Un mese contemplando il Cuore

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Una rinnovata meditazione sul cuore di Cristo

È risaputo come, negli anni 60-70, anche la devozione al Sacro Cuore ha subito l’urto della contestazione. Si diceva: non servono devozioni speciali, basta il Cristo morto e risorto. Quest’affermazione – che circolava anche dentro gli ordini religiosi, come quello dei gesuiti, tradizionalmente legati alla devozione al Sacro Cuore – voleva anzitutto sottolineare la solidità dell’amore al Cristo pasquale, quale Redentore dell’uomo.

Questo tipo di contestazione, pur sottolineando un aspetto teologicamente importante, non mancava però di una certa unilateralità perché esso storicamente non era stato trascurato: «Ora, è precisamente questo amore incondizionato per la persona di Cristo – spiegava p. Arrupe in quegli anni – che ha sempre costituito l’essenza del culto al cuore di Cristo» («In lui solo la speranza». Selezione di testi sul cuore di Cristo, Edizioni AdP, Roma 2003, p. 116).

È su questo plinto granitico che la meditazione e il culto del cuore di Cristo ha modo di reggersi dal momento che la persona di Cristo è il cristianesimo stesso (cf. R. Guardini, L’essenza del cristianesimo, Morcelliana, Brescia 1962). Fa riflettere come tanti ordini e congregazioni di religiosi pongano al centro della loro spiritualità la devozione al Sacro Cuore. Di là dell’urto critico degli anni 70, i religiosi che hanno nel loro carisma quello di coltivare la devozione e la spiritualità del Sacro Cuore, rinnovano le loro motivazioni teologiche in favore di questa importante spiritualità: ad esempio, i gesuiti, i quali ritengono un «compito dolcissimo» (munus suavissimum): cf. P.H. Kolvenbach, Une mission agréable (munus suavissimum), Paray-le Monial, 2 luglio 1988, Ed. spéciale di Prier et Servir, Roma 1988.

Dal cuore trafitto di Cristo si scorge il Dio trinitario

Pio XII, nella lettera enciclica sul Sacro Cuore, ha voluto ribadire il legame che c’è fra cuore di Cristo e la vita del Dio trinitario, la prima fornace dell’amore, alla quale ogni altro amore s’accende: «…finalmente – afferma papa Pacelli – procureremo di porre in evidenza il nesso intimo che intercorre tra la forma di devozione da tributarsi al cuore del Redentore Divino e il culto che siamo tenuti a rendere all’amore che egli e l’augusta Trinità nutrono verso di noi» (Pio XII, Lett. enc. Haurietis aquas [5.5.1956], in La Civiltà Cattolica, 1956, II, n. 11). La ferita del cuore di Cristo non è un buco nero, l’entrata in un vicolo cieco o in una camera oscura; è, invece, un varco verso il mistero del Dio trinitario (cf. M.G. Masciarelli, La croce pasquale. Un albero senza radici che porta frutti, Cinisello B. [MI] 2007).

Solo perché è così, essa costituisce una vera janua coeli, l’immissione in un’esperienza di salvezza piena, definitiva e universale. Il cuore ferito del Crocifisso è l’icona finale di una storia d’amore salvifico. Infatti, solo come evento d’amore la croce è inscrivibile nel cristianesimo e salva e rivela l’idea di Dio che conosciamo dalla rivelazione biblica.

Una realtà radicale di amore, come è il cuore del Crocifisso, non può non avere una causa d’amore. Così, partendo dal cuore del Crocifisso, si può arrivare fino al cuore del Padre, dentro la Comunità trinitaria, nel vortice del mistero di quel Dio che «è amore» (1Gv 4,16). Ma perché il Crocifisso porta al mistero trinitario? Perché «la croce è della Trinità: è una sua azione, una sua grazia; è la dimostrazione concreta e radicale della sua misericordia che intende liberare l’uomo dal peccato e condurlo alla condizione filiale» (cf. M.G. Masciarelli, La croce pasquale, p. 7). Siccome la croce viene dalla Trinità, è comprensibile che dalla croce si vada alla Trinità, ossia che dal cuore del Crocifisso si arrivi al cuore del mistero trinitario.

L’amore che dà accesso alla Famiglia trinitaria, ad un tempo fonda e fortifica i nostri vincoli comunitari; il cuore riempito di amore dello Spirito (cf. Rm 5,5) è ciò che ci lega a Dio ed è ciò che ci lega fra noi; la comunità nasce dall’amore dello Spirito che fermenta come mistero di comunione fra noi e per gli altri.

La vita di comunità è una vita speciale di amore generata dai cuori in comunione fra loro: è l’avere «un cuor solo e un’anima sola» (At 4,32). Questa è una misteriosa riproduzione dell’esperienza d’amore della Trinità, fra il Padre che è l’Amante (e genera l’Amato) e il Figlio che è l’Amato (e accoglie nell’abbraccio di un infinito Amore, l’Amante), con l’interposizione dello Spirito, che è l’Amore (che distingue e unisce le divine persone del Padre e del Figlio).

