La materia dell’eucaristia e il microscopio della Congregazione

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Se la Congregazione per il culto divino, sulla scia di Redemptionis sacramentum (2004) e della circolare sul “rito di pace” (2014) , si occupasse di “materia eucaristica” (sul pane e il vino per l’eucaristia) e lo facesse preoccupata soltanto di “combattere gli abusi”, dimenticando di essere stata trasformata dal Concilio Vaticano II in struttura ufficiale di formazione all’uso prima che di lotta all’abuso, allora ancora una volta ci troveremmo di fronte ad una paradosso: proprio dal centro della curia romana verrebbero discorsi che – pur apparendo in sé corretti – contribuirebbero per la loro impostazione a distorcere gravemente l’esperienza eucaristica e non aiuterebbero alla crescita degli usi, limitandosi semplicemente a “combattere abusi”. La realtà è purtroppo già oltre questa mera ipotesi. Propongo qui alcune riflessioni, un poco scandalizzate dal nuovo testo del 15 giugno scorso, e che potranno forse contenerne l’impatto negativo sulle comunità cristiane.

Il testo

Si tratta di un testo breve, di soli 7 numeri, che mira a frenare alcune “degenerazioni” ritenute assai dannose per la vita eucaristica e spirituale delle comunità. Tali degenerazioni riguardano la produzione e la commercializzazione del pane e vino destinati all’eucaristia. Si richiamano i pronunciamenti precedenti e si invitano le conferenze episcopali a definire strategie più adeguate per il controllo della produzione e del mercato nazionale.

La miopia dell’approccio

L’approccio alle questioni si muove all’interno del classico sapere sulla “materia valida” e ritiene che il rapporto con la “materia” possa ridursi semplicemente alla eliminazione di nuovi e vecchi abusi. Il testo sembra aver totalmente dimenticato quello che SC stabilisce in modo chiaro. Ossia che la relazione con la liturgia – non solo eucaristica – non può essere ridotta alle condizioni di validità di una materia, ma deve estendersi all’uso della materia stessa secondo codici e linguaggi molteplici. La tradizione dell’ultimo secolo ha sviluppato una più ricca coscienza dello spessore della “materia”, che non è mai solo “materia prima”, ma anche “materia storica” e “materia simbolica”. Il livello su cui la lettera spende tutte le sue parole è soltanto quello della “materia fisica”, livello sicuramente necessario, ma mai sufficiente a definire il quadro di un’esperienza autenticamente sacramentale. Il “pane” e il “vino” non sono mai semplicemente la loro “composizione chimica”, ma sono “storie di vita” e “simboli di riconoscimento” che devono essere onorati tanto quanto il livello materiale. Risolvere gli abusi eucaristici solo sul piano fisico, sul piano della produzione o della commercializzazione, e dimenticare che la materia media sempre anche una storia di popoli e una simbolica di comunione e di libertà è una grave forma di autoreferenzialità, della quale la Chiesa dovrebbe liberarsi, e che non dovrebbe invece essere addirittura ribadita con una lettera ai vescovi da parte della Congregazione!

Le questioni non toccate

Ciò che con questo approccio viene totalmente rimosso e messo a tacere è che “pane” e “vino”, non essendo mai soltanto “materia”, debbono entrare in una cultura e in una simbolica, che da almeno 200 anni non è più soltanto quella europea o mediterranea. Le diverse culture di 5 continenti vivono le simboliche e le storie di “pane” e di “vino” in modo assai diverso da Roma. Recenti studi di teologi africani dimostrano, ad esempio, che ai tempi di Gesù, in Palestina, il pane non fosse di frumento, ma di miglio. Questo non ha impedito alla Chiesa di assumere il “pane di frumento” come materia ordinaria della eucaristia, ma perché mai un “uso diverso” dovrebbe apparire – immediatamente e recisamente – come un “abuso”? È qui in opera la stessa logica in base alla quale il “canto di pace” dovrebbe essere considerato sempre un “abuso”, sulla base dell’assolutizzazione di una “assenza di canto” che nella tradizione corrispondeva alla “assenza del rito di pace”.

Le soluzioni semplicistiche

La stessa perplessità dovrebbe essere sollevata per il modo con cui nella lettera viene affrontata la “celiachia” o la produzione della materia mediante “ogm”: non onorare una nuova consapevolezza patologica insorta nella comunità civile e trascurare le problematiche produttive intorno al “grano” e all’“uva” costituiscono una conferma dell’impostazione riduttiva e direi “meschina” della lettera. Meschino è pretendere di affrontare le questioni riguardanti “pane” e “vino” con un glossario e con un immaginario che vede solo “materie valide o invalide” e non vede affatto “cammini storici” e “luoghi simbolici”. Questo impedisce alla Congregazione di esercitare una funzione autorevole. E la rinchiude nel gioco di specchi di un linguaggio autoimplicativo, vecchio e senza rapporto con le questioni reali.

Tutta l’attenzione sulla “materia”, abbassata al livello di “garanzie di produzione”, perde non solo il livello storico e simbolico della esperienza eucaristica, ma anche orienta la Chiesa verso una grave dimenticanza: l’effetto ultimo dell’eucaristia, infatti, non è il pane e vino che diventano “corpo di Cristo”, ma è l’unità della Chiesa, che diventa “corpo di Cristo”. Una attenzione ossessiva circa gli “abusi intorno alla materia fisica” è spesso soltanto il frutto di una teologia eucaristica troppo fragile, troppo limitata e troppo unilaterale. Uno scrupolo troppo esasperato sulla materia rivela il pericolo di uno scivolone materialistico, con cui si pretenderebbe di difendersi dalla storia e dalla cultura, recludendo le questioni nel campo visivo di un microscopio. Ma di “makrothumia”, non di “mikrothumia” abbiamo bisogno!

Pubblicato il 9 luglio 2017 nel blog: Come se non

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Un commento

  1. Giorgio De Checchi 13 luglio 2017

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