimento, che tende ad unire, indifferentemente, letture chiuse e letture aperte, conservatori e progressisti. I quali hanno in comune di dare per scontato un “orizzonte normativo” e di scegliere semplicemente se modificarlo con norme nuove oppure se lasciarlo identico a prima. Ma condividono l’orizzonte. Mentre a me pare che AL voglia lavorare ad una riforma proprio dell’orizzonte normativo, ossia voglia cambiare la pretesa che siano “norme generali e astratte” a modificare la prassi ecclesiale. Vediamo meglio questa premessa

1. Da Arcanum divinae sapientiae (1880) a Familiaris consortio (1981)

Per comprendere adeguatamente questo passaggio delicato occorre fare più di un passo indietro. Occorre risalire all’origine di questa “pretesa normativa”, che io collocherei nel contesto “caldo” del sorgere dello Stato liberale, durante il XIX secolo, con la sua nuova produzione normativa. Di fronte ai “nuovi codici” la Chiesa reagisce con durezza e con una contrapposizione che non abbiamo dimenticato. Si sente “usurpata” di una autorità che non riesce a riconoscere ad altri che a sé. E qui si trova, probabilmente, una delle radici più insidiose della sua “autoreferenzialità”. Nel contesto del discorso “sul matrimonio” questa reazione si precisa nel 1880, con l’enciclica Arcanum divinae sapientiae, di Leone XIII, in cui il magistero papale pretende per sé l’esclusiva di produzione normativa a proposito del matrimonio, contestando radicalmente quella degli stati liberali. Da lì inizia, in modo ufficiale, questo incrocio complesso e delicatissimo tra “tema matrimoniale” e “tema istituzionale”. La difesa del matrimonio sacramentale si identifica, pericolosamente, con la difesa del potere normativo della Chiesa. E la rivendicazione del “piano naturale” corrisponde troppo facilmente alla esclusione della competenza altrui.

A partire da quel testo, del 1880, per arrivare a Familiaris consortio, nel 1981, e quindi un secolo dopo, la linea fondamentale del discorso ecclesiale cattolico sul matrimonio e sulla famiglia si svolge all’interno di questo “difficile contrasto istituzionale”: la Chiesa contesta la competenza statale e tende a valorizzare la “natura” contro ogni convenzione diversa da essa.

Questa impostazione è profonda e trova ancora una certa presenza anche nel testo di AL: il discorso sulla “famiglia naturale” risente di questa lunga e ripetuta tradizione, che tuttavia, nella sensibilità maturata da papa Francesco, – lontano dall’Europa – subisce una declinazione nuova. Essa appare, chiaramente, in tutti quei passi in cui il testo di AL esplicitamente rinuncia ad una concezione “assolutamente normativa” del matrimonio. Qui voglio spiegarmi bene: questo non significa affatto una perdita del senso e del valore della dimensione legale, giuridica e normativa della vita e in particolare della vita coniugale e familiare, ma il superamento di quella impostazione che, dal 1880, attraverso il Codice del 1917, ha permeato profondamente tutta la cultura matrimoniale cattolica, facendone, in primis, una questione di “ordinamente giuridico alternativo”. Questo punto appare profondamente mutato. Vediamone in dettaglio alcuni aspetti.

2. La “messa in relazione” della norma generale in Amoris lætitia

Nessuno avrebbe mai potuto dire a livello magisteriale, fino a qualche anno fa, che «i dibattiti che si trovano nei mezzi di comunicazione o nelle pubblicazioni e perfino tra i ministri della Chiesa vanno da un desiderio sfrenato di cambiare tutto senza sufficiente riflessione o fondamento, allatteggiamento che pretende di risolvere tutto applicando normative generali o traendo conclusioni eccessive da alcune riflessioni teologiche» (AL 2). Il sospetto verso le “normative generali” – e verso le teologie che le alimentano e le amplificano – viene da uno “sguardo diverso” e da una considerazione “non normativistica” della tradizione. Più avanti, citando la Relatio Synodi, si afferma che «non si tratta soltanto di presentare una normativa, ma di proporre valori, rispondendo al bisogno di essi che si constata oggi, anche nei paesi più secolarizzati» (AL 201). Questo orizzonte porta a determinare la “differenza” tra normativa canonica generale e discernimento pastorale: «è comprensibile che non ci si dovesse aspettare dal Sinodo o da questa esortazione una nuova normativa generale di tipo canonico, applicabile a tutti i casi. È possibile soltanto un nuovo incoraggiamento ad un responsabile discernimento personale e pastorale dei casi particolari» (AL 300). Questa affermazione potrebbe essere letta in “modo minore”, ma va invece considerata una affermazione strutturale e paradigmatica: essa descrive un “approccio diverso alla questione matrimonio/famiglia”. Al numero successivo, infatti, si precisa che: “La Chiesa possiede una solida riflessione circa i condizionamenti e le circostanze attenuanti. Per questo non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale” (AL 301). Questa formulazione fa saltare l’automatismo oggettivo tra “situazione irregolare” e “peccato mortale”. In qualche modo non identifica più – in generale – il “divorziato risposato” con l’“adultero”.