Ogni vera esperienza d’amore è l’imitazione di questa esperienza trinitaria e, in modo speciale, l’imitazione di Gesù che sulla croce, luogo di mistero, col suo cuore squarciato, testimonia l’amore più ubbidiente al Padre, quale Figlio essenziale, e l’amore più solidale agli uomini quale Fratello necessario. Il Crocifisso ci chiede d’imitarlo nei due amori vissuti dal suo cuore martirizzato, fino ad avere noi pure un cuore simile al suo.

Dal cuore trafitto di Cristo si conosce il suo amore

La croce pasquale si fa riconoscere per la grande forza salvifica e il forte dinamismo di grazia e di gloria che la fanno vibrare in un modo potente e drammatico. La croce, però, così non appare a chi la guarda con i soli occhi della carne: a questi essa appare nel crudo realismo di un albero dalle radici recise (è un palo più che un albero).

L’unico dinamismo che la croce mostra al suo spettatore senza fede è quello dato dalla terribile agitazione di un Crocifisso che vi sta morendo, cui segue, però, subito la stasi tipica della morte.

All’occhio credente, invece, la croce appare indescrivibilmente dinamica da quando vi sale il Nazareno a quando ne è schiodato: Gesù consacra per sempre la croce pasquale come il segno di un infinito dinamismo d’amore che solo in parte riusciamo a percepire con l’occhio della fede.

Aperto il cuore, dura ancora la profezia di Giovanni: «Venuti però da Gesù e vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua» (Gv 19,33-34). L’avvenimento sembra “ordinario”.

Sul Golgota avviene l’ultimo gesto di un’esecuzione romana: la verifica della morte del condannato. Così si poté dire anche di Gesù: sì, è veramente morto. Gesù è morto prima dei due malfattori crocifissi con lui.

Il colpo di lancia non è pertanto una nuova sofferenza per lui. È invece il segno del dono totale che egli ha fatto di se stesso, segno inciso nella sua stessa carne con l’apertura del suo cuore, manifestazione simbolica di quell’amore per cui Gesù ha dato tutto se stesso e continuerà a offrirsi a tutta l’umanità. È un segno che durerà fino in Cielo. Giovanni – solo tra gli evangelisti – insegna che le piaghe del Crocifisso, fra le quali c’è quella del cuore squarciato (cf. Gv 20,20.25.27), ci saranno anche in Cielo: saranno le ferite dell’«Agnello sgozzato e ritto in piedi» (Ap 1,7; 5,6).

Nella sua morte Gesù ha rivelato se stesso fino alla fine. Il cuore trapassato è la sua ultima testimonianza. L’apostolo Giovanni, che era ai piedi della croce, l’ha ben compreso. Nel corso dei secoli altri discepoli di Cristo e i maestri della fede l’hanno capito.

Attraverso il cuore di suo Figlio, trapassato sulla croce, il Padre ci ha dato tutto, gratuitamente. La Chiesa e il mondo ricevono il Consolatore: lo Spirito Santo. Gesù aveva detto: «Ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò» (Gv 16,7). Il suo cuore trapassato testimonia del fatto che “se n’è andato”. Egli manda finalmente lo Spirito di verità. L’acqua che esce dal suo costato trafitto è il segno dello Spirito Santo: Gesù aveva annunciato a Nicodemo la nuova nascita «da acqua e da Spirito» (Gv 3,5).

Dal cuore trafitto di Cristo s’impara ad amare la Chiesa

Letto con un occhio solo di semplici osservatori o anche con sguardo scientifico, il flusso di sangue ed acqua che esce dal costato trafitto di Gesù ha la sua plausibile spiegazione naturale o medica: un tale fenomeno, infatti, è ben possibile spiegarlo senza adire ad alcuna interpretazione miracolosa.

Giovanni, tuttavia, ha voluto porre simbolicamente all’apice della narrazione della passione l’atto del soldato che ha aperto il costato di Cristo per verificarne la morte ed ha creato un contesto di solennità e di enfasi narrativa a questo particolare della passione per alludere a sensi teologici importanti. Questa singolare enfasi è sostenuta da due citazioni veterotestamentarie: «Non gli sarà spezzato alcun osso» (cf. Es 12,46; Sal 34,21) e «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (cf. Zc 12,10).

Il costato di Cristo, dal quale escono sangue ed acqua, risponde a un simbolismo semita: la ferita, segno di morte (l’agnello sa­crificato) e il sangue e l’acqua, segno di vita; il cuore squarciato segno di vita lacerata e sterile e il sangue e l’acqua segno di fecondità e di fertilità. Il cuo­re trafitto è pertanto il simbolo dell’agnello pasquale della Nuova Alleanza: «Per i cristiani di tut­ti i tempi hanno valore le parole del profeta Zaccaria, riferite al cro­cifisso dall’evangelista san Giovanni: “Guarderanno a colui che hanno trafitto”» (Pio XII, Lett. enc. Haurietis aquas, in Acta Apostolicae Sedis 38, p. 339). «Nulla ci vieta – aggiunge la stessa enciclica – di adorare il Cuore Sacratissimo di Gesù, in quan­to è compartecipe e il simbolo più espressivo di quella inesausta carità che il divin Redentore nutre tuttora per il genere umano» (Pio XII, Lett. enc. Haurietis aquas, in Acta Apostolicae Sedis 38, p. 336).

