Europa: parziale apologia dell’élite

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L’alternativa è il nazionalismo becero

Venerdì scorso ho visto e ascoltato il discorso inaugurale del presidente Trump mentre correvo sul tapis-roulant a Bruxelles, in una palestra del quartiere UE. Trump si è scagliato contro l’establishment che, «per troppo a lungo ha protetto se stesso e non i cittadini (…), mentre le famiglie in difficoltà hanno ben poco da festeggiare». Mi sono guardato intorno e li ho visti, i membri dell’establishment, la controparte europea di quelli che Trump attacca in America. Si tratta di quell’élite che, qui in Europa, è messa sotto tiro dai vari Salvini, Grillo, Le Pen. Funzionari, giornalisti, lobbisti, diplomatici, rappresentanti del mondo della finanza e delle imprese. Tutti a correre sul tapis-roulant il venerdì sera, mentre dal maxischermo della palestra il neo-presidente americano sbraitava intenzioni vaghe e banali, come quella di voler «restituire il potere al popolo».

Trump, inoltre, sottolineava la necessità di ritornare al protezionismo economico e ad una visione globale basata sul principio di America first: l’America prima di tutto. Molti tra gli spettatori della palestra sembravano divertiti, altri parevano piuttosto preoccupati, disgustati, impietriti.

Nei giorni scorsi, molti sono stati i commenti, nel merito e nella forma, del discorso di Trump e della legittimità stessa di una tale narrativa da parte di un uomo che della stessa élite che critica tanto accanitamente è un facoltosissimo rappresentante, e non certo dei meno controversi. Per questo, più che soffermarsi sul discorso stesso, credo possa essere interessante volgere lo sguardo verso gli spettatori su quei tapis-roulant. Un campione tutto sommato rappresentativo della cosiddetta élite, che si assomiglia un po’ in tutto il mondo occidentale. Che – lo testimonia una ricchissima rassegna stampa degli organi d’informazione più prestigiosi – non aveva previsto la Brexit, non aveva visto arrivare Trump e che oggi teme il rafforzarsi dei populisti nelle elezioni previste quest’anno in paesi come l’Olanda, la Francia, la Germania e (forse) l’Italia. Quell’establishment – di stampo generalmente progressista, liberale e internazionalista – che negli ultimi mesi è stato messo alla graticola più del solito proprio per la sua incapacità di prevedere e comprendere la frustrazione dei popoli e i suoi (spesso nefasti) esiti elettorali.

Il dato umano

Senza pretese di intraprendere un’analisi sociologica, e basandomi su impressioni personali più che su dati o ricerche, credo si possano identificare due tipi di fattori per descrivere e comprendere questa élite transnazionale e la sua presunta distanza dalla gente comune: fattori di tipo umano-formativo, da un lato, e strutturale, dall’altro, tra loro inevitabilmente legati.

Sbaglia chi dipinge l’establishment solo come un esercito grigio di burocrati incravattati. In realtà, in un contesto internazionale come può essere quello di Bruxelles, le storie personali che compongono questa élite non potrebbero essere più ricche e variegate. Certo, non mancano i figli del privilegio. Quelli con il padre senatore e la madre giornalista, o chi proviene da generazioni di diplomatici di carriera. Ma più numerosi sono i figli della provincia, della classe media o medio-bassa. La funzionaria rumena che da bambina aveva l’acqua calda in casa solo un paio d’ore al giorno. O, più vicino a noi, il giovane abruzzese, nato da una famiglia di insegnanti, che ora gestisce un team in una multinazionale. Tutti portano con sé un bagaglio di esperienze che comprende studi universitari di alto livello, competenze linguistiche, esperienze all’estero, Erasmus, viaggi, letture appassionate, qualche sacrificio, battaglie e frustrazioni per farsi accettare in un ambiente di lavoro estremamente competitivo. Anche storie d’amore – spesso esse stesse internazionali.

C’è senz’altro dell’ambizione. A volte c’è anche voglia di riscatto: magari per percorsi personali e familiari non facili, per essersi sempre sentiti un po’ diversi dagli altri. Ma ci sono anche grande preparazione, grande entusiasmo, e quasi sempre anche una genuina voglia di fare bene, di mettere le proprie capacità al servizio di un’azienda, di un’istituzione, a volte di un ideale (come quello dell’integrazione europea). Ci sono competenze non comuni: capacità analitiche, leadership, resistenza allo stress, carisma, anche empatia. Se vi possono essere delle falle nel sistema della selezione di queste élite – e ve ne sono –, in maggioranza i suoi membri non sono certo degli usurpatori, ma personale di notevole valore umano e professionale.