Questo, tuttavia, corrisponde ad un “principio generale” che viene espresso così: «È meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nellesistenza concreta di un essere umano» (AL 304).

Di qui, per mediazione di alcune puntuali citazioni dalla I-II della Summa theologiæ di s. Tommaso, si giunge alla conclusione per cui: «È vero che le norme generali presentano un bene che non si deve mai disattendere né trascurare, ma nella loro formulazione non possono abbracciare assolutamente tutte le situazioni particolari. Nello stesso tempo occorre dire che, proprio per questa ragione, ciò che fa parte di un discernimento pratico davanti ad una situazione particolare non può essere elevato al livello di una norma. Questo non solo darebbe luogo a una casuistica insopportabile, ma metterebbe a rischio i valori che si devono custodire con speciale attenzione» (AL 304)Qui viene chiarita la necessità del diritto canonico e della dottrina dogmatica sul matrimonio, ma anche la loro insufficienza al discernimento concreto delle singole situazioni. In questo passaggio, delicato e potente, si formula un nuovo equilibrio e una nuova prospettiva ecclesiale, che riguarda non la “patologia”, ma la “fisiologia matrimoniale”. Lo schema, che viene messo alla prova soprattutto come “rimedio alle patologie”, assume il suo ruolo portante – e nuovo – come comprensione della “fisiologia matrimoniale”, sottratta ad una comprensione normativistica, formalistica e istituzionalistica.

3. Continuità più facile con s. Tommaso che con s. Giovanni Paolo

Alla luce di quanto detto fin qui, non stupisce, quindi, che si possa rilevare come AL si collochi in continuità con un concetto di “discernimento” (e di male minore/bene possibile) tipico della stagione scolastica, ma poi, gradualmente superato in una prospettiva moderna, più pedagogico-istituzionale. Ciò che, tuttavia, dobbiamo notare è questo: la pretesa di una “norma generale oggettiva” – che superi ogni soggettività – è una tipica esigenza tardo-moderna, che la legislazione liberale ha introdotto nella sensibilità e che il Codice del 1917 ha introdotto nella Chiesa. Alla luce di questa sensibilità noi abbiamo potuto identificare la “fedeltà alla tradizione” con la obbedienza ad una “norma generale e astratta”. Abbiamo tradotto i “principi” in “norme universali”. Ma questo è un procedimento che “perde il rapporto con la realtà”, tanto con quella del Vangelo quanto con quella degli uomini. Da questo punto di vista FC, che pure aveva compiuto passi importanti di avanzamento rispetto alla disciplina precedente, restava ancora totalmente inserita nella prospettiva di Arcanum divinae sapientiae e del Codex 1917: poteva identificare la identità tradizionale solo nella obbedienza ad una norma oggettiva, anche se poteva già permettersi di parlare di “comunione ecclesiale”, conservando però una “scomunica sacramentale”. Come è giusto riconoscere, è stata FC ad aprire una “falla” nel sistema impostato con il Codex 1917. La assoluta identificazione tra contratto e sacramento, pretesa dal Codice, rende letteralmente “incomprensibile” il testo di S. Giovanni Paolo. Come può esserci una “comunione ecclesiale” per chi non gode della “comunione sacramentale”?