Il cuore squarciato è evidentemente un segno dell’amore pasquale, che si concretizza nel dono della Chiesa, che è pertanto il frutto prezioso del sangue redentore e della misteriosa acqua dello Spirito o anche dell’acqua battesimale e del sangue eucaristico. L’“acqua” e il “sangue” sono il segno concreto della fecondità della croce; sono la continuazione misterica del «tutto è compiuto» (Gv 19,30) sospirato da Gesù dall’alto della croce. Il destino di grazia della Chiesa è pertanto quello di continuare il mistero della croce, di portarlo inciso sul suo cuore per sempre nell’opera di testimonianza e di missione che è chiamata a compiere «finché egli venga» (1Cor 11,26).

Che la Chiesa sia nata dalla croce è verità solida che ha tante dimensioni: nasce dall’attrazione di Cristo, che eleva a sé quanti chiama a far parte del popolo di Dio; nasce dal misterioso matrimonio che Cristo Sposo celebra, sigillandolo col suo sangue, con la Chiesa sposa, rappresentata sotto la croce da Maria, quale Figlia di Sion, quale Donna-Popolo; nasce dalla doppia consegna che il Crocifisso fa affidando il discepolo alla Madre e la Madre al discepolo. C’è, infine, un’altra nascita della Chiesa: è quella che la vuole generata dal cuore squarciato del Crocifisso.

La Chiesa nasce dal fianco del nuovo Adamo, che si è abbandonato sulla croce. Il sangue e l’acqua, che escono dal suo costato ferito simboleggiano – in una sintesi allusiva di tutto il mistero ecclesiale – il battesimo e l’eucaristia, i “sacramenti maggiori”, come li chiamava Abelardo, a significare che essi fanno la Chiesa.

La deduzione esistenziale di tale nascita da un cuore chiama la Chiesa ad assumere lo stile cordiale della Madre nella sua missione. È un mistero densissimo di sensi quello a cui la Chiesa è chiamata dal venerdì santo: essa nasce dal cuore del Figlio essenziale, la cui specialità è essere l’Amato; ella nasce dal cuore trafitto dell’Amato, vale a dire dal cuore che è al massimo colmo dell’amore del Padre: non dimentichiamo che la croce è la più grande offerta d’amore che il Padre fa al Figlio per permettergli di esprimersi al massimo di sé; e, infine, ella nasce dal cuore di un Figlio e di un Fratello, che sulla croce, di fatto, s’è espresso al massimo di sé, verso il Padre come Figlio essenziale e verso gli uomini come loro Fratello maggiore.

Dal cuore trafitto di Cristo si vede bene l’uomo

La manifestazione più radicale dell’amore – il cuore ferito del Crocifisso – rimanda alla scaturigine d’amore trinitaria, che è il cuore del Padre. Lo Spirito crea questo rapporto riempiendoci il cuore di amore e mettendoci in grado di amare il prossimo come Cristo ha amato e amandolo in nome di lui e per lui. L’amare il prossimo per Dio e in lui è la «illuminazione degli occhi del cuore» (Ef 1,8) ed è la prova inconfutabile che in noi «dimora il germe di Dio» (1Gv 3,9). L’amore fraterno è figlio perciò dell’amore divino; nell’amore agli altri si vive e si rivive il nostro incontro con Dio: «Ci rivolgiamo all’uomo e incontriamo Dio: è la sublimazione teologale della nostra relazione fraterna» (P. Arrupe, «In lui solo la speranza», p. 41).

Così il Dio d’amore – il Dio che «è amore» (1Gv 4,16) – è, insieme, fonte e fine dell’esperienza d’amore del nostro cuore, che, in tal modo, è il punto strategico della nostra avventura salvifica, che trova nel momento testimoniale della carità la sua espressione più responsabile e più meritoria.

Nella tradizione teologica della Chiesa, il Cuore di Cristo, trafitto a causa dei nostri peccati e per la nostra salvezza (cf. Gv 19,34), viene considerato come epifania dell’amore di Dio, come il simbolo e l’immagine trasparente dell’infinita carità di Gesù Cristo per l’uomo, che ci ha amati, tutti e ciascuno, «con un cuore umano», mai cessando di amarci con un «cuore divino» (Catechismo della Chiesa cattolica, 1992, n. 478).

Tuttavia, il cristianesimo resta pur sempre una religione per nulla facile, ma seria e perfino severa, che evita l’equivoco di una presentazione permissiva e semplificata di sé. Del resto, che sarebbe un cristianesimo sentimentalistico, senza croce, alla maniera di quello ipotizzato da Chateaubriand, definito da Sainte-Beuve, l’«avvocato poetico» del cattolicesimo? Resterebbe ben poco, anche se, va detto che il cristianesimo, in un altro senso, è la religione del cuore, perché è la religione di un Dio di cuori.

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