La “sinistra al caviale”

Ciò detto, non ha del tutto torto chi parla di “sinistra al caviale”. La cultura progressista ha segnato il percorso umano e professionale di molti di loro: dalle famiglie alle università, sino al mondo del lavoro. Vi sono eccezioni, ma è un dato di fatto che la maggioranza degli esponenti dell’establishment internazionale siano liberal, tolleranti, aperti al mondo. Il “caviale” arriva dopo: quando questi giovani uomini e donne iniziano a sentirsi arrivati. Quando cominciano, chi più chi meno, a farsi coccolare da buoni stipendi – spesso legati a dinamiche di mercato: perché un’azienda possa contare su un tipo di capitale umano internazionale di quel livello, deve necessariamente offrire buone condizioni. Arrivano così le belle macchine, gli appartamenti costosi, le vacanze in luoghi esotici. Forse in quel momento anche chi viene da un ambiente familiare modesto inizia a perdere un po’ il contatto con la realtà, immerso com’è in un gruppo sociale certo diversificato per origine, ma per molti versi conforme nello stile di vita.

Il fattore strutturale

E giungiamo così ai fattori strutturali. Il più evidente è la segregazione degli spazi urbani: a Madrid come a Milano, a Parigi come a Londra, l’establishment vive in determinati quartieri, spesso fuori dalla portata di famiglie con introiti minori. Ma anche la cosiddetta segregazione algoritmica ha effetti importanti. Mi riferisco al fatto che i media digitali – in particolare i social network – tendano a proporre all’utente, tramite complicati algoritmi, informazioni e opinioni che assecondano i suoi gusti preesistenti e la visione del mondo che ha già. Ad esempio, un esponente medio della comunità internazionale di Bruxelles aprendo Facebook troverà articoli del New York Times critici verso Trump e la sua posizione sull’aborto, commenti sarcastici su Theresa May, l’invito a una mostra di Hopper o recensioni dell’ultimo film biografico su Pablo Neruda. Ben difficilmente entrerà in contatto coi commentatori seriali dei siti di informazione locale, coi followers di Salvini e i fan di Barbara D’Urso. Gli stessi che poi si scatenano, non solo online, ma anche nel segreto dell’urna.

Non che al tempo dei media di massa la situazione fosse poi così differente da ora: anche allora c’era chi leggeva le Monde Diplomatique e chi Novella 2000. Eppure i media tradizionali, a differenza dei social media, presentavano un prodotto chiaramente preconfezionato, di natura esplicitamente professionale. I social invece, danno l’impressione di aprire una finestra sulla “gente”. Ma si tratta ovviamente di una realtà filtrata e personalizzata, lontana anni luce dagli umori profondi dell’opinione pubblica. Eppure, forse inconsciamente, persino le élite – che pure di comunicazione dovrebbero intendersene – cadono in questo “tranello”, prendendo per realtà quel che invece ne è solo uno specchio deforme e parziale.

Tuttavia, sarebbe troppo comodo giustificare un’incapacità così evidente e grossolana di comprendere le dinamiche recenti dell’opinione pubblica da parte dell’élite, solo puntando il dito contro Facebook e Twitter. Esiste indubbiamente anche una certa pigrizia, c’è forse della presunzione, in ogni caso ci sono distanza e incomprensione. È probabile che le élite del passato non fossero affatto più interessate di quella di oggi al resto della popolazione e alle sue esigenze. Anzi, paradossalmente, quella attuale è forse l’élite occidentale sociologicamente più affine al resto della società da sempre. E tuttavia, con uno Zeitgeist attuale segnato dalle crisi – finanziaria, economica, migratoria, della legittimità politica – e dal populismo, distanza e incomprensione non sono più sostenibili. L’establishment farebbe bene dunque a fare ammenda, e a trovare possibili soluzioni per colmare tale distanza: soluzioni che potrebbero anche includere – ma certo non limitarsi a – la necessità di rivedere alcuni dei suoi privilegi.

Quale alternativa?

È dunque necessario un ravvedimento. Ma è necessaria anche la consapevolezza di quale sia la reale alternativa a questa “sinistra al caviale” internazionale, forse antipatica e distante, ma indubbiamente competente. L’alternativa sono essi stessi membri dell’establishment. In alcuni casi, come Trump e Le Pen, ne fanno parte da generazioni. L’alternativa è il nazionalismo becero, plebiscitario e strumentale, esso sì in palese malafede. Sono gli estremismi religiosi, i mille campanilismi ignoranti e sterili. L’alternativa sono le frontiere chiuse, le minoranze messe all’angolo e represse. L’alternativa è un’uguaglianza di genere solo di facciata e selettiva, che in realtà cela una visione della donna ferma agli anni ’50, relegata ai fornelli, bella e silente. Qualcuno pensa che saranno le destre nazionaliste e i miliardari a dar voce alle ingiustizie sociali, a occuparsi degli operai. Mi permetto di dubitarne.

È possibile che ci attendano anni di chiusura delle frontiere, dei mercati, e forse anche degli spiriti. Per capire come ci siamo arrivati, come uscirne, o anche solo per esercitare un minimo di resistenza politica e culturale a questa valanga di demagogia e di imbruttimento collettivo, forse sarà necessario l’intervento proprio della tanto screditata élite internazionale e progressista. Essa – aperta, tollerante, tutto sommato colta, figlia dell’apertura delle frontiere – al netto dei suoi limiti e dei suoi errori, sembra ancora l’unico gruppo sociale in grado di avere un ruolo guida in questo processo.

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