Quella “falla” – benedetta – ha permesso alla realtà di irrompere nuovamente nel discorso teologico e magisteriale. Ma la “condizione” di questa possibilità è il “disinserimento” di una analogia, che la storia europea ha imposto al nostro linguaggio ecclesiale: è la analogia tra “oggettività della norma” e “perdita di autorità dell’uomo”. In un modello del genere, interpretato dalla sensibilità normativistica tardo-moderna, in buona fede si può credere che la Rivelazione sia “norma oggettiva” e che quindi solo “escludendo le eccezioni” io posso “vivere la fedeltà al vangelo”. Solo “norme oggettive” – e senza eccezioni – mi tengono in rapporto con Cristo e con i suoi comandamenti. Ma i passaggi delicatissimi tra Parola, comandamento, legge e norma vengono totalmente scavalcati e si arriva a pretendere che la “parola del Signore” sia immediatamente applicabile come se fosse la norma di un codice. Questo fondamentalismo normativo e dogmatico è una caratteristica della teologia matrimoniale a partire dal 1880, ma non di quella scolastica o di quella tridentina.

Per questo è molto facile per AL essere in continuità forte con s. Tommaso, mentre è più difficile conservare l’impianto “normativo” di s. Giovanni Paolo. Con il quale la continuità si manifesta bene sul piano della “istanza ecclesiale di comunione”, ma non su quello dei mezzi per raggiungerla e per conservarla. La soluzione moderna evitava il “doppio registro” tra universale e particolare – con una virata massimalista – ma produceva di fatto doppie identità; la soluzione pastorale di AL esplicita apertamente il doppio registro – generale e particolare – mirando a produrre una comunione effettiva e non formale. Accettare di volta in volta il “bene possibile” diventa occasione per vivere la tensione al “bene massimo” come esperienza di integrazione e non di esclusione.

4. La teologia da scrivania, la teologia al balcone e la teologia di strada

Papa Francesco è consapevole che la sua operazione ermeneutica certamente presuppone, ma anche sollecita diffusamente, una nuova stagione di riflessione teologica, coraggiosa e fedele. Con una fedeltà diversa dall’irrigidimento su posizioni astratte e generali, che non riescono a mediare la realtà del Vangelo e della esperienza umana.

Di qui alcune belle immagini, che Francesco ci ha regalato in questi tre anni. Una viene direttamente da questo ultimo testo: «L’insegnamento della teologia morale non dovrebbe tralasciare di fare proprie queste considerazioni, perché seppure è vero che bisogna curare l’integralità dell’insegnamento morale della Chiesa, si deve sempre porre speciale attenzione nel mettere in evidenza e incoraggiare i valori più alti e centrali del Vangelo, particolarmente il primato della carità come risposta all’iniziativa gratuita dell’amore di Dio» (AL 311) e quindi «questo ci fornisce un quadro e un clima che ci impedisce di sviluppare una morale fredda da scrivania nel trattare i temi più delicati e ci colloca piuttosto nel contesto di un discernimento pastorale carico di amore misericordioso, che si dispone sempre a comprendere, a perdonare, ad accompagnare, a sperare, e soprattutto a integrare» (AL 312).

Ad una “teologia da scrivania” non bisogna nemmeno sostituire una “teologia al balcone”, che non si lascia contagiare dalla storia e dalla realtà, ma che resta astratta e asettica. Solo una “teologia di strada” svolge bene il suo servizio. Dove “di strada” non significa affatto meno attrezzata, meno critica, meno elaborata, ma più sensibile al reale effettivo, meno inclina all’autocompiacimento.

In un bel testo dell’anno scorso J.-P. Vesco diceva, a proposito delle responsabilità dei vescovi in materia matrimoniale: «Dovremo un domani chiedere scusa per le sofferenze che abbiamo inflitto alle persone, oltre a quelle che già vivevano». Ho l’impressione che anche noi teologi dovremo fare altrettanto: il nostro errore di metodo è diventato, non raramente, sofferenza inflitta, indifferenza contagiata o parola inascoltata. Discernimento, accompagnamento e integrazione sono compiti non solo del pastore, ma anche del teologo. E lo sono non anzitutto per “rimediare ai mali”, ma per “ragionar d’amore” e per “intendere il bene”.

Pubblicato il 10 aprile 2016 nel blog: Come se non

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