Aiutare a morire o imparare a vivere?

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Con grande rispetto e pari dolore ho letto su un quotidiano la lettera postuma di Loris Bertocco, che ha cessato di vivere in una clinica svizzera con un “suicidio assistito”.

Dell’intenso racconto di un calvario durato quarant’anni, colpisce in particolare il sentimento di solitudine non solo affettiva ma anche assistenziale, mancanza o carenza di servizi e supporti adeguati per fronteggiare una grave infermità, resa ancor più drammatica dalla condizione di ipovedente.

Proprio in base all’affermazione «amo la vita», Bertocco sviluppa «una lunghissima riflessione» che lo porta a «immaginare l’accompagnamento alla morte volontaria» e, infine, ad attuarla.

Anche stavolta si riaprirà il dibattito sull’eticità e la liceità di una scelta estrema come nessun altra, che interpella la società sotto il profilo religioso, filosofico, sociale, civile, legislativo e perfino economico.

La prima cosa di cui prendere atto è che, piaccia o non piaccia, viviamo in una società pluralista, nella quale si confrontano visioni della vita diverse, talora molto distanti e qualche volta contrapposte.

Semplifico per andare al sodo: una cosa è pensare che l’essere umano sia la casuale, imprevedibile combinazione di un insieme di cellule, altra è credere che, in principio, ci sia un Dio creatore che infonde nell’uomo il suo soffio vitale. E ancora: un conto è ritenere che, dopo la morte, saremo soltanto pasto per i vermi o cenere da spargere sui monti o nel mare, altro è affermare che la morte sia «rendere l’anima a Dio».

Naturalmente, trai due estremi, c’è tutta una serie di credenze, sensibilità e modi di porsi di fronte alla vita e alla morte.

Visioni molto diverse possono convivere in un quadro legislativo che “accontenti” tutti o almeno il maggior numero di cittadini? Le spinte al riconoscimento di tanti diritti “individuali” vanno o no controbilanciate con una serie di doveri che riguardano il singolo cittadino e l’intera comunità? È sufficiente – alla luce non di una fede religiosa, ma della Costituzione italiana – assicurare ad alcuni un percorso di “buona morte” (alla lettera: eutanasia), senza prima far sì che ogni vita, anche la più colpita da gravi menomazioni e infermità, sia vivibile? Che cosa può/deve fare lo Stato (e quindi il Servizio sanitario nazionale, le Regioni, le Aziende USL…) per «rimuovere gli ostacoli» che impediscono il pieno sviluppo della personalità di tutti i cittadini, a cominciare dai più bisognosi di cure?

Nella lettera sopra citata vengono enumerato i molti, troppi no e “ni” opposti a richieste insistenti, angosciose e reali, di servizi e supporti. Diciamolo fuor dai denti: la scelta di decisioni estreme, quante spese evita alla finanza pubblica? E poi: in che modo si deciderà per la “buona morte” di chi non è (o non è più) in grado di intendere e di volere?

Prima o poi, anche l’Italia arriverà a legiferare sulla materia e saranno così evitati i viaggi all’estero di chi ritiene di non farcela più a vivere. È probabile che questo diventi uno dei modi per rimuovere il “caso serio” della morte e, in certa misura, dichiarare che la vita umana è un bene di cui liberamente disporre.

Chiudo citando, anziché il Vangelo, due autori importanti della nostra letteratura: Cesare Pavese e Giuseppe Ungaretti. L’uno, il giorno prima di morire suicida in una camera d’albergo a Torino, lascia scritto «o Tu, abbi pietà». L’altro, immerso nella carneficina della prima guerra mondiale, affida a un verso il pensiero che «la morte si sconta vivendo».

Il Tu indeterminato di Pavese rimanda, comunque lo si voglia intendere, a Qualcuno al di là (e al di sopra?) di sé; per Ungaretti per guadagnarsi la morte bisogna vivere. E, aggiungo io, vivere bene, cioè non solo per sé ma per gli altri, soprattutto per chi sta peggio di noi.

Richiesta di pietà e senso di solidarietà in faccia alla morte non potrebbero essere la difficile ma possibile via che accomuna cristiani, credenti di altre fedi e non credenti, affinché la morte non cessi di renderci più umani? (da Il Tirreno, 15 ottobre 2017)

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